Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36859 del 16/01/2013

Penale Sent. Sez. 5 Num. 36859 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: MICHELI PAOLO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
1. A.A.
2. B.B.
3. C.C.
4.D.D.
5. E.E.

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano del 18/02/2012

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta, all’udienza del 16/10/2012, dal consigliere Dott. Paolo
Micheli;
uditi, all’udienza suddetta:

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.
Giuseppe Volpe, che ha concluso

– sollecitando il collegio a valutare

comunque se rimettere alle Sezioni Unite di questa Corte la questione della
rilevanza penale di una condotta elusiva sul piano tributario – chiedendo

Data Udienza: 16/01/2013

l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine al reato di
cui al capo F/2, ascritto ad E.E., perché estinto per
prescrizione;

l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in ordine ai reati di
cui ai capi B/7, B/9 (limitatamente alla dichiarazione del 28/10/2004), E/1,
H/1 (limitatamente alle fatture del 2004), E/3bis, G/1, C/2, D/1, D/2,
ascritti a A.A. e B.B., perché
estinti per prescrizione, nonché in ordine ai reati dei capi B/13

(limitatamente alla dichiarazione del 2004), D/3, ascritti al A.A.,
perché del pari estinti per prescrizione, con eliminazione delle pene relative
ai suddetti reati;
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, quanto a B.B., relativamente ai capi H/1 (fatture del 2005), B/16 ed H/2, per
non avere l’imputato commesso il fatto, eliminando le relative pene;
l’annullamento senza rinvio, quanto a A.A., B.B. e C.C.,
relativamente ai capi H/2 e G/2, perché i fatti non sussistono, eliminando le
relative pene;
l’annullamento delle statuizioni civili concernenti la provvisionale, con rinvio
a tali limitati fini al giudice civile competente, in ragione della parziale
assoluzione degli imputati A.A., B.B. e C.C.;
il rigetto del ricorso relativo a D.D. e, nel resto, di quelli
relativi a A.A., B.B. e C.C.;
l’adozione di ogni conseguente provvedimento;

OMISSISS

i quali tutti hanno chiesto in via principale l’accoglimento dei rispettivi ricorsi, e
l’annullamento della sentenza impugnata

RITENUTO IN FATTO

1. Il 18/02/2012, la Corte di appello di Milano riformava parzialmente la
sentenza emessa dal Tribunale della stessa città in data 18/04/2011, statuendo
fra l’altro:

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(limitatamente alla dichiarazione del 27/10/2004), 1/1, 1/3, 1/4, 1/6

– non doversi procedere nei confronti di A.A. e
B.B. (in concreto, anche nei confronti di C.C., al di là di
quanto specificato in dispositivo) in ordine ad alcuni dei reati loro contestati,
perché estinti per sopravvenuta prescrizione;
– che la dichiarazione di penale responsabilità nei riguardi del B.B. quanto al
reato sub A) (ipotesi di associazione per delinquere, costituita con il suddetto
A.A. quale capo e promotore, nonché con i compartecipi D.D.,
Zamparelli e Bellen, gli ultimi due separatamente giudicati) doveva intendersi

– l’assoluzione dello stesso B.B. dal reato contestatogli al capo B17) (ipotesi
di emissione di fattura a fronte di operazione inesistente), per non avere egli
commesso il fatto;
– la rideterminazione delle pene inflitte in primo grado al A.A., al B.B.
ed al C.C., riducendo le sanzioni nella misura di giorni 15 di reclusione per
ciascuno degli episodi loro riferibili e da ritenere estinti ex art. 157 cod. pen., con
la conseguente commisurazione della pena in anni 7, mesi 3 e giorni 15 di
reclusione per il A.A., anni 4 di reclusione per il B.B. ed anni 1 e mesi 6
di reclusione per il C.C.;
– la riduzione della pena irrogata dal Tribunale a D.D. [per
l’anzidetto reato associativo di cui al capo A)], fino ad anni 1 e mesi 4 di
reclusione.

2. Il processo riguardava le vicende del cosiddetto “gruppo Mythos”, definito
già nella sentenza di primo grado una «realtà imprenditoriale e professionale
operante a Milano fin dai primi anni Novanta», avente «quale oggetto principale
l’attività finanziaria di compravendita di partecipazioni e predisposizione di
prodotti fiscali per l’impresa». Gli accertamenti su detto gruppo avevano preso
le mosse dall’arresto di uno dei soci storici (il B.B., detentore del 33,3%
delle quote; il residuo 66,6% faceva invece capo al A.A.) per episodi di
corruzione di funzionari dell’Agenzia delle Entrate: nello sviluppo delle indagini
era fra le altre emersa la figura di E.E., pubblico ufficiale in servizio
presso l’Esatri di Milano, che si riteneva essere stato corrotto dagli stessi
A.A. e B.B. al fine di accelerare le pratiche di rimborso di crediti di
imposta, talora non dovuti affatto, in favore del suddetto gruppo. Quest’ultima
ipotesi di reato era tuttavia riqualificata, già dai giudici di primo grado, come
corruzione impropria susseguente.
Da successive verifiche fiscali e indagini di polizia giudiziaria, anche
attraverso il sequestro del server di posta elettronica del gruppo Mythos, era
emerso – sempre in base alla ricostruzione operata dai giudici di prime cure –

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relativa al periodo fino al 29/09/2005;

che sotto l’egida della medesima Mythos venivano a ricomprendersi
numerosissime società, tutte con identica sede legale e molte da considerare non
operative o «di magazzino, costituite ed accantonate come fossero merce». Il
Tribunale segnalava fra l’altro che l’esame della corrispondenza informatica
rendeva evidente che, «quando un professionista utilizzava una di queste società
per le operazioni a lui affidate, ne dava comunicazione agli altri professionisti,
appunto via

mali,

affinché non vi fosse un contemporaneo utilizzo della

medesima società, ciò che rappresenta un primo, forte elemento di sospetto

ritenersi «indici sintomatici dell’assenza di una reale consistenza economica»
anche la denominazione seriale di molte delle società in questione
(esemplificativamente, “Ebea”, “Ecea”, “Edea”, “Egea” ed a seguire, oppure con
nomi di piante od animali), la forma utilizzata per la costituzione delle stesse (in
gran parte, società di persone aventi per oggetto la gestione di imprese agricole,
del tutto eterogeneo rispetto alle operazioni poi poste in essere all’interno del
gruppo avvalendosi di quei soggetti giuridici), e la circostanza che una stessa
persona fisica ne risultava legale rappresentante, al contempo, di alcune
centinaia (il C.C., fra gli altri, appariva amministratore di 390 società).
Le indagini avevano portato quindi a far emergere, secondo l’ipotesi
accusatoria, una associazione per delinquere costituita fra i soci di riferimento
del “gruppo Mythos” (A.A. e B.B.) e i dirigenti dei segmenti operativi
del gruppo (Z. per l’area fiscale, B. per quello finanziario-bancario e
D.D. per quello aziendale): struttura volta alla commissione di una
pluralità indeterminata di reati di natura fiscale, in particolare correlati
all’emissione di fatture per operazioni inesistenti ed al successivo utilizzo delle
stesse per la presentazione di dichiarazioni fraudolente, a vantaggio dei clienti
del gruppo medesimo. Stando alla motivazione della sentenza del Tribunale, i
cui argomenti venivano sinteticamente richiamati ma espressamente condivisi
dalla Corte di appello, assumeva decisivo rilievo l’inquadramento del concetto di
“elusione” (dell’imposizione tributaria), osservando che le operazioni societarie
contestate dal P.M. agli imputati nel presente processo – alcune delle quali
rientranti nella figura del c.d. dividend washing, altre nello schema del manfee,
strutture negoziali di cui veniva fornita una puntuale descrizione in entrambe le
pronunce di merito – non avrebbero potuto qualificarsi nei termini anzidetti.
I giudici di primo grado davano infatti atto di condividere espressamente gli
argomenti esposti dalla difesa circa «la definizione del comportamento elusivo
come utilizzo anomalo di un determinato schema negoziale, produttivo di effetti
giuridici, per ottenere un risultato economico fisiologicamente ottenibile con un
diverso strumento, aggirando obblighi e/o divieti, in mancanza di valide ragioni

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sull’effettività delle operazioni che tale società riguardavano»; inoltre, dovevano

economiche diverse dal vantaggio fiscale, secondo la definizione offerta dall’art.
37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973»; ribadivano altresì, in linea con gli assunti
difensivi, «l’irrilevanza penale […] di comportamenti genericamente elusivi e di
abuso del diritto, poiché […] anche le più recenti pronunce si limitano a colpire
solo sul piano civilistico ed economico/tributario il risparmio fiscale anomalo, in
omaggio al principio di tassatività che caratterizza la materia penale»;
concordavano infine sulla «legittimità della compensazione quale strumento di
pagamento delle imposte». Tuttavia, il Tribunale di Milano segnalava che «il

veridicità dei dati, mentre l’intervento penale nel settore tributario è stato
costantemente ispirato alla logica di colpire comportamenti infedeli, strumentali
all’omesso o ridotto pagamento dell’imposta e idonei a trarre in inganno
l’Amministrazione finanziaria circa il corretto adempimento dell’obbligazione
pecuniaria. Rispetto alla riforma del 1982, il legislatore del 2000, nel
concentrare la sua attenzione sulla veridicità delle dichiarazioni, ha ribadito la
volontà di eleggere ad oggetto immediato della tutela penale non tanto
l’interesse fiscale, quanto la “funzione di accertamento” che le infedeltà del
contribuente rischiano di compromettere. In altri termini, ciò che si è voluto
punire non è tanto il mancato versamento del tributo […], quanto il potenziale
lesivo insito nella presentazione di dichiarazioni mendaci, idonee ad indurre in
errore l’Amministrazione finanziaria sulla stessa legittimità di versamenti
eventualmente incompleti od omessi. Secondo questa interpretazione, dunque,
assume rilievo penale ogni condotta decettiva, fondata cioè sulla falsa
rappresentazione di una realtà».
Perciò, stando ai giudici di primo grado, una operazione di dividend washing
avrebbe potuto qualificarsi meramente elusiva – come già affermato da
precedenti arresti della giurisprudenza di legittimità, in sede civile – facendosi
richiamo «alla natura reale e non simulata dei negozi, all’effettività di cessione e
retrocessione di partecipazioni ovvero della partecipazione di utili, al concreto
scambio di prestazioni contrattuali». Al contrario, l’attenzione del legislatore
verso i fenomeni decettivi sopra ricordati avrebbe dovuto imporre di considerare
anche ai fini penalistici «senz’altro il negozio oggetto di simulazione assoluta, o il
negozio nullo per mancanza di causa o di altri elementi essenziali», nonché «in
determinate ipotesi quello relativamente simulato, in cui cioè la volontà delle
parti non corrisponde alla causa tipica dello strumento giuridico utilizzato, ma in
cui vi è un effettivo scambio di prestazioni contrattuali e, in conseguenza, una
corrispondente modificazione della realtà sotto il profilo “naturalistico” e
giuridico». Ad avviso del Tribunale, in definitiva, «l’effettività o meno dei negozi
giuridici utilizzati per conseguire il vantaggio fiscale […] rappresenta lo

fenomeno elusivo è per sua stessa natura connotato dalla trasparenza e

spartiacque tra negozio almeno parzialmente reale e negozio simulato, tra
un’interposizione soggettiva reale e una fittizia, come nel caso di società prive di
reali oggetto e scopo sociale da conseguire, e dunque esistenti solo sulla carta.
Quanto a quest’ultimo profilo, è evidente che si tratta dell’artificiosa creazione di
un rapporto intersoggettivo al fine di realizzare intestazioni di ricchezza fittizie o
di comodo, e ciò a maggior ragione quando si aggiunga lo strumentale
frazionamento di un reddito (reale o fittizio) in capo a più soggetti d’imposta.
Simili condotte sono infatti intrinsecamente idonee a trarre in inganno gli organi

all’accertamento medesimo. L’assenza di una valida ragione economica diversa
dal risparmio fiscale, in sé non rilevante in assoluto secondo il disposto del citato
art. 37-bis, potrà venire tuttavia in considerazione quale potenziale elemento
sintomatico di frode […]. Analogamente, la pacifica legittimità dell’istituto della
compensazione come modo di estinzione dell’obbligazione tributaria viene meno
se le poste attive o passive da portare in compensazione non sono effettive, ma
create ad arte o anche solo imputate ad arte ad una o ad altra società – priva di
rapporti con l’Erario poiché esistente solo sulla carta e non operativa – a
seconda della convenienza fiscale».

3. La Corte di appello di Milano, come già ricordato, richiamava
espressamente le argomentazioni sviluppate dal Tribunale sulle principali
questioni di merito affrontate, riportandosi alla giurisprudenza secondo cui «non
vi è inadempimento all’obbligo di motivazione nel caso in cui il giudice di appello
abbia accertato e valutato il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli
usati dal giudice di primo grado, limitandosi a far riferimento a quanto, sul
punto, affermato da quest’ultimo» ed osservando che in base a consolidati
arresti di legittimità «la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda
con quella precedente per formare un unico complesso argomentativo». Sugli
specifici motivi di gravame prospettati nell’interesse dei vari imputati, la Corte
territoriale precisava – fra l’altro – quanto segue.
3.1 Su alcune eccezioni di nullità sollevate nell’interesse del A.A., che
lamentava l’illegittimità di ordinanze del Tribunale reiettive di istanze di rinvio
per impedimento del difensore (nonché per adesione del difensore medesimo ad
un’astensione dall’attività di udienza indetta da organismi dell’Avvocatura), i
giudici di appello ritenevano congruamente motivati i provvedimenti di rigetto,
perché fondati sia sulla necessità di operare un bilanciamento fra i diversi
processi da celebrare, alla luce della particolare complessità di quello in oggetto,
sia sulla incompletezza delle allegazioni difensive circa i concomitanti impegni
professionali e l’impossibilità di reperire un sostituto; in ordine al mancato

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preposti all’accertamento tributario, o comunque a frapporre un serio ostacolo

accoglimento della richiesta di rinvio in concomitanza della ricordata astensione
di categoria, la Corte condivideva parimenti il contenuto dell’ordinanza
impugnata, che sottolineava come lo stesso codice di autoregolamentazione per
gli esercenti la professione forense escludesse la possibilità di rinviare processi
riguardanti reati con prescrizione a scadere nei 90 giorni successivi (come nella
fattispecie, a proposito di talune delle ipotesi contestate). In ogni caso, i giudici
di secondo grado rilevavano che a quella specifica udienza – in cui erano
previste le repliche delle parti durante la discussione finale – il difensore del

dell’atto” e sanando ogni eventuale vizio.
La Corte territoriale disattendeva altresì un’eccezione di nullità del decreto di
rinvio a giudizio, fondata sulla presunta genericità delle contestazioni di reato: al
contrario, riteneva che i capi d’imputazione fossero oltremodo analitici, tanto da
avere certamente consentito l’esplicarsi del diritto di difesa.
Non condivideva poi l’ulteriore doglianza difensiva circa l’inutilizzabilità di
buona parte degli atti di indagine, con riguardo al reato di associazione per
delinquere, perché oggetto di tardiva iscrizione nel Registro Generale delle
Notizie di Reato: sul punto, osservava da un lato che doveva intendersi
comunque riservata al P.M. la decisione sul momento in cui potesse configurarsi
a tutti gli effetti una notitia criminis suscettibile di iscrizione, e dall’altro che il
problema risultava superato dall’intervenuta escussione di una pluralità di
testimoni sugli stessi fatti storici oggetto degli atti di indagine in ipotesi non
utilizzabili.
I giudici di secondo grado consideravano quindi perfettamente rituale
l’acquisizione delle comunicazioni e-mail, segnalando che tra il contenuto dei
supporti informatici forniti dagli imputati e quello delle stampe provenienti dal
P.M. vi era piena corrispondenza: trattandosi peraltro di documenti consultabili
con programmi di comune utilizzo, non vi erano i presupposti per dare corso ad
accertamenti peritali, impropriamente sollecitati ex art. 603 cod. proc. pen.
3.2 In ordine alla sussistenza dell’associazione per delinquere, la Corte di
appello di Milano – richiamati i principi di fondo sulla configurabilità del reato in
genere – tornava a ribadire le motivazioni adottate sul punto dal Tribunale,
segnalando quali elementi indicativi di una struttura stabilmente dedita alla
commissione di reati fiscali e contro il patrimonio il ricorso a periti compiacenti,
l’esistenza di una rete di contatti del gruppo Mythos con funzionari di banca e
addetti agli uffici finanziari, l’impiego di prestanome per la rappresentanza delle
società create ad hoc e le caratteristiche seriali degli stessi reati fine: l’attività
degli imputati, pertanto, non poteva ritenersi «improvvisata e periodica», tanto
più che era emerso come gli stessi avessero «introdotto modifiche, funzionali alla

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A.A. aveva comunque partecipato, così mostrando di “accettare gli effetti

commissione di delitti, alla struttura già dedita a finalità lecite, asservendola così
alle finalità dell’associazione». Infatti, così confermando il ruolo di promotore
contestatogli nel capo d’imputazione, doveva intendersi appurata la creazione da
parte del A.A., a partire dai primi anni 2000, di «una parallela struttura
finalizzata a predisporre prodotti fiscali illeciti a favore dei clienti, che nello
stesso tempo consentissero a professionisti e società del gruppo di conseguire
indebiti vantaggi fiscali»: il A.A., che nelle dichiarazioni rese aveva peraltro
rivendicato un proprio ruolo di dominus all’interno del gruppo, si era avvalso

state realizzate in concreto da quest’ultimo le iniziative volte alla corruzione di
pubblici ufficiali che avevano occasionato l’inizio delle indagini), nonché dei
vertici delle diverse aree operative del gruppo medesimo. Fra questi ultimi vi era
il D.D., responsabile dell’area aziendale al cui interno venivano elaborate
le perizie di comodo, spesso ricorrendo all’escamotage di far trasferire la sede
legale delle ditte interessate in quel di Pesaro, presso il cui Tribunale le perizie
stesse venivano asseverate da un professionista legato alla Mythos.
La partecipazione del B.B. al sodalizio criminoso

– da limitare

comunque sul piano cronologico sino al 29/09/2005, data del suo arresto – era
stata peraltro di fatto confermata da alcuni testimoni e da coimputati che
avevano altrimenti definito la propria posizione processuale (come il Bellen,
responsabile dell’area finanziaria-contabile), le cui dichiarazioni attestavano il
comportamento attivo dello stesso B.B. in più operazioni fra quelle
contestate in rubrica: la sigla “BER” risultava poi nelle comunicazioni

e-mail

esaminate fra quelle indicative dei rispettivi destinatari, a riprova della
circostanza che egli veniva informato circa gli aspetti rilevanti delle varie attività
illecite. Assumevano infine particolare significato sia la titolarità da parte del
B.B. di deleghe bancarie che gli consentivano di operare sui conti di società
interessate dalle operazioni anzidette, sia la circostanza che egli risultava aver
conseguito vantaggi fiscali a seguito di talune operazioni di dividend washing.
Quanto al D.D., la Corte rilevava che il ruolo dell’imputato doveva
intendersi analiticamente spiegato nelle motivazioni della sentenza del Tribunale,
senza che nei motivi di gravame quegli argomenti fossero stati in qualche modo
contrastati; ribadiva che il “compito specifico” in cui veniva a sostanziarsi la
partecipazione del prevenuto all’associazione criminosa derivava dalla sua
posizione di dirigente dell’area aziendale, vale a dire del settore nel cui ambito
erano organizzate le perizie di comodo sopra richiamate, tutte da considerare
«ideologicamente false poiché in esse il sottoscrittore attesta aver svolto
personalmente tutta una serie di attività che in realtà risultavano svolte da altri o
addirittura non svolte (quali sopralluoghi o riunioni di lavoro con i responsabili

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della collaborazione del B.B., suo socio storico (tanto che, fra l’altro, erano

delle società conferenti, esame di documentazione)». Né poteva assumere
rilievo, come sostenuto dalla difesa del D.D., la circostanza che il
presunto perito compiacente, operante a Pesaro (tale Perrone), fosse stato
assolto, giacché la sentenza liberatoria nei confronti di quest’ultimo derivava dal
fatto che egli «non era in grado di sapere a cosa le perizie servissero».
Secondo la Corte di appello di Milano, era da considerare provato che il capo
area D.D. avesse avallato quella metodologia di lavoro e coordinato gli
addetti al settore aziendale: sul punto, dovevano richiamarsi – oltre ai dati logici

pluriennale attività prestata per il gruppo – i contenuti di una mail inviata dal
A.A. all’imputato espressamente menzionata nella sentenza di primo grado,
e tutte le altre mali in argomento che lo stesso D.D. risultava aver
ricevuto dallo stesso A.A. o dallo Zamparelli, indicato dai giudici di appello
come «il soggetto maggiormente coinvolto a livello associativo con specifico
riferimento alle operazioni di carattere fiscale».
3.3 A proposito dei reati-fine contestati, la Corte territoriale segnalava che le
doglianze degli appellanti riguardavano essenzialmente tre aspetti, relativi alla
contestata natura fittizia dell’operazione di finanziamento sottesa ad una delle
vicende descritte in rubrica (il c.d. “prestito Moretti”), alla dedotta inconciliabilità
di un contemporaneo addebito ex artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 ed
all’impossibilità di qualificare alcune ipotesi di truffa indicate nei capi di
imputazione ai sensi dell’art. 10-quater del citato d.lgs.
Quanto al primo profilo, i giudici di appello rappresentavano come pacifica la
circostanza che il prestito – pari a 6 milioni di euro – risultava rientrato a chi lo
aveva erogato nello stesso giorno della apparente disposizione, comportando un
vantaggio fiscale di 20.000,00 euro alla volta per ciascuno dei passaggi
intermedi, a nulla rilevando che si trattasse di operazioni a saldo zero: quel che
contava, al contrario, era la evidente non effettività del finanziamento, dietro lo
schermo del quale si era illecitamente venuto a commutare un reddito da società
in reddito da capitale.
Circa la dedotta impossibilità di contestare al contempo reati di emissione di
fatture per operazioni inesistenti e reati di utilizzo delle stesse fatture in
dichiarazione, la Corte osservava che il meccanismo derogatorio all’art. 110 cod.
pen. previsto dall’art. 9 del d.lgs. n. 74 del 2000 può operare solo laddove si
presupponga che i soggetti emittenti ed utilizzatori siano diversi, rispondendo il
legale rappresentante della società emittente solo del reato di cui all’art. 8, e
quello della società utilizzatrice dell’addebito ex art. 2: nel caso di specie, però,
doveva rilevarsi che le persone fisiche rappresentanti le due società erano – per
le operazioni contestate – le stesse, per cui venivano a rispondere dei vari reati

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derivanti dalla qualifica di dottore commercialista dell’imputato, e dalla

a titolo di autonoma responsabilità, e non già come emittente concorrente con
l’utilizzatore (o viceversa), ai sensi dell’art. 110 cod. pen., non ponendosi
dunque un problema di applicabilità del ricordato art. 9.
In ordine alla derubricazione delle truffe nella diversa ipotesi di cui all’art.
10-quater dello stesso d.lgs. n. 74, i giudici di secondo grado rilevavano che si
era trattato di una scelta favorevole agli imputati, essendo la norma
sopravvenuta sanzionata meno gravemente e certamente suscettibile di
applicazione in quanto lex specialis (prevedendo il superamento di date soglie di

Corte – n. 1235 del 28/10/2010, Giordano – circa il rapporto di specialità
esistente fra le ipotesi criminose in tema di frode fiscale ed il reato di truffa
aggravata ai danni dello Stato.
3.4 Trattando infine della posizione dell’E.E., la Corte territoriale
confutava le argomentazioni difensive circa l’impossibilità di considerare
l’imputato un pubblico ufficiale: malgrado il carattere privato della società presso
cui egli prestava attività lavorativa (la Esatri – Esazione Tributi – S.p.a.), il
prevenuto doveva infatti considerarsi equiparato ad un ufficiale esattoriale,
potendo quietanzare pagamenti effettuati dai contribuenti, e la società in
questione era correttamente da intendere concessionaria di un pubblico servizio.
Né assumeva rilevanza la mancata individuazione dello specifico atto contrario ai
doveri d’ufficio che sarebbe stato retribuito con l’utilità corruttiva contestata
(orologi di valore), avendo l’Alannpi messo stabilmente la propria funzione a
disposizione del gruppo Mythos («chiamava il centro di Pescara per accelerare i
rimborsi, mandava numerose e-mails, colloquiava periodicamente con Zamparelli
per metterlo al corrente in modo esclusivo delle pratiche, con abuso della propria
posizione e non come un soggetto che dia informazioni a qualsivoglia
contribuente»), così vanificando la funzione demandatagli.

4. Avverso la pronuncia segnalata in epigrafe propongono ricorso i difensori
del A.A..
4.1 Con un primo motivo, si deduce inosservanza degli artt. 178 comma 1,
lett. c), 179, 185 e 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., in ragione della già
eccepita nullità delle udienze tenutesi dinanzi al Tribunale di Milano il 12 febbraio
e 3 marzo 2010, con conseguente nullità dell’intera sequenza procedimentale
successiva (comprese le sentenze di primo e di secondo grado)
Nell’interesse del A.A., si fa presente che in occasione della prima delle
due udienze sopra indicate il spo allora unico difensore (Avv. Steinberg) era
contemporaneamente impelb dinanzi ad uffici giudiziari di Piacenza quale
parimenti unico difensore di persona detenuta; la circostanza era stata

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punibilità). Richiamavano quindi i principi espressi dalle Sezioni Unite di questa

tempestivamente rappresentata con apposita istanza, nella quale veniva
segnalato come fosse impossibile per l’Avv. Steinberg nominare sostituti
processuali per assistere il A.A., essendo programmata per l’udienza del 12
febbraio 2010 l’escussione di testimoni decisivi (ritenuti effettivamente tali anche
nella ricostruzione dei fatti svolta nella sentenza del Tribunale), sì da non essere
percorribile l’ipotesi di una sostituzione con un collega estraneo allo studio, non a
conoscenza del complesso quadro degli addebiti e dell’attività processuale svolta
fino a quel momento, mentre era al contempo inibita la possibilità di designare la

detenuto.
Tuttavia, il Tribunale aveva rigettato la richiesta fondando la propria
decisione su rilievi di maggiore importanza e di ordine cronologico dei processi
posti in comparazione, dimenticando peraltro che simili aspetti non potrebbero
assumere rilievo qualora il contestuale impegno difensivo riguardi procedimenti a
carico di detenuti; né poteva giustificarsi la mancata adesione all’istanza di rinvio
sulla base della presunta, imminente prescrizione dei reati di cui al processo da
rinviare, atteso che i relativi termini sarebbero stati comunque sospesi in caso di
accoglimento della richiesta difensiva, addirittura – secondo un orientamento
giurisprudenziale del quale la difesa aveva dato correttamente contezza – senza
neppure che la sospensione operasse per soli sessanta giorni.
A riguardo, facendo seguito al puntuale motivo di appello sviluppato
nell’interesse del A.A., la Corte territoriale – con motivazione che la difesa
reputa del tutto carente, perché non rispettosa dei dettami del codice di rito e
comunque priva di un pur minimo contenuto esplicativo – risulta essersi limitata
ad argomentare che i giudici di primo grado avevano rigettato la richiesta,
«rilevando che era necessario un bilanciamento tra i diversi processi, mettendo
in luce proprio la complessità di quello in oggetto».
Analogamente era accaduto in occasione dell’udienza del 3 marzo 2010,
quando l’Avv. Steinberg aveva rappresentato di essere impegnato dinanzi alla
Corte di assise di appello di Firenze nella difesa di un soggetto accusato di
omicidio, sottoposto a custodia cautelare; per ragioni analoghe a quelle già
svolte il 12 febbraio, il difensore aveva segnalato di non potersi far sostituire da
colleghi non appartenenti allo studio (anche il 3 marzo, si trattava di escutere
testimoni fondamentali) e che la collaboratrice era impegnata
contemporaneamente in ben tre processi ulteriori, dinanzi ad Autorità giudiziarie
di altre sedi.
In quella circostanza, il Tribunale aveva argomentato che non risultava
adeguatamente comprovata l’impossibilità per l’Avv. Steinberg di provvedere alla
nomina di sostituti, che il suo impegno a Firenze derivava da un rinvio disposto

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collaboratrice di studio, a sua volta impegnata a Monza nella difesa di un

ad udienza successiva – il 17/02/2010 – a quella in cui si era tenuta l’ultima
udienza del presente processo (e il 17 febbraio il legale non si era premurato di
comparire a Firenze, né di farsi sostituire da chi avrebbe potuto informare quella
Corte su eventuali ragioni di impedimento del difensore titolare in giorni di
potenziale rinvio), che non tutti i contemporanei impegni professionali
risultavano documentati, e – ancora una volta – che si imponeva la necessità di
«evitare la prescrizione per un cospicuo numero di imputazioni».
Motivazioni, tutte, incongrue malgrado il successivo avallo da parte della

la delicatezza e complessità della presente vicenda dimostrava in re ipsa

l’impossibilità di ricorrere in pochi giorni a difensori ignari del contenuto degli
atti;

la Corte di assise di appello di Firenze, dovendo giudicare un imputato in

vinculis,

avrebbe potuto comunque disattendere il calendario fissato dal

Tribunale di Milano in un processo a carico di persone non detenute;
– solo uno dei quattro processi oggetto di impegno da parte dell’Avv.
Steinberg e della sua collega di studio non risultava documentato nell’istanza di
rinvio (ma ne era stato comunque indicato il numero di R.G.);

la prescrizione sarebbe stata impedita dall’impossibilità di far decorrere i

relativi termini a seguito di richiesta di rinvio presentata da un difensore.
4.2 Con il secondo motivo, i difensori del A.A. deducono analoghi vizi,
quanto all’eccezione di nullità dell’udienza tenutasi dinanzi al Tribunale di Milano
il 15 aprile 2011, ancora una volta con conseguente nullità degli atti successivi,
fra cui le due sentenze di merito.
Con riferimento a detta udienza, la difesa segnala che in quella occasione il
legale dell’imputato dichiarò di aderire ad un’astensione di categoria, e non di
meno il Tribunale decise di disattendere la richiesta di differimento, facendo
nuovamente leva sulla prospettiva della imminente prescrizione di più reati e
richiamando il disposto dell’art. 4 del codice di autoregolamentazione
del l’Avvocatu ra.
A tali argomenti la difesa aveva obiettato, nei motivi di appello, che
certamente nei casi di rinvio del processo su richiesta del difensore che aderisce
ad astensioni proclamate da associazioni di categoria i termini di prescrizione
rimangono sospesi fino all’udienza successiva; la Corte territoriale, però, aveva
condiviso l’ordinanza dei giudici di primo grado, segnalando come la
giurisprudenza di legittimità avesse già affermato la preclusione per un difensore
di astenersi dalle attività di udienza nei casi di reati la cui prescrizione venga a
maturare nei 90 giorni successivi (appunto, conformemente al dettato
dell’anzidetto art. 4 del codice di autoregolamentazione). Inoltre, la Corte di

12

sentenza impugnata, giacché secondo la difesa:

appello di Milano aveva evidenziato che la difesa del A.A. si era comunque
determinata a svolgere la propria attività in quell’udienza, dove erano previste le
ultime repliche, prima che il Tribunale si ritirasse in camera di consiglio, così
accettando gli effetti dell’ordinanza di rigetto dell’istanza di rinvio e dunque
sanando l’ipotizzato vizio.
Nell’odierno ricorso, i difensori dell’imputato lamentano che l’indirizzo
giurisprudenziale ricordato dalla Corte non risulta univoco, dovendosi peraltro
tenere presente che il citato termine di 90 giorni viene previsto dal codice di

merito. Espongono altresì che all’atto dell’udienza del 15 aprile 2011 non vi fu
alcuna replica nell’interesse del A.A. (contrariamente a quanto risulta dalla
verbalizzazione riassuntiva), giacché il difensore prese la parola soltanto per
ribadire la propria volontà di aderire all’astensione, e dunque per rappresentare
di trovarsi costretto a rinunciare alle contro-repliche.
4.3 Con il terzo motivo viene ribadita l’eccezione di indeterminatezza e
genericità di tutti i capi di imputazione [ad eccezione di quelli di cui ai capi B-5),
B-9), B-14), D-2) e D-4)], deducendosi pertanto violazione dell’art. 429, comma
1, lett. c), cod. proc. pen.: secondo la tesi esposta, i capi della rubrica in
argomento debbono considerarsi privi del connotato di “enunciazione in forma
chiara e precisa del fatto” imposto dalla legge processuale; ciò perché, fra l’altro,
i numerosissimi addebiti qualificati ai sensi degli artt. 2 od 8 del d.lgs. n. 74 del
2000 e presenti in rubrica dovrebbero ascriversi all’imputato in base ad incerte e
mai chiarite vesti di “responsabile in seno al gruppo Mythos della organizzazione
e della gestione finanziaria, economica e fiscale delle società” (unitamente ai
coimputati B.B., Zamparelli e Bellen), ovvero di “amministratore di fatto
delle società del gruppo Mythos”. La evanescenza di quelle posizioni soggettive,
come già rappresentato affrontando in sede di merito la medesima questione
mediante rituali e tempestive eccezioni di nullità, non consentirebbe all’imputato
di esercitare adeguatamente le facoltà difensive, tenendo conto che le fattispecie
penali in tema di emissione od utilizzo di fatture per operazioni inesistenti
debbono considerarsi reati propri, la cui condotta tipica può essere realizzata
solo dal legale rappresentante di una ditta o dal soggetto tenuto alla
dichiarazione fiscale; inoltre, la necessità di una descrizione analitica della
condotta è imposta dall’esclusione della possibilità di concorrere al contempo in
reati ex art. 2 e 8 del citato d.lgs., «in ragione della assoluta peculiarità
dell’elemento psicologico sotteso alle diverse condotte, nel senso che il fine di
perseguire l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto postula un
rapporto di terzietà fra il soggetto emittente e quello che utilizza il documento».

13

autoregolamentazione con riferimento al giudizio di legittimità e non alle fasi di

Ergo, ad avviso dei ricorrenti l’individuazione del A.A. come generico
corresponsabile della gestione non soddisferebbe l’esigenza appena descritta,
non consentendo in alcun modo di comprendere quale contributo concreto egli
avesse dato alle singole operazioni ritenute illecite; tanto più che già all’esito
dell’udienza preliminare risultava chiaramente come l’imputato non si occupasse
dell’area aziendale e fiscale del gruppo, del quale era stato l’originario fondatore
ma che risultava ormai, all’epoca dei fatti contestati, avere una organizzazione
“piatta” piuttosto che verticistica. Conseguenza ulteriore, ed inaccettabile,

condanna del A.A. per tutti i reati di cui era stata lamentata la contestazione
in forma generica ed imprecisa, avendo le corti di merito adottato il presupposto
apodittico del suo indimostrato ruolo di dominus del gruppo Mythos per giungere
alla dichiarazione della sua penale responsabilità senza operare alcuna
distinzione fra i vari addebiti in ragione degli elementi di prova singolarmente
raccolti; ciò a differenza da quanto accaduto nel valutare la posizione di altri
imputati, che risultavano essere stati condannati per i soli fatti in ordine ai quali
poteva dirsi dimostrata la loro partecipazione sul piano materiale e psicologico.
A fronte della doglianza mossa con i motivi di appello, la Corte territoriale si
sarebbe limitata ad osservare che i capi d’imputazione debbono ritenersi analitici
e idonei a consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa, stigmatizzando
peraltro le considerazioni della difesa secondo cui quegli stessi capi sarebbero
«complicati ed onnivori», ed al contempo «generici e vaghi». Secondo i
ricorrenti, proprio l’osservazione appena riportata darebbe la misura
dell’equivoco in cui è incorsa la Corte milanese, giacché la genericità non deriva
dalla descrizione delle condotte materiali, talora effettivamente parossistica,
bensì dall’indicazione del non meglio definito ruolo apicale che dovrebbe
riconoscersi al A.A..
4.4 La difesa ricorre altresì per Cassazione lamentando inosservanza degli
artt. 191, 405, 407 e 416 del codice di rito, per inutilizzabilità di tutti gli atti di
indagine compiuti dopo la prima proroga del relativo termine di durata (in
particolare, tenendo conto della sospensione feriale, dopo il 22 dicembre 2006),
e deducendo conseguente nullità delle sentenze di primo e di secondo grado ex
art. 526, comma 1, cod. proc. pen.
I difensori del A.A., come già nei motivi di appello, censurano quella che
definiscono come «anomala dilatazione del termine di durata massima delle
indagini preliminari che, attraverso l’artificioso utilizzo di “nuove iscrizioni” o di
aggiornamento delle iscrizioni ovvero di stralcio e creazione di diversi
procedimenti rispetto a quello originario (il n. 5443/2005 R.G.N.R. nei confronti
di B.B.), nei fatti si sono protratte ininterrottamente per oltre tre

14

dell’erronea impostazione dei capi d’accusa risultava quella della indifferenziata

anni, e addirittura ben oltre il disposto rinvio a giudizio degli attuali imputati, con
evidente violazione anche dell’obbligo di discovery segnato dall’art. 416 della
liturgia penale».
Il Tribunale aveva disatteso la relativa eccezione, soffermandosi sulla natura
permanente del reato associativo contestato e sul rilievo empirico che, essendo
alcuni reati indicati come commessi fino al settembre 2007, non poteva che
trattarsi di nuove iscrizioni; argomento al quale gli appellanti avevano ribattuto
che la graduale emersione di nuovi, presunti fatti costituenti reato non avrebbe

invece avere riguardo al limite massimo consentito dalla legge e disporre, in caso
di superamento, nuove iscrizioni in separato procedimento. In ogni caso,
quanto alla posizione del A.A. il nominativo dell’imputato era stato iscritto
nel registro delle persone sottoposte a indagini il 22/12/2005, e con riguardo a
tutti i reati poi contestati nell’atto di esercizio dell’azione penale (tranne tre,
assolutamente marginali); l’unico provvedimento di proroga era poi intervenuto
il 30/06/2006, con l’indicazione della totalità degli addebiti, e non vi erano state
altre istanze a tal fine sino al gennaio 2008, sì da doversi prendere atto quanto
meno che le indagini compiute durante l’intero 2007 erano rimaste prive di
qualunque copertura formale.
La Corte di appello di Milano osservava tuttavia che un nuovo termine ex art.
405, comma 2, cod. proc. pen. era venuto regolarmente a decorrere dal
15/06/2007, per effetto dell’iscrizione disposta in ordine al reato associativo; in
ogni caso, il problema dell’utilizzabilità degli atti di indagine doveva considerarsi
superato dalla circostanza che sugli stessi temi vi erano state plurime deposizioni
testimoniali. Con l’odierno ricorso, i difensori del A.A. lamentano che
«l’ordinamento giuridico […] certamente non prevede che l’iscrizione di
fattispecie associativa possa dipendere dalle valutazioni dell’organo inquirente»,
visto che il 15/06/2007 era in realtà la data della nota riepilogativa curata
all’esito delle indagini dalla Guardia di Finanza; inoltre, sostengono che «la
natura patologica di un’acquisizione istruttoria compiuta oltre il termine massimo
previsto per le investigazioni esclude che […] possa emendarsi attraverso
l’audizione dibattimentale», violandosi altrimenti i principi in tema di obbligo di
discovery e il correlato divieto di introdurre nel processo testimoni a sorpresa.
4.5 II quinto motivo di ricorso è dedicato alla dedotta inosservanza dell’art.
521 cod. proc. pen., con conseguente nullità della sentenza del Tribunale di
Milano, per mancanza di correlazione fra l’addebito di truffa inizialmente
contestato ai capi G2) ed H2) e la fattispecie criminosa ritenuta dai giudici di
merito (ex art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000); si lamenta altresì omessa

15

comunque potuto legittimare il compimento di indagini sine die, dovendosi

motivazione, sul punto, da parte dei giudici di appello, malgrado lo specifico
motivo di gravame avanzato.
I difensori del A.A. contestano l’affermazione, contenuta nella sentenza
di primo grado, secondo cui le ipotesi descritte ai sensi dell’art. 640 cod. pen.
potrebbero essere ricomprese nell’ambito della fattispecie astratta disegnata dal
citato art. 10-quater: ciò perché un conto è discutere di truffa, altra cosa è
vedersi addebitare di aver formato una dichiarazione dei redditi recante indebite
compensazioni, con immediate implicazioni proprio in punto di diritto di difesa,

controllo puntuale delle dichiarazioni asseritamente fraudolente, non foss’altro
per verificare se ricorresse o meno il presupposto del superamento degli importi
previsti dalla legge come limite per la rilevanza penale della condotta.
Dichiarazioni che peraltro non risultano nel corpo dell’originaria rubrica, e che
vengono invece menzionate nella sentenza di condanna solo traendo spunto dal
contenuto delle note conclusive utilizzate dal P.M. in sede di discussione;
peraltro, fra i soggetti che avrebbero beneficiato di una delle compensazioni
indebite ritenute di penale rilevanza risulta anche lo stesso A.A., che tuttavia
non si è mai visto contestare direttamente il reato in questione.
Ad avviso dei difensori, il vizio lamentato dovrebbe riverberarsi sulla
sentenza di secondo grado, di cui peraltro appare manifesta la mancanza di
motivazione per non essere stato affatto esaminato il motivo di appello
specificamente proposto.
4.6 Con il sesto motivo di ricorso si rappresenta inosservanza ed erronea
applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, e nullità della
sentenza di condanna quanto all’affermazione della penale responsabilità
dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B), C), D), E), F), G), H), I-1), 1-2),
1-4) e 1-6).
I difensori del ricorrente, censurando preliminarmente la tecnica di redazione
della sentenza impugnata in quanto caratterizzata da costanti rinvii

per

relationem alla pronuncia del Tribunale, sostengono innanzi tutto che le norme
incriminatrici contestate all’imputato, con riguardo alle previsioni di cui agli artt.
1, 2, 3 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, sanzionano condotte fraudolente in quanto
realizzate mediante simulazioni e finzioni, mentre invece le operazioni in ordine
alle quali è intervenuta condanna (anche) del A.A. debbono intendersi
effettive. Tali operazioni risultano censurate in sede tributaria perché
«strumentali ad un fine di risparmio fiscale non assistito da valide ragioni
economiche», risolvendosi pertanto in ipotesi di c.d. “abuso del diritto” (con la
possibile applicazione, al più, dell’imposta evasa), senza invece poter configurare
neppure una forma di “elusione codificata” ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R.

giacché l’imputato avrebbe dovuto essere posto in condizione di procedere ad un

600/1973, suscettibile secondo la recente giurisprudenza di legittimità – Cass.,
Sez. II, n. 7739/2012, Gabbana – di assurgere a rilievo penale ma solo per i casi
di semplice dichiarazione infedele.
L’errore di diritto lamentato nell’interesse del A.A. riguarda la non
corretta individuazione, da parte dei giudici di merito, del discrimine fra
operazioni di mera elusione fiscale ed operazioni prive di rilevanza penale,
fondato sulla dimensione fattuale del necessario distinguo tra effettività e
fittizietà: al contrario, detta linea di confine deve invece collocarsi sul piano

deve intendersi fittizio «ciò che giuridicamente non esiste perché non voluto,
nonostante materialmente appaia […]; è fittizio, quindi, ciò che è simulato, sia
che ricorra la falsa rappresentazione in fatture o in altri documenti (artt. 2 e 8
d.lgs. n. 74/2000), sia nella contabilità (art. 3) […]. Ciò che giuridicamente è
effettivo, non può mai essere fraudolento nel senso punito da tali norme». In
base a tale doverosa premessa, ricordano i difensori del A.A. come la
giurisprudenza di questa Corte abbia, ai soli fini della debenza del tributo,
affermato il principio secondo cui «anche dall’operazione elusiva scaturisce
l’obbligo di pagare, e l’operazione non può essere opposta al fisco»; tuttavia,
l’equivalenza tra fittizietà e strumentalità può valere solo per la sede tributaria,
dove non si tratta di sanzionare il contribuente bensì di recuperare il dovuto in
ragione dei principi imposti dall’art. 53 Cost., e non vale invece in sede penale.
Si sostiene nel ricorso che, «spostandosi nel settore della repressione
penale, deve in primo luogo farsi applicazione del principio di legalità e
tassatività, che comporta che “nel campo penale non può affermarsi l’esistenza
di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive
[…], mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una
specifica disposizione fiscale antielusiva”» (come si legge nella sentenza n.
7739/2012, già menzionata). E, nei confronti del A.A., nessuna delle
condotte di cui ai capi di imputazione può considerarsi rientrante nella previsione
di specifiche norme antielusive, quali l’art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973; inoltre,
come già ricordato, la stessa recente sentenza della Sezione II insegna che «le
uniche fattispecie criminose astrattamente riconoscibili sarebbero solo quelle di
dichiarazione infedele o omessa dichiarazione, ma non certo quelle di
dichiarazione fraudolenta».
La fragilità degli argomenti su cui si fonda la dichiarazione di penale
responsabilità del A.A. deriva altresì, secondo

i di lui difensori, dalla

constatazione che in entrambe le sentenze di merito si richiama la statuizione
prevista dall’art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000, dove assumono rilevanza eventuali

17

giuridico, nel senso che – in presenza di negozi giuridici, come nella fattispecie –

“altri atti fraudolenti” che si associno a condotte simulate: richiamo non corretto
nel caso in esame, giacché la norma suddetta:
– deve leggersi riferita ad ipotesi di condotte fraudolente non negoziali, e
non già ad attività negoziali idonee ad ostacolare la riscossione dei tributi;
– riguarda soltanto le false rappresentazioni contabili, ergo non è comunque
applicabile alle fattispecie già autonomamente disciplinate dagli articoli
precedenti, che richiedono i presupposti singolarmente previsti per ciascuna delle
disposizioni incriminatici in parola (tanto che ammettere l’operatività di quella

delitti sono punibili a titolo di colpa, solo perché le diverse norme sulle
contravvenzioni ammettono indifferentemente il dolo o la colpa).
Esaminando i singoli addebiti, i difensori del ricorrente escludono che ai fini
di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000 possano assumere rilevanza
operazioni realmente effettuate, tra i soggetti indicati nella relativa
documentazione contabile e per gli importi ivi risultanti; analogamente è a dirsi
per l’art. 3, laddove se un’operazione è effettiva è smentito in radice che possa
sussistere difformità tra rappresentazione documentale e realtà materiale.
Quanto all’art.

10-quater,

che punisce la condotta di chi utilizza in

compensazione crediti non spettanti od inesistenti, in tal modo omettendo di
versare le somme dovute, il quadro non muta, dal momento che in presenza di
una operazione reale ed effettiva, intervenuta tra i soggetti e per gli importi
rappresentati contabilmente, si potrebbe al massimo discutere della possibilità
per l’amministrazione finanziaria di disconoscere il credito, giuridicamente sorto
sia pure in conseguenza di una operazione che trovava causa nella sola
prospettiva di crearlo.
Ciò perché, con argomento valido per tutti gli addebiti esaminati, «resta
fuori dalla previsione della fattispecie penale il “movente” della operazione
(reale). Irrilevante (la legge non lo prevede) è che vi sia il fine di risparmio
fiscale, se esso sia o meno esclusivo, se sussistano altre valide ragioni
economiche, ecc. Irrilevante è altresì il fatto che la volontà di porre in essere le
operazioni sia stata originata, nella fiscalità di gruppo, in sede accentrata, se tali
operazioni poi vengono effettivamente e giuridicamente
società».

sulle singole

Le contestazioni mosse nel presente processo riguardano, in

definitiva, «strumenti negoziali effettivi ed effettivamente voluti, di cui si
contesta (su un piano completamente diverso) la preordinazione al vantaggio
tributario, che è cosa radicalmente diversa dalla fittizietà, inesistenza,
simulazione e/o falsificazione»: non si tratta, dunque, di ipotesi in cui una
situazione fattuale sia stata meramente affermata ma sia in realtà inesistente,
né di negozi giuridici privi di effetti perché simulati in quanto non realmente

I8

statuizione anche per i reati qui contestati sarebbe come affermare che tutti i

voluti. Laddove il vantaggio tributario dipenda dalla esistenza dell’operazione,
anche se voluta proprio ai fini di risparmio fiscale (potendosi parlare pertanto di
aggiramento dell’obbligo, elusione codificata o abuso del diritto), non potrebbe
esservi spazio per la sanzione penale, prevista soltanto per i casi in cui il
vantaggio tributario derivi dalla difformità fra quanto attestato e quanto
realmente accaduto.
Escluso poi che assuma rilievo nel presente processo una questione di
eventuale nullità (in senso civilistico) dei negozi sottesi alle operazioni elusive,

operazioni rimangono civilisticamente valide, per quanto disconoscibili ai fini del
pagamento delle imposte, i difensori del A.A. censurano il passo della
motivazione della sentenza di primo grado – richiamato per relationem in quella
oggi impugnata – secondo il quale le condotte in rubrica sarebbero connotate da
simulazione relativa, in quanto caratterizzate dalla «deviazione della volontà
delle parti dalla causa tipica del negozio utilizzato». In proposito, parlare di
deviazione rispetto alla causa tipica significa in realtà essere al di fuori della
nozione di simulazione, per quanto relativa: si fornisce l’esempio di una vendita
per prezzo vile, certamente finalizzata ad arricchire il compratore e dunque
avente una funzione economica di parziale donazione, ma non vi è dubbio che si
tratti pur sempre di una vendita che realizza lo schema giuridico suo proprio, con
il trasferimento della proprietà.
Non appare altresì corretto affermare che le norme penali tributarie
sanzionerebbero sempre e comunque sia le condotte idonee a trarre in inganno
gli organi accertatori, sia quelle idonee ad ostacolare l’accertamento: queste
ultime possono rilevare solo laddove espressamente previste, come nei casi di
cui agli artt. 4 e 5, dove possono assurgere ad elemento costitutivo presupposto,
o nello stesso art. 3, dove l’ostacolo all’accertamento viene contemplato
cumulativamente con l’indefettibile requisito della falsità delle risultanze
contabili.
Per lamentare infine l’omessa motivazione della sentenza della Corte
territoriale su peculiari motivi di appello, nell’interesse del A.A. si richiama
diffusamente il contenuto di quel primo atto di impugnazione al fine di contestare
la sussistenza in fatto dei vari addebiti.
4.7 Con il settimo motivo di ricorso si sostiene la mancanza e/o manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata, quanto all’affermazione
della penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B), C),
D), E), F), G), H), I-1), 1-2), 1-4) e 1-6)
Quale argomento ulteriore rispetto alla enunciazione dei presunti errori di
diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di appello di Milano nell’interpretazione

19

anche in ragione degli approdi della giurisprudenza tributaria secondo cui dette

delle norme penali sopra richiamate, i difensori del A.A. lamentano che la
motivazione della pronuncia appare comunque carente e manifestamente illogica
nei passi in cui si sostanzia l’esegesi compiuta, giacché «tutti gli elementi “spia”
della errata interpretazione del concetto di fittizietà assumono la subordinata
rilevanza di vizi del tessuto motivazionale».
Sul piano della gravità indiziaria, deducono innanzi tutto l’assoluta non
significatività di alcuni elementi posti a base della condanna dell’imputato, quali il
numero delle società coinvolte, l’agire coordinato fra i diversi amministratori

direttive assunte all’interno del gruppo, l’essere quelle società denominate con
carattere di serialità o costituite in forma di società semplice. Né possono
condividersi le considerazioni dei giudici di merito sul carattere fittizio di
un’operazione sostanziatasi nell’intestazione di rapporti da una società ad
un’altra, ovvero nei casi di frazionamento di redditi: ancora una volta, va
considerato che i passaggi intermedi di rapporti fra società di provenienza e di
destinazione finale erano comunque effettivi perché giuridicamente validi e non
simulati, come pure reali erano i frazionamenti di redditi, per quanto strumentali
ad obiettivi di risparmio di imposta. Anche in ordine al tema delle perizie
sottese alle singole operazioni contestate, i giudici di appello – e quelli di primo
grado – ravvisano un elemento di «valenza sintomatica della fittizietà» nel
rilevare che per quelle operazioni il sistematico ricorso a perizie apparentemente
provenienti da terzi, a prescindere se fossero o meno imposte dalla legge,
mirava a raggiungere lo scopo di far ritenere attendibili le relative valutazioni,
tuttavia assumendo sempre come proprie le valutazioni già proposte all’interno
del gruppo: nell’interesse del A.A. si obietta che in ogni caso non è stata
fornita la prova che quelle valutazioni fossero fasulle e non rispondenti al vero.
Altro profilo di illogicità della motivazione si rinviene nella affermazione
secondo cui non assumerebbe rilievo la circostanza che negli accertamenti
tributari e nei relativi processi verbali di constatazione le fattispecie ascritte
(anche) al A.A. fossero state qualificate come elusive e non già fittizie,
intendendo pertanto l’elusione priva di implicazioni in ambito penale, per poi
giungere di lì a poco a sostenere che la sussistenza di indici di elusione sarebbe
comunque «di per sé sintomatica di rilevanza penale».
Quanto alla compensazione di crediti, a sua volta segnalata dalle sentenze di
merito come indicativa della fittizietà di talune operazioni, i difensori si dolgono
della circostanza che non sarebbe comunque stato provato, oltre al carattere
fittizio dell’operazione, il dato presupposto: vale a dire che fosse fittizio anche il
credito estinto per effetto della compensazione. Sul piano logico, i difensori
argomentano che «se i debiti e crediti reciproci fossero inesistenti, nessuna delle

20

(pochi, in rapporto al dato quantitativo delle società stesse), in ragione di

due parti avrebbe realizzato vantaggio fiscale alcuno (i costi di un’operazione
sarebbero azzerati dai ricavi dell’altra) e quindi la manovra non potrebbe più
essere censurata perché non finalizzata né ad evasione (come necessario) né ad
elusione né a legittimo risparmio di imposta. Ciò per tacere del fatto che la
compensazione, al limite, potrebbe determinare danno alle casse del Fisco, ma
[…] solo quando operi per ridurre delle perdite fiscali che non potrebbero
altrimenti recuperarsi. Ma tale circostanza non sussiste, né tanto meno viene
allegata o provata, quanto ai fatti delle odierne imputazioni. Le società del

esistendone nel gruppo numerose».
Né eventuali operazioni infragruppo, con il trasferimento di comodo di taluni
crediti a società non operative, a seconda della convenienza fiscale, possono
ritenersi allo stesso modo “sintomatiche” della illiceità penale dei rapporti
intercorsi fra l’una e l’altra società: secondo i difensori, «se il credito esiste,
ancorché creato o trasferito per finalità di convenienza, non vi è alcuna frode»;
parimenti non rileverebbe la circostanza della non operatività della società cui il
credito venga trasferito, dal momento che «una società che sia solo titolare di
rapporti ma non svolga attività diverse non è per ciò stesso inesistente, né è
finta l’attribuzione ad essa di posizioni giuridiche». Peraltro, nei casi in rubrica
non si discute di cessioni o trasferimenti di beni materiali, sì da dover richiedere
correlate strutture in capo a chi ne disponga, bensì di beni o prestazioni di servizi
immateriali, quali intermediazioni nella cessione di titoli, consulenze gestionali,
cessioni di know how e quote di avviamento commerciale, tutte attività per cui
non sarebbe ragionevole discutere dell’esistenza di personale dipendente o di
magazzini in capo all’una od all’altra società; né si tratta di figure negoziali tali
da richiedere determinate formalità documentali ad substantiam.
Anche in caso di disordine nella gestione amministrativa di una o più società,
e pur tenendo presente che molte di quelle fatture seguirono le operazioni al fine
di regolarizzare le emergenze contabili (così spiegandosi perché in una
comunicazione via e-mail tra i dipendenti del gruppo risulta utilizzato l’aggettivo
“farlocca” per descrivere una fattura, comunque relativa a un determinato cliente
– Maranghino – e ad operazioni compiute dal coimputato B.B., come pure la
spiegazione dello stesso B.B. secondo cui le fatture venivano emesse a fine
anno “a tappo”), è necessario raggiungere la prova che la singola prestazione
documentata non sia stata in realtà eseguita.
Ribadendo gli argomenti già sviluppati, la difesa del A.A. sostiene che
può dirsi fittizia un’operazione in cui venga simulata la compravendita di beni o
servizi, come pure il pagamento dei relativi oneri ad opera della controparte, ma

21

gruppo Mythos mai hanno imputato debiti fiscali a società in perdita, pur

non lo è affatto l’operazione in cui il vantaggio perseguito deriva proprio dalla
effettività della prestazione e del successivo adempimento.
Sul piano strettamente finanziario, infine, le operazioni contestate al gruppo
Mythos risultano «registrate nella contabilità della banca e nelle contabilità delle
società», giacché «effettuate attraverso regolari bonifici, cioè ordini dati alla
banca di effettuare determinati pagamenti», senza dunque la necessità di
somme liquide materiali. Il fatto che prevedessero un saldo finale pari a zero
non può assurgere a motivo di sospetto, trattandosi al contrario dello scopo da

negoziale su cui era incentrata la gran parte delle operazioni, lo schema era il
seguente: «a) il gruppo Mythos cedeva quote di partecipazione e forniva
consulenza per l’operazione o riscuoteva acconti su consulenze di altro tipo (nel
caso di clienti abituali); b) il cliente cedeva a Mythos la società impoverita dopo
l’operazione; c) il dividendo, comprensivo dei vantaggi fiscali correlati in base
alla legge vigente, costituiva di fatto (in termini di valutazione economica della
convenienza dell’operazione) il conguaglio».
Si trattava, in definitiva, di «operazioni finanziarie certamente molto
ingegnose, e sicuramente finalizzate a ridurre il carico fiscale (obiettivo
dichiarato addirittura nella pubblicità commerciale, così che viene da domandarsi
come possa realisticamente ipotizzarsi il dolo in persone che pubblicizzano con
brochures pubbliche e diffuse in una rete di marketing le caratteristiche che la
sentenza impugnata reputa delinquenziali) ma non fittizie, bensì calcolate per
avere la trasparente, massima efficienza finanziaria».
4.8 L’ottavo motivo di ricorso mira a far valere vizi della sentenza impugnata
identici a quelli evidenziati al punto precedente, quanto all’affermazione della
sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato in ordine ai reati di cui
ai capi B), C), D), E), F), G), H), I-1), 1-2), 1-4) e 1-6).
Conseguente sviluppo delle argomentazioni già evidenziate in precedenza
risulta quello della illogicità manifesta nella motivazione della sentenza della
Corte di appello di Milano, secondo i difensori del A.A., in punto di ricerca del
dolo in capo al loro assistito.
Invocando ancora una volta la sentenza Gabbana della Sezione II, n.
7739/2012, nel ricorso si fa presente che l’elemento psicologico del reato
dovrebbe essere comunque oggetto di puntuale e positivo riscontro da parte del
giudice di merito, il che non potrebbe dirsi accaduto nel caso di specie: la
sentenza appena ricordata segnala peraltro il rilievo della norma di cui all’art. 15
d.lgs. n. 74 del 2000, in base alla quale «non danno luogo a fatti punibili ai sensi
del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive
condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione»,

22

raggiungere: nelle operazioni di dividend washing, vale a dire del meccanismo

fornendo subito dopo l’esempio di casi in cui «l’amministrazione finanziaria abbia
dato luogo con atti (ad esempio, circolari) o comportamenti (ad esempio, casi
analoghi in cui non è stata contestata la esterovestizione) a condizioni reali di
incertezza nell’applicazione della norma».
I difensori sostengono al riguardo che «le operazioni oggetto del presente
processo, avvenute tutte alla luce del sole e non poste in essere dalla sola
Mythos (si tratta di operazioni diffuse, pubblicizzate, endemiche nell’economia
italiana, notorie e oggetto di analisi sulla stampa e pubblicistica specializzata)

circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 87/E del 27/12/2002, vigente all’epoca dei
fatti e recante principi ispirati alla giurisprudenza pacifica del tempo, «invitava
addirittura gli uffici ad abbandonare la pretesa in sede contenziosa tributaria
(figuriamoci penale!) quando non risultasse (testualmente) prova del fatto che si
trattava di operazioni non realmente volute».
La prova della mancanza di dolo emergerebbe poi, all’evidenza, dalla
circostanza che tutte le fatture contestate risultano regolarmente registrate, con
importi dichiarati e IVA versata, laddove dovuta; inoltre, i corrispettivi indicati
nelle stesse appaiono effettivamente pagati, né è provato che vi sia stata una
fraudolenta restituzione successiva, senza che rilevi in alcun modo la circostanza
dell’essere alcuni di quei pagamenti intervenuti tramite compensazioni, mezzo di
cui si ribadisce la liceità sul piano giuridico.
Merita confutazione, secondo i difensori del A.A., anche l’argomento
utilizzato dai giudici di merito secondo il quale la finalità di frode sarebbe
consistita nella volontà di sfruttare lo sfasamento temporale nella chiusura degli
esercizi delle varie società interessate, dal momento che – se è vero che in
taluni casi i ricavi della società prestatrice del servizio fatturato vennero
dichiarati prima che la controparte deducesse i relativi costi – è talora accaduto
l’esatto contrario, con il risultato economico (comprovato già in memorie
difensive versate agli atti) che il gruppo Mythos si sarebbe complessivamente
ritrovato a pagare tasse in anticipo.
La difesa del ricorrente sostiene quindi che in ordine ad operazioni intercorse
fra società di uno stesso gruppo non potrebbe comunque esservi evasione, né il
relativo dolo, mancando per definizione un danno per l’Erario ed essendo un
gruppo di società considerato in termini almeno parzialmente unitario a fini
tributari: sul punto, ove si reputasse invece configurabile un illecito penale non
già in base all’omissione di un tributo, bensì per effetto dello spostamento di quel
tributo in capo ad altro soggetto originariamente non obbligato, sollecita venga
sollevata eventuale questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art.
3 Cost.

23

mai prima erano state contestate dall’amministrazione finanziaria»; la stessa

4.9 Con il nono motivo di ricorso, i difensori del A.A. deducono
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000, e
conseguente nullità della sentenza impugnata, quanto all’affermazione della
responsabilità penale dell’imputato in ordine ai reati di cui ai capi B-2), B-7), B14), B-15) e B-16).
A riguardo, si sostiene che nel caso in esame non possa dirsi configurabile il
reato di cui al menzionato art. 3, che secondo l’accusa – con impostazione fatta
propria dalla sentenza di condanna – deriverebbe dalla annotazione in contabilità

deduzione dei costi medesimi in un esercizio precedente l’emissione delle
correlate fatture: ciò perché diciture di tal fatta non sarebbero comunque idonee
ad assurgere a “mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento”, come la
norma incriminatrice richiede, visto che si risolverebbero in una indicazione
anticipata dell’emittente il documento contabile (e dunque si muoverebbero in
una direzione opposta rispetto alla pretesa volontà di rendere difficoltosa le
attività di verifica). Inoltre, ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000, l’unico reato
previsto per chi riceve una fattura che si assuma falsa è quello di cui all’art. 2
(laddove la fattura venga utilizzata): quando non vi sia successivo utilizzo, a
condizione che si superino le soglie di punibilità stabilite dalla legge, potrà
ipotizzarsi il reato previsto dall’art. 4. Sanzionare invece una mera attività
preparatoria del successivo, potenziale utilizzo di fatture fittizie risulta in
contrasto con il dettato dell’art. 6, che per i reati di cui si discute non ammette la
configurabilità del tentativo.
4.10 Con il decimo motivo, la difesa dell’imputato lamenta inosservanza ed
erronea applicazione dell’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, rappresentando che le
condotte ascritte al A.A. non potrebbero comunque considerarsi di penale
rilievo ai sensi di detta previsione (come sostenuto nella recente giurisprudenza
di questa Corte, ma sempre in relazione a fattispecie rientranti nell’ambito di
disposizioni antielusive: v. in particolare la più volte citata sentenza della Sez. II,
n. 7739/2012). L’analisi dei difensori ricorrenti si sofferma quindi sulle ragioni qui complessivamente riassunte, ma già trattate in precedenza – secondo le
quali una condotta meramente elusiva, ed a fortiori una condotta qualificabile in
termini di abuso del diritto, non potrebbe mai costituire illecito penale.
4.11 Il motivo seguente è dedicato all’operazione del c.d. “prestito Moretti”,
in relazione al quale si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2
d.lgs. n. 74 del 2000, con riguardo ai capi E-2), E-3) ed E-4), nonché dell’art. 8
stesso d.lgs., con riguardo al capo E-1 (da considerare comunque prescritto
quanto ai fatti del 2003). La difesa, che censura in proposito la motivazione
della sentenza impugnata in quanto carente e manifestamente illogica, censura

24

di costi imputati a “fatture da ricevere”, in sostanza con una registrazione e

la ricostruzione di merito fatta propria dalla Corte di appello di Milano, negando
che si sarebbe trattato di un prestito simulato, con tanto di restituzione del
capitale e contestuale emissione di una serie di fatture per finte consulenze; in
realtà era invece una operazione di portage, usuale nel mondo degli affari e
consistente in un mutuo oneroso in una direzione, con contestuale estinzione di
un più elevato debito della società mutuataria (con regolarità fiscale dell’addebito
degli interessi fra i vari soggetti protagonisti dell’operazione stessa, in ragione
della necessità di fatturare le prestazioni di mandato senza rappresentanza).

mediante il consueto rinvio per relationem alla motivazione della pronuncia di
primo grado – circa la possibilità di ricavare elementi di prova dall’intervenuto
patteggiamento dello stesso Moretti, non potendo le scelte processuali di un
coimputato produrre effetti di sorta sulla posizione di un altro.
4.12 Con il dodicesimo motivo di ricorso, i difensori del A.A. evidenziano
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, in punto di
affermazione della responsabilità penale dell’imputato in ordine per i reati di cui
ai capi G) ed H), nonché illogicità della motivazione della sentenza oggetto di
gravame.
In tema di dividend washing, la difesa evidenzia trattarsi di «una operazione
di arbitraggio fiscale mirata a porre in essere operazioni reali con trattamento
fiscale più favorevole. In diritto, esso presuppone un regime più favorevole per
le plusvalenze (guadagni) dalla vendita dei titoli di partecipazione, rispetto alla
tassazione dei dividendi contenuti nei titoli medesimi. In fatto, esso si attua con:
a) la cessione reale dei titoli; b) la realizzazione di una plusvalenza reale tassata
favorevolmente per il cedente; c) la tassazione ordinaria dei dividendi percepiti
dal cessionario. Il risparmio della operazione consiste nel regime più favorevole
riservato alla plusvalenza. Tale vantaggio può essere realizzato dal solo cedente,
se il prezzo della cessione dei titoli è pari al valore di mercato (nel qual caso
l’operazione è neutra per il cessionario e con vantaggio pieno per il cedente),
oppure, con una cessione a prezzo lievemente favorevole, il cedente realizza un
risparmio parziale e il cessionario acquista ad un prezzo più favorevole». Ciò
posto, deve considerarsi erronea la conclusione fatta propria dalla sentenza
impugnata, che – entrando in contraddizione con l’espressa premessa della
irrilevanza penale di simili operazioni – ne ravvisa comunque estremi di reato sul
presupposto (non conforme al vero) che gli utili distribuiti con

i dividendi

sarebbero fittizi.
Precisato che secondo la legislazione dell’epoca la previsione di un credito di
imposta non costituiva un vantaggio come tale, bensì «solo uno strumento per
escludere che gli utili della società partecipata (quella le cui azioni si cedono)

25

Erroneo sarebbe altresì l’argomento utilizzato nella sentenza impugnata –

siano tassati due volte (come utili e poi come dividendi)», nel ricorso si evidenzia
che l’operazione si fonda sulla conseguente legittimità di un regime più
favorevole per le plusvalenze del cedente, non già – come invece ritenuto in
sentenza –

sulla detrazione di crediti di imposta o sulla deduzione di

minusvalenze (dal lato del cessionario).

Il presupposto è dunque l’esistenza

degli utili che, come tali e in quanto esposti in dichiarazione, fondano il correlato
diritto di credito: e nel caso di specie gli utili in questione risultano sempre
regolarmente dichiarati nell’esatto ammontare, sì da fondare legittimamente una

Analogamente è a dirsi per i casi di dividend washing senza credito di
imposta e con minusvalenze, dove il cessionario delle quote riceve dividendi
esenti da imposta, per poi rivendere quelle partecipazioni a un prezzo realmente
inferiore a quello di acquisto (avendo egli incamerato i dividendi), consentendo al
cedente che le riacquista di realizzare una plusvalenza, tassata in modo
favorevole: si ha così – in una operazione del tutto legittima e consentita
dall’ordinamento, comunque reale ed effettiva nella produzione degli effetti
giuridici ad essa propri – un vantaggio fiscale per entrambi, visto che il
cessionario può dedurre la minusvalenza ed ottenere uno sconto sulle imposte.
Ad avviso dei difensori ricorrenti, deve poi essere contestato l’assunto di cui
alla sentenza della Corte territoriale in base al quale la fittizietà delle operazioni
verrebbe dimostrata dalla discrasia tra i valori contabili della Mythos al momento
della scissione rispetto a quelli dei successivi conferimenti: ciò perché la
necessità che le operazioni straordinarie quali fusioni o scissioni avvengano al
costo originario, senza poter dare luogo a realizzo, né a distribuzione di
plusvalenze e minusvalenze, è imposto dalla legge, a differenza dagli atti di
cessione o conferimento che debbono invece far emergere il valore attuale. In
proposito, la sentenza della Corte di appello di Milano viene censurata anche per
non essere stata disposta prova decisiva, in forma di perizia, al fine di ricostruire
i valori reali oggetto di negoziazione.
4.13 n tredicesimo motivo riguarda un ulteriore profilo di inosservanza ed
erronea applicazione di norme sostanziali (gli artt. 1, 2, 3 e 8 d.lgs. n. 74 del
2000), con riguardo all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato in
ordine al reato di cui al capo F-1).
I difensori, che lamentano altresì manifesta illogicità della motivazione,
evidenziano con riferimento alla c.d. “operazione Renco” che tutte le attività
compiute corrispondono alla realtà dei fatti, e non possono invece ricostruirsi
come dichiarazione fraudolenta con indicazione di un costo fittizio, dovuto
all’acquisto di un falso usufrutto (ritenuto tale solo perché di breve durata,
nonché in base alle già ricordate e inattendibili comunicazioni

26

e mail fra

successiva compensazione all’atto del pagamento delle imposte.

dipendenti) oltre alla esposizione di un credito di imposta non spettante (si
trattava invece di un canone di locazione e di interessi su un prestito
obbligazionario, entrambi relativi ad operazioni reali). In ogni caso, all’epoca
dell’emissione delle relative fatture, il A.A. non era amministratore né di
Mythos né di altre società del gruppo.
4.14 Con il motivo successivo si deduce inosservanza ed erronea
applicazione anche dell’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché mancanza e
manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata: la difesa del

condannato sia per delitti ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, che per fatti qualificati
ai sensi dell’art. 8, quando invece il successivo art. 9 esclude che uno stesso
soggetto possa intendersi concorrente al contempo in entrambe le fattispecie
criminose appena indicate. La sentenza di merito supera il dato normativo
rappresentando che in concreto il A.A. avrebbe commesso separate condotte
di emissione e registrazione di fatture, talora in proprio e talora in concorso con
emittente od utilizzatore, ma si pone – secondo la tesi difensiva – in netto
contrasto rispetto alla giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentenza n. 27 del
2000, ric. Di Mauro). Ne conseguirebbe la necessità di escludere la
responsabilità dell’imputato per uno dei delitti quanto ad ognuna delle coppie di
contestazioni costruite con riguardo alla doppia condotta di emissione e
successiva utilizzazione della stessa fattura;

a fortiori, l’argomento varrebbe

quanto all’addebito di cui all’art. 3 d.lgs. n. 74 del 2000 (in ordine alle presunte
fatture ancora da ricevere) trattandosi di fattispecie di minore gravità.
4.15 Oggetto di inosservanza ed erronea applicazione sarebbe a sua volta,
secondo i difensori del ricorrente, l’art.

10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, in

relazione all’art. 2 cod. pen.: ciò perché la sentenza impugnata giunge
all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato con riferimento ai reati
sub G-2) ed H-2), inizialmente contestati come ipotesi di truffa, ritenendo invece
configurabile il reato di cui al suddetto art.

10-quater, sul presupposto che si

tratterebbe di incriminazione maggiormente favorevole. Presupposto che però,
secondo i difensori del A.A., appare inesatto e fuorviante, atteso che la
norma di minor favore precedentemente vigente – ovvero l’art. 640 cod. pen. non poteva in ogni caso considerarsi applicabile alla fattispecie concreta, così
dovendosi escludere in radice un problema di successione nel tempo di leggi
penali meramente modificative del trattamento sanzionatorio.
Anche in questo caso, soccorrono gli insegnamenti delle Sezioni Unite di
questa Corte, dato che la sentenza n. 1235 del 2011 (ric. Giordano) esclude che
ai fatti fraudolenti tributari sia mai stato applicabile l’art. 640 cod. pen., così
imponendo la conclusione che la più favorevole norma di cui all’art. 10-quater

27

ricorrente si duole della circostanza che il A.A. risulta essere stato

più volte citato non potrebbe trovare applicazione retroattiva ai fatti commessi
prima della sua entrata in vigore; i difensori del A.A. contestano peraltro che
esista continuità normativa di detta previsione (come norma successiva) rispetto
a quella sanzionata dall’art. 316-ter cod. pen., come sostenuto da altra
pronuncia di legittimità (Cass., Sez. III, n. 7662 del 27/02/2012, ric. Moretti).
4.16 in sedicesimo motivo di ricorso si riferisce ancora alla dedotta
inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000,
in questo caso riguardo all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato

I difensori del ricorrente censurano la sentenza impugnata, la cui
motivazione ritengono carente e viziata da manifesta illogicità, laddove assume
provato da un lato che le operazioni descritte nei capi sopra evidenziati siano
fittizie (trattandosi invece di conferimenti reali, con atti effettivi e di concreta
rilevanza giuridica), e dall’altro che il A.A. vi avrebbe partecipato in termini
di concorso morale, sostenuto solamente in termini apodittici e senza
considerare che l’imputato in realtà non partecipava né direttamente né
indirettamente alla gestione fiscale di singole società del gruppo.
4.17 II profilo di doglianza svolto con il diciassettesimo motivo di ricorso
riguarda una affermazione contenuta nella motivazione della sentenza, secondo
cui la ricostruzione di merito operata dal Tribunale di Milano in primo grado
sarebbe stata sostanzialmente condivisa ed accettata dagli imputati:
affermazione non corrispondente al vero, considerando che, se le difese non
hanno mai contestato la materialità dei fatti, è tuttavia di solare evidenza che
quegli stessi fatti sono stati inquadrati e spiegati in termini – soprattutto,
giuridici – antitetici rispetto alle spiegazioni fornite dall’accusa.
4.18 Motivo autonomo di ricorso è dedicato ad una presunta violazione di
legge, per non essere stata dichiarata la prescrizione di reati già estinti al
momento della sentenza di appello: il rilievo riguarda, per tutta o parte della
contestazione di cui ai vari capi d’imputazione singolarmente considerati, i reati
sub B-15), C-2), D-1), D-2), E-1), E-3), E-3bis), G-1) ed 1-6).
4.19 Con il diciannovesimo motivo, si lamenta inosservanza ed erronea
applicazione degli artt. 190 cod. proc. pen. e 416 cod. pen., nonché mancanza e
manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
In linea subordinata, considerando che in tesi i difensori del A.A.
sostengono la completa irrilevanza penale delle condotte ascritte al loro assistito,
nel ricorso si rappresenta che non sarebbe stata comunque raggiunta la prova
della sussistenza di un presunto sodalizio criminoso rilevante ex art. 416 cod.
pen.: erronea sarebbe la valutazione dei giudici di merito secondo cui la presunta
realizzazione seriale di delitti tributari dimostrerebbe l’esecuzione di u

28

per i reati di cui ai capi I-1, 1-2), 1-3) e 1-4).

altrettanto presunto programma criminoso, e dunque la sussistenza a monte di
un vero e proprio sodalizio. Parimenti non condivisibile l’ipotizzata significatività
di elementi quali il ricorso a periti compiacenti (senza che sia mai stato
dimostrato che i relativi valori di stima fossero incongrui), la presenza di stabili
contatti fra chi gravitava nell’ambito del gruppo Mythos e funzionari di banca o
addetti presso uffici finanziari (contatti da considerare la norma per chi svolga
attività come quelle riconducibili alle società del gruppo), la predisposizione di
fogli di calcolo da utilizzare sempre secondo identiche modalità standardizzate (a

dovrebbe intendersi una pacifica regola), infine l’impiego di prestanome per
rappresentare società ben determinate e talora appositamente create (visto che i
soggetti cui era stato affidato il maggior numero di incarichi di amministrazione
risultavano stimati professionisti).
In concreto, peraltro, il ruolo di ciascuno dei presunti associati appare
antitetico rispetto alla stessa ammissione che un reato associativo esistesse,
vista la pacifica eterogeneità di interessi fra i presunti sodali; ed in ogni caso
nulla autorizza a ritenere che l’associazione abbia continuato ad operare in epoca
successiva rispetto al momento in cui gli indagati ebbero contezza delle
investigazioni in atto, da collocare nel dicembre 2005, mediante un intervento di
organismi di polizia tributaria palesemente percepibile dai diretti interessati.
4.20 Il penultimo motivo di ricorso è dedicato alla censura della sentenza
impugnata – per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133
cod. pen., e correlate carenze motivazionali – quanto alla negazione delle
attenuanti generiche nei confronti dell’imputato ed alla determinazione di un
trattamento sanzionatorio eccessivamente gravoso e sproporzionato rispetto a
quello riservato a coimputati autori di differenti scelte processuali.
I difensori del A.A. evidenziano la pregressa, completa incensuratezza
dell’imputato e la sua leale condotta processuale, ispirata dalla volontà di offrire
il proprio contributo per la ricostruzione della verità (sino a consegnare egli
stesso le copie di back-up del server della Mythos); dati che avrebbero dovuto
determinare i giudici di merito a riconoscergli le invocate attenuanti e ad irrogare
nei suoi confronti una pena più mite.
4.21 Infine, nell’interesse dell’imputato si deduce inosservanza ed erronea
applicazione dell’art. 185 cod. pen., in ordine ai criteri di determinazione del
danno risarcibile alle parti civili ed alle relative provvisionali, nonché mancanza
assoluta di motivazione della sentenza impugnata, in parte qua.
La Corte di appello di Milano, in punto di prova del danno subito dalle parti
civili e di entità del risarcimento, si limiterebbe a considerare «sicuramente
adeguata» la cifra stabilita in primo grado, in ragione dei «considerevoli importi

29

dispetto della circostanza che l’impiego di documenti e programmi informatici

sottratti al fisco e oggetto di operazioni inesistenti»: i difensori del A.A.
rilevano che in tal modo i giudici territoriali sarebbero sfuggiti all’obbligo
motivazionale, indicando cifre di decine di milioni di euro senza alcuna
quantificazione realistica. Analoga doglianza viene mossa nei riguardi dell’entità
della provvisionale liquidata.

5. Propone altresì ricorso il difensore del B.B., Avv. Massimo Dinoia.
5.1 Con il primo motivo, l’Avv. Dinoia lamenta contraddittorietà e manifesta

al presunto reato associativo.
La decisione della Corte di appello di Milano, ad avviso del ricorrente, si
palesa contraddittoria nella parte in cui la posizione del B.B. all’interno del
presunto sodalizio criminoso viene considerata non già apicale, quale
corresponsabile della totalità o quasi delle operazioni fiscali contestate, bensì in
termini di concorrente in singoli episodi, ricostruzione già fatta propria dalla
sentenza di primo grado: se ciò è vero, tanto che l’imputato risulta essere stato
assolto da una pluralità di addebiti costituenti gli ipotizzati reati-fine
dell’associazione, ne deriva però la contraddittorietà dell’impianto motivazionale,
mancando prova certa della consapevolezza da parte del B.B. della natura
evasiva di quelle operazioni cui aveva preso parte in via occasionale (anche in
ragione del parallelo svolgimento di una fisiologica attività d’impresa, non posto
in dubbio nel provvedimento impugnato). La difesa contesta che possa
riconoscersi rilievo al dato formale della partecipazione societaria dell’imputato al
gruppo Mythos nei termini del 33,3%, in concreto non rispondente alla realtà
quanto al ruolo effettivamente svolto dal B.B., ed in ogni caso da riferire
alle attività lecite sopra evidenziate.
Irrilevante è altresì la deposizione dei testimoni che hanno indicato il
B.B. come protagonista di talune operazioni determinate, come il Bellen
quanto all’operazione Moretti, visto che in fatto risulta come l’imputato si limitò a
proporre l’operazione medesima – ideata da altri – al cliente:

ergo, come in

altre circostanze, poteva ben trattarsi di iniziative delle quali il B.B. non
comprese la presunta finalità di frode nei confronti del fisco, e considerarle
invece fisiologicamente connesse alla normale attività d’impresa. Né assumono
rilievo i contatti tenuti dall’imputato con funzionari di uffici pubblici o dirigenti di
istituti di credito, da correlare al suo ruolo di gestore delle attività più
propriamente commerciali del gruppo (e in questo senso avrebbero dovuto
considerarsi le situazioni di contrasto fra il B.B. e il A.A., emerse
dall’istruttoria dibattimentale, spiegabili nel senso della determinazione del primo

30

illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta partecipazione dell’imputato

di non condividere le scelte aziendali orientate verso l’area fiscale, caldeggiata
invece da altri).
In ogni caso, la prova del concorso in un reato-fine nulla potrebbe dire circa
la dimostrazione della partecipazione al presupposto reato associativo. Ed
anche l’episodio della corruzione del Longo, impossibile da collegare al presunto
programma del sodalizio ma spiegabile come iniziativa occasionale, non
fornirebbe alcuna chiave di lettura della veste assunta dal B.B. nell’ambito
dell’associazione contestata.

dall’Avv. Dinoia costituisce ulteriore articolazione del primo, in punto di corretta
applicazione della norma di diritto sostanziale contestata. In concreto,
ricostruendo la posizione dell’imputato all’interno del sodalizio criminoso come
soggetto che – pur non avendo ideato il programma e gli strumenti operativi per
darne attuazione – operò in modo da rivelare la sua consapevolezza dell’illiceità
delle operazioni, le sentenze di merito disegnano in capo a lui un elemento
soggettivo da definire in termini di dolo eventuale, come mera accettazione della
possibilità del compimento di atti fraudolenti in danno dell’Erario: stato
incompatibile con la struttura stessa del reato ex art. 416 cod. pen., che richiede
invece il dolo specifico della volontà di aggregarsi con altri al fine di commettere
più delitti.
5.3 Con il terzo motivo, si deduce mancanza di motivazione della sentenza
impugnata quanto al ritenuto concorso dell’imputato nei reati fine di cui ai capi
B), E), G) ed H). Operando un rinvio per relationem alla sentenza di primo
grado, la Corte di appello risulta avere affermato che il Tribunale di Milano aveva
collocato il B.B. nella stessa posizione del A.A., indicando entrambi
come gli ideatori del complesso sistema di fatturazioni incrociate: inciso tuttavia
non corrispondente al vero, giacché i giudici di prime cure avevano diversificato
quelle posizioni, come già evidenziato in precedenza. L’affermazione censurata,
inoltre, costituirebbe per la Corte territoriale l’occasione di liquidare il problema
dei motivi di appello presentati sul punto nell’interesse del B.B., venendo
rappresentato che egli non ne avrebbe svolti di specifici in ordine alla sua
partecipazione ai reati-fine: rilievo parimenti inesatto, essendo così rimasti privi
di risposta plurimi e circostanziati motivi di gravame.
5.4 Con il quarto motivo si lamenta mancanza ed illogicità della motivazione
con riguardo alla ritenuta natura evasiva del c.d. prestito Moretti, di cui al capo
E) della rubrica.
Nei motivi di appello, si era sostenuto nell’interesse (anche) del B.B.
che l’operazione di finanziamento sopra menzionata era stata effettiva,
contrariamente all’assunto accusatorio secondo cui era stata iamente

31

5.2 n secondo motivo di ricorso spiegato nell’interesse del B.B.

trasformata una percezione di utili, sottoposta ad un regime fiscale sfavorevole,
in una corresponsione di interessi. La Corte di appello, nel dare atto di quelle
doglianze, le avrebbe tuttavia pretermesse senza affatto esaminarle, limitandosi
a segnalare quale dato decisivo che l’incrocio delle due operazioni di
finanziamento si fosse esaurito – con un presunto saldo zero – nell’arco di una
sola giornata.
5.5 II quinto motivo riguarda la violazione ed erronea interpretazione
dell’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, con riguardo ai capi E-3bis) ed E-4), nonché la

dei giudici di merito, ancora con riguardo alla c.d. operazione Moretti, porta a
conferire contemporanea rilevanza, sul piano della frode fiscale, sia al primo
passaggio (emissione di una fattura per consulenza dalla Mythos S.p.a. nei
confronti della Moretti S.p.a.) sia a tutti quelli successivi, prima del passaggio
finale da Mythos Arké (cui le somme versate dalla Moretti S.p.a. in corrispettivo
dell’iniziale consulenza erano confluite) a Vittorio Moretti, nella forma di interessi
per il prestito. Così facendo, però, vi sarebbe stata una anomala moltiplicazione
di incriminazioni e sanzioni, in quanto i passaggi successivi al primo non
potrebbero in alcun modo intendersi produttivi di ulteriori ed autonome violazioni
di legge, tanto più che i passaggi di denaro fino alla Mythos Arké erano avvenuti
mediante transazioni di cifre identiche in entrata e in uscita – mediante
successive fatture emesse verso Mythos S.p.a. per altrettante consulenze da
Maranghino, Cofima e/o Andromeda, o fatture ancora successive da Citalia ad
Andromeda – e dunque senza rilevanza fiscale.
Sostiene in definitiva la difesa che, «se evento di evasione vi è stato, esso a
tutto concedere si sarebbe realizzato con il primo passaggio con la prima fattura,
rilasciata alla Moretti S.p.a.: dopo di allora, la somma asseritamente evasa
sarebbe stata semplicemente trasferita, senza alcuna ulteriore evasione».
5.6 Con il sesto motivo, si rappresenta inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, stante l’assoluta incompatibilità dell’elemento
soggettivo richiesto per tale fattispecie criminosa rispetto ai fatti contestati al
capo E-1).
Coerentemente al motivo di ricorso precedente, la difesa del B.B.
argomenta che dovrebbe necessariamente escludersi, per i passaggi intermedi
fino a Mythos Arké, qualsivoglia dolo specifico in capo a chi agì per le società del
gruppo Mythos, in quanto passaggi con saldo zero ex se incompatibili con
eventuali fini di evasione delle imposte. Né potrebbe sostenersi che il fine di
consentire a terzi l’evasione, contemplato nel precetto dell’art. 8, sia riferibile a
soggetti diversi da colui che risulti il destinatario diretto della fattura emessa,
stante l’intima correlazione – dimostrata anche dai lavori preparatori della legge

32

correlata illogicità della motivazione della sentenza impugnata. La ricostruzione

di riforma, come pure dall’assoluta identità di sanzioni – fra la condotta qui
contestata e la parallela incriminazione dell’utilizzo di fatture emesse per
operazioni inesistenti, ai sensi del precedente art. 2.
5.7 Il settimo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Dinoia riguarda la
lamentata violazione ed erronea applicazione dell’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000: il
difensore deduce altresì manifesta illogicità della motivazione, con riguardo alla
ritenuta responsabilità dell’imputato sia in ordine a fatti sanzionati ex art. 8 dello
stesso d.lgs. – capo E-1) – sia in ordine a fatti di presunto rilievo penale ex art.

Nell’interesse del B.B. si sostiene che l’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000
esclude il concorso fra il reato di emissione di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti e quello di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di
quelle fatture o quei documenti: le Sezioni Unite hanno infatti affermato che in
base al quadro di riferimento normativo «per l’emittente, la successiva
utilizzazione da parte di terzi configura un postfatto non punibile, mentre per
l’utilizzatore, che se ne avvalga nella dichiarazione annuale, il previo rilascio
costituisce antefatto pure irrilevante penalmente» (si richiama la sentenza n. 27
del 2000, già ricordata in precedenza). Il rilievo, ad avviso della difesa
dell’imputato, deve valere anche per chi concorra sia nella condotta
dell’emittente che in quella dell’utilizzatore, dovendo tale terzo soggetto – il
partecipe nella commissione di uno dei delitti che sia anche concorrente
eventuale nel secondo – rispondere comunque di un reato unico: la soluzione
deve considerarsi imposta anche dalla Corte Costituzionale, all’esito dello
scrutinio di legittimità cui risulta essere stato sottoposto il citato art. 9 (sentenza
n. 49 del 2002).
Di contrario avviso è però la sentenza impugnata, che – sul presupposto
della constatazione che le stesse persone fisiche risultano al contempo
rappresentanti sia della società emittente che di quella utilizzatrice le fatture nega doversi ravvisare nel caso concreto una ipotesi di concorso, esclusa dall’art.
9, dovendosi invece imputare a quelle persone fisiche, in via autonoma,
entrambi i delitti di cui si discute. La difesa del B.B. censura
l’interpretazione proposta, atteso che la

ratio

delle norme in esame è

innegabilmente quella di evitare una indebita moltiplicazione di sanzioni: inoltre,
il rilievo che vorrebbe identità soggettiva fra il legale rappresentante della
società emittente e quello della utilizzatrice si attaglia in concreto ad un solo
episodio, contemplato al capo E-3), dove il A.A. risulta titolare dell’una e
dell’altra (Andromeda e Mythos S.p.a.). In ogni caso, quanto al B.B. egli
non era legale rappresentante né di società emittenti né di società utilizzatrici di

33

2 – capi E-3), E-3bis) ed E-4).

fatture di sorta, ma semplice concorrente eventuale, in ipotesi, nei fatti dei primi
e dei secondi.
5.8 Con l’ottavo motivo, l’Avv. Dinoia segnala inosservanza ed erronea
applicazione dell’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, e omessa motivazione della
sentenza impugnata, con riguardo alla ritenuta responsabilità dell’imputato in
ordine ai fatti di cui ai capi G-1) ed H-1).
Le operazioni di cui ai capi G-1) ed H-1), correlate a quelle sub G-2) e H-2),
descriverebbero le condotte di c.d. dividend washing: è comunque un fatto

finanziari” mediante i quali venne resa possibile la presunta distribuzione
simulata di utili, descritta nei capi immediatamente successivi. Se ciò è vero,
dovrebbe escludersi – coerentemente ai principi già espressi con riguardo ai
“passaggi intermedi” dell’operazione Moretti – che transazioni a saldo zero
possano autonomamente assumere rilevanza in termini di illecito penale
tributario.
5.9 Con il nono motivo, si deduce inosservanza ed erronea applicazione
dell’art. 640 cod. pen., quanto alla riqualificazione ai sensi dell’art.

10-quater

d.lgs. n. 74 del 2000, in ordine ai fatti di cui ai capi G-2) ed H-2).
La difesa del B.B. sostiene che il motivo di appello sulla assoluta
impossibilità di ritenere l’addebito di cui all’art.

10-quater citato (che richiede il

mancato versamento di somme dovute utilizzando l’istituto della compensazione
in modo scorretto) sussumibile nel più ampio genus della truffa (che richiede
invece il compimento di un atto di disposizione patrimoniale a seguito di artifici e
raggiri, con induzione in errore da questi determinata) non ha avuto alcuna
risposta da parte della Corte territoriale.
Il ricorso analizza l’intera problematica, anche mirando a confutare
l’interpretazione già suggerita da alcune pronunce di legittimità sullo specifico
tema.
5.10 Con il decimo motivo, l’Avv. Dinoia lamenta mancanza di motivazione
della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per
concorso nei fatti sub H-1) ed H-2).
Nell’interesse del B.B. si rappresenta che in sede di appello erano state
contestate le argomentazioni del Tribunale a sostegno dell’ipotizzata
partecipazione dello stesso prevenuto alle condotte sopra richiamate (che
consistevano nell’averne evidenziato i contatti con determinati funzionari di
banca, le attività di procacciamento di clienti, le cariche ricoperte in alcune delle
società coinvolte ed i vantaggi fiscali conseguiti): non di meno, la Corte
territoriale avrebbe confermato la sentenza di primo grado ignorando quelle
ragioni di doglianza e rappresentando anzi che in punto di consapevolezza dei

34

pacifico, secondo la difesa del B.B., che i primi due capi descrivono i “giri

vari imputati nelle attività di realizzazione dei presunti reati-fine le varie difese
non avevano svolto specifici motivi di gravame.
5.11 Il motivo successivo riguarda analoghi profili di carenza motivazionale
della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità del B.B.
quanto ai fatti sub B), collegati ai capi G) ed H). Su tali addebiti, la Corte di
appello di Milano si sarebbe apoditticamente limitata a considerare che i capi
B7), B9) e B16) fossero riconducibili allo schema del

dividend washing e

descrivessero operazioni inesistenti.
Con il dodicesimo motivo si sostiene contraddittorietà della

motivazione della sentenza impugnata, ed erronea applicazione della legge
penale sostanziale, in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato quanto ai
reati-fine che si assumono realizzati dopo il 29/09/2005. La Corte territoriale
avrebbe infatti corretto solo in parte l’errore argomentativo di cui alla sentenza
del Tribunale, che – pur avendo affermato il distacco del B.B. dal gruppo
Mythos in conseguenza del suo arresto – aveva comunque condannato
l’imputato anche per reati posteriori alla data anzidetta; all’assoluzione del
B.B. per non aver commesso il fatto, giustamente pronunciata dalla Corte in
ordine al capo B17), avrebbe però dovuto aggiungersi, per l’identica ragione,
quella per i reati sub B9) e B16), come pure per tutte le operazioni contemplate
ai capi E), G) ed H), aventi data successiva al settembre 2005.
5.13 Con il penultimo motivo, l’Avv. Dinoia censura la sentenza impugnata
per mancanza ed illogicità della motivazione, in ordine alla commisurazione della
pena ed alla omessa concessione di attenuanti generiche. Il difensore segnala
che la fissazione della nuova pena base, tenendo conto della parziale assoluzione
pronunciata per il reato associativo, risulta da mere clausole di stile, quando
invece alla notevole riduzione della permanenza del reato quanto al B.B.
(dal 2001 al settembre 2005, piuttosto che al febbraio 2008 come inizialmente
contestato), non aveva fatto seguito una proporzionale riduzione della pena
posta a base del computo (anni 3 di reclusione in primo grado, anni 2 e mesi 2
per i giudici di appello).
Scorretta sarebbe altresì la negazione all’imputato delle circostanze ex art.
62-bis cod. pen. in virtù del «precedente penale per la vicenda corruttiva»,
essendosi trattato di un aspetto della stessa vicenda, per quanto separatamente
giudicato, e non già di un precedente in senso tecnico; altrettanto
insoddisfacente dovrebbe ritenersi il richiamo alle ragioni utilizzate dalla Corte
per escludere la concedibilità delle circostanze attenuanti in parola al A.A.,
atteso che «la valutazione circa la meritevolezza delle generiche è per definizione
una valutazione legata alla posizione del singolo ed alle sue caratteristiche

35

5.12

soggettive», tanto più che al coimputato era stato addebitato il ruolo di vertice
del sodalizio criminoso e di ideatore delle operazioni illecite.
5.14 Infine, il difensore del B.B. segnala manifesta illogicità della
motivazione, nella parte in cui risulta avere confermato le statuizioni civili sulla
determinazione della provvisionale malgrado l’intervenuto ridimensionamento
delle responsabilità dell’imputato per essere stata esclusa la sua partecipazione
alle attività del gruppo dopo il settembre 2005.

Avv. Alberto Paone.
6.1 Con il primo motivo, la difesa lamenta violazione e falsa applicazione
dell’art. 429 cod. proc. pen. in ordine al rigetto di una eccezione di nullità del
decreto che dispone il giudizio.
Analogamente a quanto sostenuto dalla difesa del A.A., il ricorrente
lamenta genericità e indeterminatezza dei capi d’imputazione, laddove non
risulta alcuna contestazione in forma chiara e precisa né con riguardo al reato
associativo (visto che il B.B. viene indicato come “socio di riferimento” del
gruppo Mythos, senza alcuna specificazione di come debba essere intesa
l’espressione o descrizioni del contributo offerto dall’imputato all’interno del
presunto sodalizio), né a proposito degli ipotizzati reati fine (dove il B.B.
risulterebbe “responsabile in seno al gruppo Mythos della organizzazione e della
gestione finanziaria, economica e fiscale delle società”, dicitura parimenti non
meglio esplicitata in concreto, al pari di quella, altrimenti utilizzata, di legale
rappresentante di società del gruppo medesimo non esattamente evidenziate),
né quanto alle contestate ipotesi di truffa e corruzione (in cui l’imputato viene
descritto come rappresentante legale, amministratore di fatto o professionista
apicale).
6.2 Con il secondo motivo si rappresenta violazione ed erronea applicazione
degli artt. 191, 253, 359 e 360 cod. proc. pen., quanto alla produzione ad opera
del Pubblico Ministero di e mail tratte dal server della Mythos, acquisite a seguito

di accertamenti tecnici non ripetibili.
La difesa segnala che a seguito di decreto di sequestro emesso dal
Procuratore della Repubblica di Milano vennero acquisite copie di back up di tutti

i documenti contenuti nel sistema informatico del gruppo Mythos,
successivamente riprodotti mediante attività tecnica delegata a consulenti
appositamente nominati: tale attività, formalmente disposta nelle forme degli
accertamenti tecnici ripetibili, in realtà si sarebbe rivelata non ripetibile, con la
conseguente violazione delle forme del contraddittorio nei confronti degli
imputati, non possibilitati a prendervi parte (all’epoca, quanto alla specifica

36

6. Propone ricorso per Cassazione anche l’ulteriore difensore del B.B.,

posizione del B.B., egli non risultava neppure sottoposto a indagini).
L’ordinanza con cui il Tribunale risulta avere rigettato l’eccezione di inutilizzabilità
tempestivamente avanzata dalla difesa, basata sulla circostanza che quei
supporti informatici sarebbero stati forniti dagli imputati, meriterebbe censura
essendovi stato travisamento delle evidenze del processo, fra l’altro dovendosi
dare atto che il back up come sopra acquisito – malgrado il decreto di sequestro

presupposto – non risulta mai essere stato versato agli atti quale corpo del
reato.

della decisione in ordine alla utilizzabilità della testimonianza resa da Salvatore
Longo, profilo per cui la difesa lamenta violazione ed erronea applicazione degli
artt. 191, 187, 190, 194, 495 cod. proc. pen., e correlata mancanza di
motivazione circa l’appello specificamente proposto sul punto in esame.
Il B.B. aveva infatti impugnato la sentenza di primo grado circa la
ritualità delle domande poste dal P.M. al teste Longo, che riguardavano un
presunto episodio di corruzione del settembre 2005, da considerare già coperto
da giudicato; già all’atto dell’istruttoria dibattimentale era stata sollevata
un’eccezione difensiva, rigettata peraltro dal Tribunale in quanto nel presente
processo sarebbe stato contestato un episodio di corruzione differente, e che
l’addebito di reato associativo avrebbe comunque legittimato la proposizione
delle domande in questione. Nell’atto di appello veniva evidenziato che tra i
reati-fine dell’associazione non vi era alcun riferimento allo specifico episodio che
aveva visto protagonista il Longo (vi era solo il caso della presunta corruzione di
E.E.) e che contestare ancora al B.B. quel reato già giudicato,
sia pure al fine di contestargli in concreto un reato diverso, aveva comportato la
violazione del divieto di sottoporre l’imputato a nuovo procedimento penale per il
medesimo fatto.
Sul punto, la Corte di appello di Milano non avrebbe offerto alcuna
motivazione, lasciando pertanto senza risposta il profilo di gravame.
6.4 Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione ed erronea
applicazione dell’art. 495 cod. proc. pen., nonché omessa e contraddittoria
motivazione della sentenza impugnata quanto al motivo di appello concernente
la riduzione della lista testimoniale presentata nell’interesse del B.B.,
giacché ritenuta sovrabbondante.
La difesa rappresenta di avere a suo tempo proposto appello anche avverso
l’ordinanza del 25/06/2010, con la quale il Tribunale di Milano – dopo che la lista
testimoniale del B.B. era già stata ridotta su iniziativa della stessa difesa aveva drasticamente e ulteriormente ridotto detta lista, anche con riferimento a

37

6.3 Il terzo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Paone è dedicato alla censura

testimoni che avrebbero dovuto riferire circostanze fondamentali, puntualmente
evidenziati.
La Corte di appello, parimenti a quanto segnalato nel motivo di ricorso
precedente, non avrebbe fornito alcuna risposta al motivo di gravame appena
illustrato: in concreto, avrebbe potuto dirsi inutile motivare sulla esclusione dei
testi chiamati a deporre sulla partecipazione del B.B. alle attività del gruppo
dopo il settembre 2005 (essendo intervenuta assoluzione dell’imputato in parte
qua, almeno in ordine alla partecipazione posteriore del B.B. al reato

6.5 Con il quinto motivo, si lamenta violazione ed erronea applicazione degli
artt. 416 cod. pen., 187, 192 e 533 cod. proc. pen., per mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, nonché travisamento della prova.
Nell’interesse del B.B. si evidenzia che gli elementi ritenuti decisivi dai
giudici di merito in punto di ritenuta sussistenza del reato associativo appaiono
in realtà inconferenti e non adeguatamente specificati: di stabili contatti con
funzionari di banca o addetti ad uffici finanziari sarebbe infatti stato normale
trovarne, all’interno del gruppo ed in ragione dell’attività svolta (e comunque non
risultano individuati i soggetti con cui quei contatti sarebbero intercorsi); la
predisposizione di fogli di calcolo da utilizzare in forma seriale appare normale
modus operandi per attività comunque ripetitive; la pluralità dei reati che si
assumono commessi in esecuzione del programma appare elemento neutro,
dovendosi comunque raggiungere la prova di un reato per strade diverse rispetto
al mero richiamo di altri reati parimenti da provare; la metodica del ricorso a
periti compiacenti sarebbe espressa in termini generici.
Al contrario, secondo l’assunto difensivo plurimi dati testimoniali
convergerebbero nell’evidenziare che all’interno del gruppo Mythos esisteva una
struttura piatta e non piramidale, avente dunque caratteristiche ex se non
compatibili con l’assunto di una presupposta organizzazione con divisione di
compiti, finalizzata a commettere delitti. Parimenti, numerose testimonianze
danno contezza del fatto che il B.B. non aveva alcuna funzione di concreta
gestione delle società del gruppo, come peraltro aveva sostanzialmente
ammesso lo stesso A.A. rendendo interrogatorio.
6.6 II sesto motivo si riferisce alle norme di cui agli artt. 110 cod. pen., 2, 3,
8 e 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000, delle quali si segnala inosservanza ed
erronea applicazione in ordine alla ritenuta responsabilità del B.B. per i
presunti reati-fine dell’associazione. Il ricorrente, che a riguardo deduce altresì
mancanza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata,
asserisce che quelli in tema di violazioni fiscali debbono considerarsi reati propri,

38

associativo), ma non altrettanto su tutti gli altri.

da imputare a chi sottoscrive e presenta la dichiarazione, a chi emette o rilascia
la fattura, a chi non versa le somme dovute utilizzando crediti in compensazione
che in realtà non sarebbero di spettanza: tutte figure che il B.B. non ha mai
assunto, dovendosi pertanto ritenere un extraneus (senza che risulti altrimenti
dimostrato il suo concorso con qualsivoglia intraneus).
L’illogicità della motivazione della sentenza di condanna a carico
dell’imputato sarebbe altresì resa manifesta dalla circostanza che, pronunciata la
sua assoluzione limitatamente alla partecipazione al reato associativo in epoca

Longo, sopra ricordata), egli risulta comunque essere stato ritenuto responsabile
per alcuni reati di carattere fiscale commessi dopo quella data.
6.7 Con il settimo motivo di ricorso si deducono carenze motivazionali della
sentenza impugnata quanto al ritenuto carattere evasivo, invece che meramente
elusivo, delle operazioni contestate all’imputato.
In sede di motivi di appello, la difesa aveva puntualmente evidenziato che gli
elementi di accusa non erano stati tratti da documenti segreti, contabilità
parallele od altre risultanze riservate, bensì da quanto esposto alla luce del sole
nelle scritture del gruppo Mythos: ciò avrebbe dovuto dare chiara contezza
dell’impossibilità di considerare fittizie le operazioni contestate, come del resto
già emerso in sede di verifica fiscale, con valutazioni compiute da personale
direttivo dell’Agenzia delle Entrate. La Corte territoriale avrebbe perciò errato
nel non considerare decisiva detta circostanza, né avrebbe dato alcun rilievo al
possibile e ragionevole affidamento, da parte di chi si fosse trovato a collaborare
nelle attività del gruppo, sulla conformità alla legge di operazioni niente affatto
occultate o mascherate. Non appare altresì condivisibile, secondo la difesa,
l’assunto dei giudici di merito secondo cui potrebbero comunque esistere
operazioni elusive con rilevanza penale.
6.8 Con l’ottavo motivo si rappresenta mancanza ed illogicità della
motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità del
B.B. quanto ai reati sub E-1), E-3) ed E-3bis).
Il motivo presenta contenuto identico, in sintesi, rispetto ai profili di
doglianza già esposti sull’operazione Moretti da parte del codifensore nel ricorso
esaminato al punto precedente.
6.9 Con il nono motivo, l’Avv. Paone segnala contraddittorietà ed illogicità
della motivazione, nonché travisamento della prova, nella parte in cui viene
descritto il ruolo che il B.B. avrebbe assunto nella realizzazione dei presunti
reati-fine del sodalizio.
Anche in questo caso il motivo riproduce le deduzioni esposte dal
codifensore, nel proprio ricorso, a proposito dell’impossibilità di considerare il

4111110y
39

AI-

successiva al suo arresto del settembre 2005 (per la vicenda della corruzione

B.B. quale ideatore delle operazioni sottese alle violazioni tributarie,
essendo stato contemporaneamente affermato in sentenza che non vi sarebbe
prova della sua partecipazione a tutte le operazioni dell’area fiscale.
6.10 Con il decimo motivo viene dedotta violazione dell’art. 521 cod. proc.
pen., ed omessa motivazione, quanto alla intervenuta riqualificazione degli
addebiti di truffa ai sensi dell’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000; le doglianze
sono sovrapponibili a quelle avanzate dall’Avv. Dinoia nel nono motivo di cui al

7. Propone ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi, anche il difensore
di C.C..
7.1 Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 521 cod.
proc. pen., per mancata correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in
sentenza, nonché carenza di motivazione. La difesa lamenta che, in relazione ai
capi G2) ed H2), inizialmente qualificati ai sensi dell’art. 640 cod. pen., la rubrica
non consentirebbe in alcun modo di chiarire se debba intendersi superata la
soglia quantitativa necessaria per la configurabilità delle ipotesi di cui all’art. 10bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000; anche per tale motivo, posti dinanzi al
rapporto fra il delitto di truffa ed il reato di frode fiscale, anche alla luce delle
indicazioni della giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito avrebbero
ritenuto sussistente il secondo «aggiungendo, nella ricostruzione del fatto-reato
accertato, elementi fattuali non compresi nell’imputazione». L’identico profilo di
doglianza già avanzato con l’atto di appello non sarebbe stato in alcun modo
esaminato dalla Corte territoriale.
7.2 Con il secondo motivo, il difensore del C.C. deduce inosservanza ed
erronea applicazione delle norme incriminatrici contestate al proprio assistito e
contemplate dal ricordato d.lgs. n. 74, nonché carenze motivazionali. Premesse
alcune considerazioni definitorie, osserva – al pari di quanto segnalato
nell’interesse dei coimputati in ordine al rapporto fra evasione ed elusione fiscale
– che le operazioni sottese ai negozi giuridici oggetto dei vari addebiti in rubrica
furono effettive e corrispondenti al vero, perciò «l’avere ritenuto che le
operazioni oggetto dell’imputazione a carico del ricorrente siano state
penalmente rilevanti, pur non essendo fittizie, costituisce grave violazione della
norma applicata».
7.3 L’ultimo motivo, correlato ai precedenti, ha per oggetto il vizio di
inosservanza ed erronea applicazione dell’art.

10-quater del d.lgs. n. 74 del

2000, relativamente ai capi G2) ed H2) già ricordati. La difesa, che lamenta
anche mancanza e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata,
sostiene che le presunte frodi contestate al C.C. si assumono commesse

40

proprio ricorso.

prima dell’entrata in vigore della norma di cui al citato art.

10-quater, che –

stando anche a quanto ritenuto dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte – non
sanziona condotte già rientranti nella portata applicativa dell’art. 640 cod. pen.,
bensì descrive una nuova previsione incriminatrice; ergo, la Corte di appello di
Milano avrebbe errato nel ritenere che la norma speciale fosse più favorevole
rispetto al precetto sanzionatorio della truffa (posto a tutela di interessi diversi
da quelli tributari), venendo invece ad applicare «una pena per una condotta
che, al momento della commissione del fatto, non era prevista come reato né

8. Nell’interesse di D.D. viene presentato ricorso a firma dei
di lui difensori.
8.1 Con il primo motivo, viene riproposta una eccezione di inutilizzabilità
degli atti non allegati alla richiesta di rinvio a giudizio, in particolare riguardo a
due relazioni di consulenza tecnica su dati informatici acquisiti a seguito di un
decreto di sequestro del P.M. milanese del 13/12/2005. Ricostruita la
successione cronologica dei vari provvedimenti e delle conseguenti attività svolte
nel corso delle indagini preliminari sul materiale in questione, i difensori del
D.D. fanno presente che dall’esame in dibattimento di uno dei consulenti
sarebbe emersa la circostanza della consegna alla polizia giudiziaria di 61 cdrom, su cui gli inquirenti avrebbero poi svolto accertamenti selezionando il
contenuto da allegare alle varie informative, senza che però quei supporti
fossero mai stati messi a disposizione delle difese.
Risulterebbe dunque erronea la motivazione adottata dalla Corte di appello
per disattendere l’eccezione, avendo quei giudici rilevato che le parti avrebbero
sempre avuto a disposizione il materiale informativo, consultabile con programmi
di comune utilizzo: un conto è infatti la copia di back-up del server del gruppo
Mythos, altra cosa le operazioni di consulenza tecnica. L’eccezione viene
spiegata anche con riguardo agli esami testimoniali o degli imputati che a quelle
relazioni possano aver fatto riferimento.
8.2 Con il secondo motivo, i difensori del D.D. deducono violazione
degli artt. 192, 530 e 533 del codice di rito, nonché mancanza ed illogicità della
motivazione con riguardo alla ritenuta configurabilità del reato associativo.
Nel ricorso si segnala che, a dispetto dell’affermazione dell’esistenza di una
“struttura parallela”, volta a commettere una serie indeterminata di reati di
natura fiscale all’interno di una regolare attività d’impresa del gruppo, appare
illogico ritenere membro di tale sodalizio chi era comunque estraneo all’area
fiscale del gruppo Mythos (come appunto il D.D.), mentre ad altri
soggetti che vi prestavano stabilmente la loro opera, anche a proposito delle

41

era punita da alcuna norma penale».

operazioni societarie descritte nei capi d’imputazione, non verrebbe addebitato
alcunché. Situazione resa ancor più evidente dalla circostanza della intervenuta
assoluzione del D.D. dai vari reati-fine a lui addebitati, avendo già il
Tribunale di Milano «ritenuto non sussistente l’imprescindibile elemento
soggettivo in relazione alle ipotesi di frode fiscale asseritamente commesse
dall’associazione, conformemente del resto alle stesse richieste del P.M. (della
cui requisitoria dinanzi ai giudici di primo grado vengono riportati alcuni passi,
laddove si dava atto che la posizione del D.D. usciva dal processo

A seguito della condanna dell’imputato – comunque assolto dai presunti
reati-fine – per il solo reato associativo, la difesa aveva evidenziato nei motivi di
appello che il D.D. non aveva mai usufruito di alcun credito di imposta, a
differenza degli altri presunti appartenenti alla consorteria criminale, né si era
mai avvalso del meccanismo del manfee per abbattere il carico fiscale; egli era
anche l’unico a non aver mai posseduto quote o rivestito cariche nelle società
che avevano utilizzato quei sistemi od avevano comunque «beneficiato del
sistema asseritamente elusivo-evasivo». Tuttavia, la Corte territoriale aveva
tenuto ferma la declaratoria di penale responsabilità, in termini apodittici e senza
concretamente esaminare le ragioni di doglianza.
8.3 Con il terzo motivo, si lamenta ancora violazione degli artt. 192, 530 e
533 cod. proc. pen., ed omessa ovvero illogica motivazione in punto di
affermazione della sussistenza in capo al D.D. dell’elemento psicologico
del delitto ex art. 416 cod. pen.
Premesso che elemento fondante la decisione, da parte dei giudici di merito,
sarebbe quello della centralità del ricorso a perizie di comodo, all’interno della
struttura della Mythos, strumentali alla funzionalità della “struttura parallela”
sopra delineata, e che il ruolo del D.D. sarebbe stato quello di capo
dell’area aziendale ove quelle perizie venivano commissionate ed alla quale le
stesse confluivano, i difensori dell’imputato osservano che la presunta
associazione per delinquere sorgerebbe – stando alla rubrica – nel 2001, ma
nella sentenza del Tribunale di Milano viene dato atto che il gruppo si avvaleva di
perizie siffatte almeno dal 1997. Già da tale constatazione i giudici di primo
grado, e quelli di appello che ne avevano recepito le argomentazioni, avrebbero
però dovuto trarre spunto per inferirne che quella metodologia di lavoro non
poteva considerarsi indicativa del venire in essere del sodalizio.
Inoltre, stando alla lettera del capo G2), che secondo la difesa riguarderebbe
proprio la condotta contestata in concreto al D.D., di perizie vere o false
non si parla affatto (tant’è che nel corso dell’istruttoria dibattimentale era
emerso che il valore sotteso all’operazione de qua era stato fiss. • dallo stesso

42

“fortemente ridimensionata”).

A.A., senza ricorrere ad esperti di sorta): e, quanto alla generalità delle
operazioni straordinarie contestate, laddove era stato necessario valutare
avviamenti o plusvalenze, non era stato parimenti necessario acquisire alcuna
perizia, essendo quelle coinvolte per lo più società di persone, e non già di
capitali.
Il vizio della sentenza impugnata deriverebbe pertanto dal rilievo che
«sarebbe stato necessario esplicitare nella motivazione in modo logico e
coerente su quali basi fosse possibile dimostrare la partecipazione di D.D.

non avevano avuto alcuna influenza nelle operazioni illecite contestate e se, nella
predisposizione dei prodotti fiscali illeciti, per esplicito dictum del Tribunale che lo
ha assolto per tutti i reati fine contestati, il D.D. non aveva avuto
contezza del fine delle perizie, né aveva percepito alcun tipo di utile o di
vantaggio fiscale, era necessario comprendere in concreto, al di là di ogni
ragionevole dubbio, in cosa sarebbe consistito il suo concreto apporto alla vita
dell’associazione».
Del resto, sempre secondo l’assunto della difesa, l’istruttoria dibattimentale
aveva fatto emergere che le attività correlate alla predisposizione delle perizie
costituiva una parte del tutto marginale nell’ambito delle varie incombenze
dell’area aziendale della Mythos; né poteva considerarsi dirimente il contenuto di
una sola e mail, citata dal Tribunale e richiamata anche nella sentenza della

Corte, di cui il D.D. era stato destinatario, peraltro da riferire ad
un’operazione mai contestata, dalla quale poter arguire soltanto che l’imputato
era a conoscenza «della procedura di lavoro in essere, nella struttura lecita, da
svariati anni».
8.4 Con il quarto motivo, i difensori dell’imputato rappresentano
inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2343 e 2465 cod. civ., non
essendo comunque stato indicato quali specifiche perizie sarebbero state
strumentali al perseguimento dei fini illeciti del sodalizio, né essendo stato
dimostrato – al di là della circostanza che gli elaborati venivano curati all’interno
della Mythos per poi essere sottoposti ad un perito esterno ai fini
dell’asseverazione – che i dati ivi riportati fossero davvero falsi, o che non
fossero stati rispettati i canoni legali per la valutazione di conferimenti: peraltro,
come parimenti emerso nel dibattimento di primo grado, lo stesso codice
deontologico dei dottori commercialisti non esclude la possibilità del cliente o di
terzi di partecipare attivamente alla stesura della perizia.
8.5 II quinto motivo di ricorso riguarda la mancata declaratoria di
prescrizione del reato addebitato al D.D., già maturata alla data della
sentenza di appello, atteso che la sua partecipazione alla ipotizzata associazione

43

al reato associativo. Se, dall’istruttoria dibattimentale, era emerso che le perizie

avrebbe dovuto comunque collocarsi non oltre il 2002 o 2003, anni a cui
risalivano le operazioni di dividend washing realizzate (secondo l’accusa) anche
attraverso l’utilizzo di perizie; ciò anche perché analogo criterio, in ragione delle
peculiarità dei delitti di frode fiscale, era stato osservato per la posizione del
coimputato B.B., assolto quanto al periodo successivo a quello per cui
poteva intendersi dimostrato un suo contributo.
8.6 Con il sesto ed ultimo motivo, la difesa del D.D. lamenta carenza
di motivazione quanto alla determinazione del trattamento sanzionatorio e

Nell’interesse del ricorrente si fa presente che non è stato tenuto conto della sua
pregressa incensuratezza e del suo ruolo subordinato all’interno dell’ipotizzata
associazione, come pure della assenza di vantaggi economici per l’imputato dalle
operazioni contestate. L’ammontare del danno sarebbe poi stato
immotivatamente fissato in C 300.000,00, pur essendo il D.D. stato
assolto da qualunque reato-fine, né risulterebbero risposte ai motivi di appello
formulati in punto di necessità di una diversa valutazione della componente non
patrimoniale.

9. Anche il difensore di E.E. propone ricorso, sviluppando tre
motivi.
9.1 Con il primo motivo, il ricorrente lamenta inosservanza ed erronea
applicazione degli artt. 318, 320, 357 e 358 cod. pen., nonché mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, con riguardo alla attribuzione nei suoi confronti della qualità di
pubblico ufficiale.
Secondo la difesa, pur essendo incontestabile che l’E.E. fosse un
dipendente della Esatri Esazione Tributi S.p.a., ente privato concessionario di un
pubblico servizio, non risulta corretta l’affermazione dei giudici di merito che lo
definisce “esattore”, o quanto meno deve ritenersi che quella veste non sia stata
dimostrata, visto che certamente non sarebbe possibile sostenere che dovesse
riconoscersi a qualunque dipendente della menzionata società. Richiamata la
normativa sulla regolamentazione del personale addetto ai servizi di riscossione
(d.lgs. n. 112 del 1999), la tesi difensiva è che l’E.E. non fosse un ufficiale
esattoriale, visto che non aveva mai sostenuto il prescritto esame di abilitazione
né era mai stato investito delle corrispondenti incombenze; né poteva definirsi
un messo notificatore, altra figura professionale involgente potenziali attività di
rilievo pubblicistico: egli era semplicemente «addetto in via esclusiva allo
sportello relativo ai rimborsi in conto fiscale» e svolgeva in concreto quella sola

44

dell’entità del risarcimento del danno in favore della parte civile costituita.

attività, come confermato anche dall’istruttoria dibattimentale di cui al giudizio di
primo grado.
Ne deriverebbe, pertanto, che all’imputato fosse richiesto soltanto di fornire
informazioni al pubblico all’atto della presentazione delle istanze, di ricevere le
domande con i documenti allegati e di inserire le stesse nel sistema informatico,
senza dover quietanzare alcunché o curare altre attività di rilevanza esterna.
Situazioni di fatto sovrapponibili a quelle di altre figure già esaminate dalla
giurisprudenza di legittimità, con l’esclusione della attribuibilità della veste di

Corte, giungendo alla conclusione che all’E.E. potesse forse riconoscersi la
qualità di incaricato di pubblico servizio, inidonea – non essendo egli al
contempo pubblico impiegato – a rendere configurabile a suo carico il delitto di
corruzione impropria.
La difesa si duole comunque della mancata analisi dei temi prospettati, che
costituivano già oggetto di specifici motivi di appello.
9.2 Con il secondo motivo, si rappresenta violazione dell’art. 192 del codice
di rito, nonché carenze, contraddittorietà e manifeste illogicità motivazionali in
punto di ritenuta sussistenza dell’elemento materiale del delitto contestato.
Sostiene la difesa che le prove orali acquisite nel dibattimento non
suffragherebbero la tesi accolta dai giudici di merito, in base alla quale l’E.E.
si sarebbe messo stabilmente a disposizione della Myhtos, chiamando il centro
operativo di Pescara per accelerare i rimborsi spettanti a quella società: a
riguardo, vengono riportate le dichiarazioni rese dal A.A., dal B.B., dallo
Zamparelli e – per esteso – dallo stesso responsabile del centro abruzzese,
come pure quelle del direttore della Esatri e della collega dell’imputato allo
sportello. Altrettanto erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato che
l’E.E. era stato autore di numerosi messaggi di posta elettronica, che invece
non risulterebbero in atti; né la sua posizione presso la Esatri avrebbe potuto
comunque consentirgli di svolgere un ruolo attivo per sbloccare o rendere più
veloci le istanze di rimborso, potendo al massimo l’addetto allo sportello
comunicare agli interessati lo stato delle pratiche (la stessa società in generale
non aveva alcuna possibilità di agevolazione, tant’è che quando i vertici della
Mythos avevano avuto necessità di un intervento diretto si erano rivolti a
funzionari dell’Agenzia delle Entrate).
Ergo, sarebbe illogico l’assunto della Corte di appello nel ritenere che
l’E.E. avesse mantenuto con la Mythos, ed in particolare con lo Zamparelli, un
rapporto informativo connotato da una sorta di esclusività, dovendo
sostanzialmente riservare quello stesso trattamento – verificare al terminale lo

45

pubblici ufficiali: il ricorrente richiama in proposito varie pronunce di questa

stato della procedura e comunicarlo al contribuente che gliene faceva richiesta a tutti gli utenti.
9.3 Con il terzo ed ultimo motivo, vengono svolte analoghe censure
invocando inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 43 cod. pen., sul piano
dell’elemento soggettivo del reato di corruzione impropria addebitato all’E.E..
Infatti, come cristallizzato nelle numerose deposizioni, e tenendo conto del
rapporto assolutamente fisiologico intrattenuto con lo Zamparelli, cui aveva
«continuamente manifestato l’assenza di alcun potere di influire sulla procedura

di formare o manifestare – con la propria attività di dipendente Esatri addetto
alla procedura di rimborso in conto fiscale – la volontà della pubblica
amministrazione, ovvero di prestare un servizio disciplinato nelle stesse forme
della pubblica funzione». Né risulta che l’E.E. potesse essersi prefigurato
«che il semplice espletamento della propria attività di sportellista avrebbe
precostituito come risultato la dazione dell’ormai tristemente famoso orologio».

10. Il 05/07/2012 l’Avv. Luca Marafioti ha depositato una nota in Cancelleria
sviluppando un motivo aggiunto di ricorso nell’interesse del D.D..
Il difensore dell’imputato lamenta, come già con il secondo degli originari
motivi, violazione degli artt. 192, 530 e 533 del codice di rito, nonché mancanza
ed illogicità della motivazione in punto di affermazione della sussistenza del
reato associativo. Ribadito che il D.D. risulta essere stato assolto da
tutti i reati-fine del presunto sodalizio, che non sarebbero stati provati contatti
fra lui ed i clienti del gruppo Mythos che avevano beneficiato delle operazioni
societarie contestate, né vantaggi fiscali che egli stesso avrebbe conseguito, si
tornano a censurare le argomentazioni adottate dai giudici di merito circa la
rilevanza penale della condotta dell’imputato solo in quanto responsabile
dell’area aziendale all’interno della quale venivano predisposte le perizie
contenenti valutazioni di comodo sui cespiti oggetto delle operazioni anzidette.
In particolare, la difesa osserva che in nessuna delle operazioni descritte nei
capi di imputazione sui singoli reati-fine risultano essere state utilizzate perizie di
sorta, vere o false che fossero: a tal proposito, richiama il contenuto della
testimonianza resa da un ufficiale della Guardia di Finanza nel corso del
dibattimento di primo grado, allegandone la relativa trascrizione.

11. L’Avv. Dinoia, difensore di B.B., ha depositato memoria in
data 13/07/2012.
11.1 Premesse alcune considerazioni di ordine generali sui vizi della
motivazione in ragione di carenze, contraddittorietà o manifeste illogicità, il

46

di rimborso […], non risulta provato che lo stesso E.E. avesse consapevolezza

difensore individua specifiche omissioni nel percorso argomentativo della
sentenza impugnata (anche se ragguagliato con il contenuto della decisione di
primo grado, e malgrado i ripetuti rinvii per relationem) in punto di valutazione
della sussistenza in capo al B.B. dell’elemento soggettivo necessario per
ritenere configurabili i reati contestati. Ciò perché appare assodato, all’esito
delle acquisizioni istruttorie, che le operazioni contestate in rubrica erano state
ideate e realizzate da altri, nell’ambito di una attività di impresa già consolidata:
e non potrebbe ammettersi ipso facto, soprattutto tenendo conto che era stata

gruppo, per rivolgere altrove i propri interessi professionali, che l’imputato vi
avesse in qualche modo partecipato o contribuito consapevolmente.
Escluso dunque, in sostanza, che il ruolo del B.B. fosse parificabile a
quello del A.A., la ricerca degli elementi da cui inferire quella partecipazione
e quel contributo avrebbe dovuto essere puntuale e rigorosa, giammai ridotta
alla mera presa d’atto di un suo presunto ruolo di vertice all’interno dell’impresa:
ricerca, tuttavia, che la difesa reputa essere stata del tutto omessa, e che anzi
appare elusa in termini apodittici e contraddittori laddove la Corte di appello
(disattendendo le osservazioni del Tribunale, che avevano comunque affermato il
contrario) risulta avere attribuito al B.B. il ruolo di “vero ideatore del
sistema fiscale”, al pari del Mainard i.
11.2 Analogamente, la Corte non avrebbe colto il senso dei motivi di appello
presentati avverso la pronuncia dei giudici di prime cure che, confinato l’ambito
cronologico di partecipazione dell’imputato al sodalizio criminoso nel periodo
antecedente il 29/09/2005, non avevano coerentemente assolto il B.B. da
tutti i reati fine assunti come commessi in data successiva a quella: la censura
non riguardava soltanto il reato sub B17), all’interno del quale vi erano fatti
successivi al settembre 2005 per cui si rendeva doverosa l’adozione di una
formula liberatoria per il prevenuto (disposta dalla Corte territoriale), ma anche
altre contestazioni, come ad esempio quanto ai reati di cui ai capi B9) e B16), ad
alcuni degli addebiti sub E), ecc.
11.3 Secondo l’Avv. Dinoia, inoltre, in ordine alle operazioni di c.d. dividend
washing 1, descritte nei capi sub G), sarebbe stato possibile individuare un
possibile contributo materiale del B.B., ma non altrettanto potrebbe dirsi
per quelle di dividend washing 2, di cui ai capi H), dove non emergono interventi
di sorta da parte dell’imputato: le carenze motivazionali della pronuncia
riguarderebbero dunque, in parte qua, anche l’elemento materiale.
11.4 n difensore riproduce quindi le censure svolte relativamente alla
presunta successione di leggi penali che secondo la Corte di appello di Milano si
sarebbe registrata tra le fattispecie astratte di truffa e quelle (ritenute più

47

provata la circostanza del distacco del B.B. dall’area tecnico-fiscale del

favorevoli) sanzionate dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000: al contrario,
«essendosi i fatti risolti nel mero inserimento in dichiarazione di un credito di
imposta (in ipotesi di accusa, inesistente), che aveva finito col ridurre il quantum
delle imposte versate autonomamente dai dichiaranti (spessissimo addirittura
prima della presentazione della dichiarazione), difettava qualsivoglia induzione in
errore dell’Erario, a maggior ragione una induzione in errore causalmente
rilevante su un atto di disposizione patrimoniale, negativo o positivo, che non era
mai esistito». A riguardo, nella memoria difensiva si segnala la non pertinenza

originari motivi di ricorso (Cass., Sez. II, n. 35968 del 20/05/2009, Cecconi,
menzionata anche dalla Corte territoriale); viene invece riprodotto un passaggio
della motivazione della sentenza della Sezione Seconda di questa Corte n. 7739
del 29/02/2012, sopra ricordata, a conferma dell’interpretazione suggerita.
11.5 Con riferimento alla operazione c.d. “prestito Moretti”, di cui ai capi sub
E), la difesa del B.B. torna a lamentare che erroneamente sarebbero state
ricondotte alle previsioni degli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 tutte le fatturazioni
relative ai passaggi intermedi fra il primo e l’ultimo, avvenuti sempre a saldo
zero e dunque inidonei a produrre ricchezza sottratta alla ipotizzata, doverosa
imposizione (quando invece le norme appena richiamate «non sanzionano
qualsivoglia emissione/registrazione di fatture per operazioni inesistenti, ma solo
quelle finalizzate ad un’evasione di imposta»).
11.6 Inoltre, parimenti erronea sarebbe stata la sentenza di condanna,
pronunciata anche nei confronti dell’imputato perché responsabile sia
dell’emissione che della registrazione delle fatture

de quibus, in violazione

dell’art. 9 dello stesso d.lgs. Al fine ora indicato, vengono richiamati ancor auna
volta i principi espressi dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 27
del 2000.
11.7 Da ultimo, l’Avv. Dinoia segnala l’intervenuta prescrizione di alcuni dei
reati per cui è intervenuta la condanna del B.B., ferma restando la
necessità di considerare l’imputato estraneo – per le ragioni sopra evidenziate a tutti i fatti risalenti a data successiva al 29/09/2005.

12. In data 27/09/2012 è stata depositata anche nell’interesse del A.A.
una memoria difensiva, con la quale vengono sviluppati alcuni dei punti già
trattati nei motivi di ricorso.
12.1 Con riguardo ai temi di cui al sesto motivo, si rappresenta che:
– l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato sarebbe conseguenza di
un grave travisamento della legge tributaria, penale ed extrapenale, interpretata
in termini contrastanti anche rispetto ai principi del diritto comunitario;

48

al caso di specie di una pronuncia di legittimità già richiamata nel nono degli

– la condanna del A.A. costituirebbe «illecito comunitario dello Stato italiano
e violazione degli obblighi internazionali dello Stato italiano, con tutte le
conseguenze legalmente previste»;
– nelle fattispecie concrete contestate al ricorrente non vi è traccia di frode,
secondo la nozione più volte affermata dalla giurisprudenza (da ultimo, con la
sentenza delle Sezioni Unite n. 1235 del 19/01/2011);

non può intendersi condotta criminosa risparmiare i tributi, neppure

«attraverso costruzioni ingegnose che profittino delle maglie lasciate aperte dalla

risparmio (senza altra giustificazione economica), se non si ricorre a simulazioni,
finzioni, false rappresentazioni, inganni»;
– nei casi di frode fiscale, penalmente rilevanti, si ricorre a documenti falsi od
interposizioni fittizie di soggetti per far apparire situazioni giuridiche difformi
dalla realtà, mentre nei casi di semplice elusione «si realizzano effettivamente
effetti giuridici, con operazioni reali (con soggetti compiacenti o collegati),
sostenute dal solo scopo di ottenere un regime tributario favorevole», tanto che
il vantaggio fiscale che ne deriva consegue proprio dalla circostanza che
l’operazione non è finta;
– così, nei casi di dividend washing «il credito di imposta, le minusvalenze e il
regime agevolato delle plusvalenze dipendono dal fatto che le operazioni di
compravendita dei titoli sono effettive e reali […]; si effettua alla luce del sole
una operazione vera, vantaggiosa, eventualmente realizzata solo perché
fiscalmente vantaggiosa. Essa può essere priva di giustificazione diversa dal
vantaggio fiscale, ma non è inesistente e non è fraudolenta»;
– la sentenza impugnata, erroneamente interpretando la legge penale,
«sistematicamente descrive come fittizie, fraudolente o inesistenti operazioni che
essa stessa si dilunga a dimostrare essere state poste in essere al solo scopo di
risparmiare tributi», nel senso che attribuisce «fittizietà (qualificandole come tali)
a condotte che essa stessa (e già i capi di imputazione) descrive (non come
false, ma) come effettuate strumentalmente allo scopo di ottenere vantaggi
tributari»;

nella motivazione si legge, a riprova dell’evidente contraddittorietà,

l’affermazione secondo cui condotte abusive meriterebbero sanzione in quanto,
pur non essendo fraudolente in senso proprio, «potrebbero essere indizio di
frodi»;
– la giurisprudenza di legittimità, anche nelle enunciazioni di maggior rigore
come ad esempio con la sentenza della Sezione II, n. 7739 del 28/02/2012,
esclude che un’operazione posta in essere al fine di perseguire vantaggi fiscali

49

formulazione della legge fiscale […], costruite al solo scopo di ottenere tale

possa qualificarsi fraudolenta, ipotizzando al più il diverso reato – qui non
contestato – di dichiarazione infedele.
12.2 A proposito di quanto già lamentato con il settimo motivo di ricorso, la
difesa del A.A. aggiunge che:
– a sostegno della presunta inesistenza delle operazioni contestate la sentenza
ricorre alla «sistematica valorizzazione di massime di esperienza abnormi,
irrilevanti, incongruenti e contraddittorie»;
– non assumono rilevanza logica le circostanze del controllo da parte del gruppo

coincidenza totale o parziale dei rispettivi amministratori o del ricorso alla
compensazione come mezzo di pagamento;
– non vi era la necessità, per le società in argomento, di disporre di mezzi
materiali o di lavoratori dipendenti, trattandosi di «soggetti di diritto svolgenti
attività aventi ad oggetto beni immateriali o prestazioni di servizi immateriali,
attraverso l’opera di professionisti con cui, volta a volta, sono stipulati contratti»;
– la pronuncia impugnata verrebbe invece a confondere «tra operazioni aventi ad
oggetto beni immateriali e servizi ed operazioni inesistenti, ritenendo
abnormemente indiziaria la mancanza di mezzi che, semplicemente, non servono
per le attività svolte»;
– non risulta dimostrato che i valori proposti dal gruppo Mythos, e poi fatti propri
dai professionisti che siglavano le cosiddette “perizie di comodo”, fossero
incongrui;
– l’effettività dei negozi giuridici contestati come inesistenti o fraudolenti non può
ritenersi esclusa in presenza di operazioni contrapposte di valore identico, che
rimangono reali «sia che i due soggetti compensino crediti e debiti, sia che si
facciano versamenti contestuali e simmetrici con moneta propria, sia che
ricorrano a finanziamenti immediatamente restituiti dal sistema bancario», a
nulla rilevando il dato empirico della velocità di esecuzione di dette operazioni,
caratteristica propria di qualunque transazione presso tutte le borse mondiali.
12.3 In ordine all’ottavo motivo di ricorso, la memoria sottolinea quanto
segue:
– nelle condotte contestate, non può sussistere comunque il dolo di evasione,
visto che detto fine si realizza soltanto «quando si emettono fatture false da
società in perdita (che non pagheranno imposte) verso società in utile (che
diminuiranno il reddito)», situazione non riscontrabile nella fattispecie concreta;
– all’interno del gruppo Mythos vi erano società con perdite fiscali che avevano
proceduto a rituale condono, per cui – se l’intento del A.A. e dei presunti
sodali fosse stato quello di simulare costi inesistenti – sarebbe stato agevole far
emettere fatture da quelle;

50

Mythos di numerose società, della denominazione seriale delle stesse, della

– nell’ambito di un gruppo societario, in ragione del consolidato fiscale, è lecito
spostare l’imposta fra due soggetti, senza danno per l’Erario, quando «A deduca
un costo inesistente e B paghi il tributo sul ricavo inesistente corrispondente»
– le stesse circolari dell’Amministrazione finanziaria, vigenti all’epoca dei fatti,
indicavano che potessero considerarsi operazioni fittizie «solo quelle
effettivamente non volute, e non quelle volute effettivamente e vantaggiose».
12.4 Circa i temi di cui al nono motivo di ricorso, si rappresenta ancora
inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000, non

mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento, al contrario risultando
appostazioni in contabilità, complete della descrizione delle varie causali,
suscettibili di facilitare i controlli.
12.5 Quanto al decimo motivo, la memoria difensiva depositata
nell’interesse del A.A. si sofferma sulla già ricordata sentenza di questa
Corte (Sezione Seconda, n. 7739 del 28/02/2012) secondo cui potrebbero
ravvisarsi gli estremi di un reato tributario anche in presenza di una operazione
effettiva, volta esclusivamente al risparmio fiscale, segnalando che in ogni caso
la pronuncia in questione reputa astrattamente ipotizzabile solo il delitto di
dichiarazione infedele o quello di omessa dichiarazione contemplati dagli artt. 4 e
5 del d.lgs. n. 74 del 2000, non già fattispecie criminose connotate da frode
come quelle qui contestate. Inoltre, perché possano assumere rilevanza penale,
tali condotte dovrebbero pur sempre rientrare nella previsione di cui all’art. 37bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (c.d. “elusione codificata”), il che non è per i fatti
di cui al presente processo, esempi di mero “abuso del diritto” e giammai presi in
considerazione da specifiche disposizioni antielusive: a fortiori, non potrebbe mai
ritenersi sussistente il dolo richiesto dalle norme incriminatrici laddove le
operazioni de quibus non risultino essere mai state contestate in precedenza
dall’Amministrazione finanziaria.
Sul piano dell’elemento soggettivo, inoltre, sarebbe necessario provare che
gli imputati fossero consapevoli «del fatto che l’imposta risparmiata attraverso
l’operazione posta in essere era comunque dovuta, nonostante la manovra
elusiva»; consapevolezza da escludere in radice, atteso che di quell’imposta si è
ritenuta la debenza «solo successivamente ai fatti, per effetto della
giurisprudenza delle Sezioni Unite Civili che hanno ritenuto disconoscibile l’abuso
del diritto sulla base della giurisprudenza comunitaria», mentre in precedenza
«vigeva l’interpretazione ministeriale che riteneva le operazioni effettuate
legittime anche ai limitati fini del recupero del tributo» (sul punto, la difesa
richiama ancora una volta la circolare n. 87/E dell’Agenzia delle Entrate, datata
27/12/2002). E, se la giurisprudenza di legittimità esprime riserve sulla

51

essendo stato adottato – in occasione delle operazioni indicate in rubrica – alcun

possibilità di un’applicazione retroattiva nei casi di mutamento di interpretazione
di norme tributarie, già ai soli fini dell’imposizione del tributo, è innegabile che
sia da escludere siffatta esegesi sfavorevole quando le norme in questione
vengano ad integrare il precetto di fattispecie incriminatrici in materia penale.
12.6 In relazione a quanto già dedotto con il dodicesimo motivo di ricorso,
concernente i capi G) ed H) della rubrica, nella memoria si rinnova la doglianza
in punto di mancata assunzione di prova decisiva (la perizia sopra ricordata); si
ribadisce quindi la «natura di arbitraggio fiscale del dividend washing, mirato a

della «presupposizione, in diritto, di un regime più favorevole per le plusvalenze
(guadagni) provenienti dalla vendita di titoli di partecipazione rispetto alla
tassazione dei dividendi contenuti nei titoli medesimi»; non sarebbe possibile
ritenere la rilevanza penale di siffatte operazioni, in ragione di una presunta
fittizietà degli utili distribuiti con i dividendi e di tutte le cessioni intermedie,
ancora una volta perché si tratta, al contrario, di operazioni effettive. Da un
lato, si segnala che solo la cessione reale dei titoli consente di ottenere il
vantaggio tributario; dall’altro, si evidenzia che i giudici di merito avrebbero
errato nell’individuare il presunto vantaggio delle operazioni medesime, che non
. consiste «nella detrazione dei crediti di imposta o nella deduzione delle
minusvalenze», bensì «dalla tassazione legale a tassi inferiori delle plusvalenze»
s (osservazione che si attaglia anche alle ipotesi di dividend washing senza credito
di imposta).
Da ultimo, si rappresenta l’insanabile contraddittorietà in cui sarebbe incorsa
la sentenza impugnata, che da un lato ha condannato gli imputati «a titolo di
concorso nei delitti commessi dai clienti (per aver predisposto le operazioni
tramite le società del gruppo ed i professionisti operanti per esse)», e dall’altro
ha affermato la «inesistenza della consulenza volta alla realizzazione di tali
operazioni».
12.7 Quali considerazioni conclusive, la difesa del A.A. censura la
sentenza della Corte di appello di Milano anche in relazione ai dettami della
giurisprudenza comunitaria, che già in sentenze del 2006 afferma la necessità di
un fondamento normativo per ritenere sanzionabile un presunto comportamento
abusivo: ergo, qualora si volessero nutrire dubbi sulla rigorosa limitazione della
rilevanza penale ai casi di “elusione codificata”, viene formalizzata la richiesta di
un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267, commi 1 e 3,
del Trattato dell’Unione Europea.
Nella memoria si rappresenta che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sì
ammesso possibili effetti retroattivi delle norme sostanziali tributarie mirate a
colmare lacune tali da consentire pratiche elusive, ma ha comunque «ritenuto

porre in essere operazioni reali con trattamento fiscale più favorevole», in virtù

illegittimo e fonte di responsabilità per lo Stato già solo la previsione di leggi
retroattive che riguardino la sede […] della procedura amministrativa tributaria»:
arresto che non potrebbe non trovare conferma, a fortiori, laddove si volesse
affermare la retroattività delle sanzioni, non foss’altro perché «le garanzie che
assistono il settore dei criminal charges sono incommensurabilmente superiori a
quelle della procedura amministrativa tributaria, ove la Corte europea ha già
riconosciuto sussisterebbe lesione dei diritti fondamentali». Violare in tali
termini il diritto comunitario comporterebbe pertanto una responsabilità dello

danni.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.
In ragione della notevolissima complessità ed eterogeneità dei motivi di
ricorso, questa Corte ne ritiene necessario un esame per gruppi omogenei, onde
evitare ripetizioni di argomenti od iterazioni di richiami che renderebbero
disagevole la stesura di una motivazione unitaria. Si analizzeranno pertanto, in
primo luogo, le questioni di carattere strettamente processuale, per poi passare
alla disamina del tema (centrale nell’impostazione di più ricorsi, anche se la
rilevanza delle relative questioni dovrà essere, nel caso di specie, nettamente
ridimensionata) della rilevanza penale di presunte condotte elusive
dell’imposizione tributaria; in seguito, si affronteranno le doglianze relative alla
ravvisabilità degli specifici reati contestati, a partire dall’ipotesi di associazione
per delinquere e dalla individuazione del ruolo di compartecipi nel delitto ex art.
416 cod. pen. in capo a taluni degli imputati, per poi passare alle presunte
violazioni delle norme incriminatrici previste dal d.lgs. n. 74 del 2000.
Verranno quindi trattati i peculiari motivi di gravame presentati nell’interesse
dell’E.E. e, da ultimo, quelli concernenti il trattamento sanzionatorio, le cause
di estinzione dei reati nel frattempo eventualmente maturate e le questioni
civilistiche.

2. Le questioni in rito
2.1 Come ricordato, la difesa del A.A. lamenta che sarebbero state
illegittimamente disattese dal Tribunale di Milano alcune istanze di rinvio per
impedimento dell’allora unico difensore dell’imputato, con riguardo alle udienze
del 12 febbraio e 3 marzo 2010. In entrambi i casi l’Avv. Steinberg aveva
rappresentato di essere impegnato presso altri uffici giudiziari nella difesa di

53

Stato, come pure dei suoi funzionari e giudici, per il risarcimento dei correlati

imputati detenuti, nonché di essere impossibilitato a designare sostituti
processuali, anche in ragione della particolare complessità del presente processo
e della delicatezza delle attività di istruttoria dibattimentale in programma per le
udienze medesime: i giudici di merito avevano invece obiettato la necessità di un
bilanciamento fra i diversi processi, riconoscendo quindi preminenza a quello qui
in esame sia per oggettiva complessità che per imminenza della prescrizione in
ordine a talune contestazioni di reato.
Le doglianze difensive non possono condividersi.

giurisprudenza di legittimità «la concomitanza dell’impegno in un altro
procedimento può essere riconosciuta quale legittimo impedimento a comparire
in udienza quando siano dimostrate, non solo la esistenza dell’impegno, ma
anche le ragioni che rendono indispensabile l’espletamento delle funzioni
difensive in tale procedimento. E tali ragioni, la cui prospettazione deve essere
tempestiva e motivata, devono a loro volta essere correlate alla particolare
natura della attività cui occorre presenziare ed alla mancanza o assenza di altro
codifensore ed alla impossibilità di avvalersi di un sostituto, a norma dell’art. 102
cod. proc. pen., sia nel procedimento al quale il difensore intende partecipare,
sia in quello del quale si chiede il rinvio per assoluta impossibilità a comparire.
Spetta poi al giudice effettuare una valutazione comparativa dei diversi impegni
professionali al fine di contemperare le esigenze della difesa e quelle della
giurisdizione, accertando se sia effettivamente prevalente quello privilegiato dal
difensore. La rilevanza dell’impegno difensivo, per assumere l’efficacia impeditiva
postulata dalla norma, deve quindi assumere i connotati, non soltanto della
assolutezza, ma anche della obiettività, nel senso che la priorità della esigenza
difensiva nel procedimento “pregiudicante” deve trarre alimento, non dalla
soggettiva °pini° del difensore, ma fondarsi su specifiche circostanze di fatto che
consentano di far reputare, per così dire, erga omnes, temporalmente “cedevole”
l’assistenza difensiva nel procedimento “pregiudicato”; sempre che non
sussistano, ovviamente, contrarie ragioni di urgenza, che il giudice deve valutare
con ponderata delibazione, nel necessario bilanciamento fra le contrapposte
esigenze» (Cass., Sez. U, n. 29529 del 25/06/2009, De Marino).
In base ai principi appena enunciati, deve ritenersi congruamente motivata
la decisione con cui il Tribunale di Milano rigettò la prima istanza difensiva
(stando agli atti, con ordinanza del 03/02/2010, in vista di un’udienza da tenersi
nove giorni più tardi): nell’occasione, stando allo stesso tenore dell’odierno
ricorso, la priorità di trattare il processo che si celebrava a Piacenza derivava
dalla – certamente non trascurabile, ma non tale da determinare ineludibile
prevalenza – circostanza dello stato di restrizione di quell’imputato. Tuttavia

54

Su un piano generale, deve infatti ribadirsi che secondo la consolidata

non sembra che, al di là di quello

status, fosse stato obiettivamente e

giustificatamente segnalato per quali motivi il legale non si trovasse in
condizione di nominare un sostituto, per quel giudizio, impossibilità di
designazione che era stata rappresentata invece quanto al presente, per la
necessità di proseguire una attività istruttoria complessa ed articolata: proprio in
virtù delle peculiari connotazioni del processo il Tribunale aveva del resto
predisposto un minuzioso calendario anche nella successione dei testimoni da
citare ed escutere, il rispetto del quale – soprattutto in ragione dell’epoca dei

dedotte, come ritenuto nell’ordinanza di rigetto che dunque si sottrae al controllo
di legittimità.
A tacer d’altro, quanto alla seconda istanza è ineccepibile l’argomento dei
giudici di merito secondo cui l’Avv. Steinberg, alla data del 17/02/2010 (quando
era stato disposto il rinvio al 03/03/2010 del processo in corso a Firenze) già
sapeva che lo stesso 3 marzo era in programma il processo milanese, ma non si
peritò di rappresentare l’impegno già fissato, segnalando alla Corte toscana la
necessità o quanto meno l’opportunità di trovare una data alternativa; vero è
che, come ipotizza il ricorrente, la Corte di assise di appello di Firenze avrebbe
forse potuto disattendere quell’indicazione, motivando sulla maggiore urgenza di
procedere a carico di detenuti: ma si tratta – appunto – di mera ipotesi, a fronte
dell’accertata inosservanza da parte della difesa di un preciso onere.
2.2 Manifestamente infondato è il secondo dei motivi di ricorso presentati
nell’interesse del A.A., a proposito dell’eccezione di nullità dell’udienza del
15 aprile 2011, quando il Tribunale di Milano disattese la richiesta di rinvio del
processo per adesione dei difensori all’astensione proclamata (anche) per quella
data dagli organismi rappresentativi dell’Avvocatura. Al di là del rilievo che i
termini di prescrizione sarebbero stati comunque sospesi, e senza neppure il
limite dei sessanta giorni da applicare nelle altre ipotesi di differimento disposto
su istanza difensiva ai sensi dell’art. 159, comma primo, n. 3), cod. pen., resta il
fatto che il codice di autoregolamentazione all’epoca vigente non consentiva
l’astensione, e correttamente i giudici di primo grado ne presero atto.
La Corte di appello, nel rigettare il motivo di gravame, risulta aver
richiamato una sentenza di legittimità secondo cui «l’adesione del difensore
dell’imputato ad astensione collettiva dalle udienze non opera in riferimento a
reati il cui termine di prescrizione maturi entro 90 giorni, come individuati dal
codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura» (Cass., Sez. III, n. 7620 del
28/01/2010, Settecase, Rv 246197): richiamo, come rilevato dal ricorrente, non
del tutto pertinente, visto che si trattava di un principio dettato per il giudizio di
Cassazione. La difesa del A.A. omette però di precisare che la norma

55

commessi reati – ben poteva giustificare il bilanciamento fra le opposte esigenze

prevista dall’art. 4 del suddetto codice – adottato il 04/04/2007 e ritenuto
idoneo dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero
nei servizi essenziali con delibera del 13/12/2007, avente valore di normativa
secondaria – escludeva la possibilità di astensione in materia penale quanto «ai
procedimenti e processi concernenti reati la cui prescrizione maturi durante il
periodo di astensione, ovvero, se pendenti nella fase delle indagini preliminari,
entro 360 giorni, se pendenti in grado di merito, entro 180 giorni, se pendenti
nel giudizio di legittimità, entro 90 giorni».

consentita era dunque addirittura doppio rispetto ai 90 giorni indicati dalla Corte
territoriale.
2.3 In punto di presunta indeterminatezza dei capi di imputazione, non sono
fondate le doglianze dei difensori del A.A. e del B.B., afferenti la
presunta incertezza della veste che gli imputati avrebbero ricoperto in ordine alle
operazioni contestate: sostenere che l’uno o l’altro sarebbe stato “responsabile in
seno al gruppo Mythos della organizzazione e della gestione finanziaria,
economica e fiscale delle società”, oppure un “amministratore di fatto delle
società del gruppo Mythos” costituisce infatti un assunto chiaro e puntuale, che è
senz’altro possibile comprendere adeguatamente, apprestando a riguardo la
linea difensiva che si ritenga necessaria. Linea difensiva che, in prima battuta,
ben può muovere dalla negazione che tali qualità spettassero agli imputati, come
non a caso i difensori di entrambi hanno continuato a sostenere ancora
nell’impostazione dei rispettivi ricorsi: ma si tratta già, a quel punto, di una
difesa nel merito degli addebiti, che dimostra ipso facto come se ne siano ben
compresi il senso ed i limiti.
Anche le considerazioni svolte nell’interesse del A.A., circa la natura di
reati propri delle fattispecie penali previste dagli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del
2000, afferiscono al merito delle contestazioni, e nulla hanno a che vedere con la
lamentata vaghezza nella descrizione del ruolo apicale in seno al gruppo Mythos
che i capi d’imputazione attribuiscono al ricorrente, ruolo che egli stesso – come
risulta dall’esame degli atti, dandosene contezza nel corpo della motivazione
della sentenza impugnata – sembra avere in certa misura rivendicato.
2.4 La difesa del B.B. solleva una prima questione di inutilizzabilità di
atti processuali quanto al contenuto di comunicazioni e-mail acquisite dal server
del gruppo Mythos, dovendosi intendere il frutto di accertamenti tecnici non
ripetibili, ai quali il B.B. stesso non avrebbe avuto modo di partecipare. Il
motivo di ricorso è formulato innanzi tutto in termini generici, dal momento che
non si spiega perché quegli accertamenti avrebbero dovuto richiedere gli avvisi
previsti dall’art. 360 del codice di rito; a ben guardare, anzi, una spiegazione

56

Il periodo cui fare riferimento per valutare se l’astensione potesse dirsi

viene fornita, ma appare ictu °culi inconsistente e non condivisibile, atteso che
l’irripetibilità dell’accertamento deriverebbe dalla circostanza che «il supporto
informatico avrebbe potuto essere alterato o lesionato in sede di estrazione
files», ed inoltre perché l’attività fu lunga e laboriosa, tanto da aver richiesto come confermato dai testi escussi in giudizio – circa sei mesi. E’ di palese
evidenza che la mera ipotesi di un danno al materiale oggetto di accertamento,
od i lunghi tempi che questo richieda, non implichino affatto l’oggettiva
impossibilità di ripetizione dell’indagine.

contraddittorio sarebbe ravvisabile nel caso di specie, atteso che è lo stesso
ricorrente a segnalare che – al momento di quella attività formale – non era
neppure persona sottoposta a indagini, ergo non avrebbe avuto comunque diritto
a ricevere l’ipotizzato avviso (a meno che non si ritenesse che gli inquirenti
avessero già raccolto elementi a suo carico, tali da rendere doverosa l’iscrizione
del nominativo del B.B. nel R.G.N.R.: profilo che però è la stessa difesa a
non evidenziare).
Non sembra peraltro che vi sia stato alcun travisamento delle risultanze
processuali da parte dei giudici di merito, nel dare atto che le copie di back up
del server furono acquisite (al di là di provvedimenti di sequestro) perché messe
a disposizione dagli stessi imputati: è infatti il A.A. a fondare – anche – su
tale circostanza la rinnovata invocazione delle attenuanti generiche e di un
trattamento sanzionatorio di minor rigore.
Altrettanto generica è l’analoga censura sviluppata nel primo motivo di
ricorso del D.D., laddove si fa riferimento ad atti che non sarebbero stati
versati nel fascicolo (i 61 cd-rom consegnati agli inquirenti nel corso delle
indagini) o comunque non allegati alla richiesta di rinvio a giudizio (le relazioni di
consulenza tecnica curate sui dati informatici ivi contenuti). Alla osservazione
della Corte territoriale, secondo cui le copie di back up furono comunque messe
a disposizione delle difese, su supporti visionabili mediante programmi di
comune utilizzo, il ricorrente obietta che un conto sono i supporti, altra cosa le
elaborazioni che i consulenti trassero dal materiale che contenevano: ma allora è
già evidente che, non contestando la circostanza della facile consultabilità dei
dati informatici, non vi fu alcuna omessa disco very.

Del tutto irrilevante è poi la

circostanza che su quei dati la polizia giudiziaria si avvalse di contributi tecnici
(anche da parte di soggetti che vennero poi legittimamente escussi in
dibattimento), perché consistiti in analisi riversate nelle successive informative,
senza dubbio messe a disposizione dei difensori anche ai fini della
predisposizione di elaborati di parte.

57

In secondo luogo, non è comunque dato comprendere quale lesione del

2.5 In punto di presunta inutilizzabilità di atti di indagine che sarebbero stati
compiuti in difetto di rituali proroghe dei termini ex artt. 405 e segg. cod. proc.
pen., è innanzi tutto da rilevare l’infondatezza della doglianza dei difensori del
A.A. a proposito della protrazione delle indagini «ben oltre il disposto rinvio a
giudizio degli attuali imputati»: gli artt. 419, comma 3, e 430 del codice di rito
consentono infatti al P.M. il compimento di indagini anche dopo l’esercizio
dell’azione penale e – appunto – dopo l’eventuale decreto ex art. 429 emesso
dal G.u.p., né risultano formulate censure su ipotetiche violazioni di un

Inoltre, come segnalato dalla Corte di appello, è pacifico che l’iscrizione nel
R.G.N.R. dell’ipotesi criminosa ex art. 416 cod. pen. risalga al 15/06/2007, a
seguito di indagini compiute nell’ambito dell’originario procedimento a carico del
B.B. e di quelli conseguenti ai successivi stralci (del tutto fisiologici, stante
l’eterogeneità delle contestazioni che derivavano dai risultati delle investigazioni
rispetto ai fatti che avevano portato al primo arresto in flagranza del suddetto).
Nella sentenza impugnata si legge poi che deve ritenersi «assolutamente
legittima l’escussione di testimoni, anche se eventualmente individuati dopo la
scadenza del termine delle indagini. L’audizione del teste è indipendente
dall’eventuale acquisizione del suo nominativo dopo la scadenza del termine»:
l’osservazione è del tutto condivisibile, non verificandosi con l’audizione in
dibattimento alcuna “emenda” di vizi processuali, come lamenta invece la difesa.
In ipotesi, afferendo l’inutilizzabilità all’atto e non già al correlato mezzo di
prova, laddove un verbale ex art. 351 cod. proc. pen. risulti formato in data
successiva alla scadenza del termine di durata delle indagini preliminari,
originario o prorogato, non può derivarne la radicale preclusione a che quella
persona informata sui fatti venga escussa come testimone, bensì l’impossibilità
di ricorrere al contenuto del verbale precedente per eventuali contestazioni,
ovvero di farne oggetto di produzione e successiva lettura in caso di accertata
irreperibilità del soggetto.
2.6 La difesa del B.B. reputa vi sia stata altresì violazione di legge
processuale quanto alla dichiarata utilizzabilità della testimonianza resa da
Salvatore Longo, che non aveva riguardato gli episodi qui contestati bensì la
presunta condotta di corruzione per cui l’imputato aveva già riportato condanna
definitiva: si tratta di una doglianza che – risolvendosi nella censura secondo cui
il B.B. sarebbe stato in tal modo sottoposto ad un secondo giudizio appare manifestamente infondata.
Quella deposizione poté essere del tutto irrilevante, mirando in ipotesi il P.M.
a chiarire che presso il gruppo Mythos fosse piuttosto radicata la consuetudine di
ricorrere alla corruzione di pubblici funzionari, e dunque a fornire una chiave di

58

tempestivo obbligo di deposito.

lettura dell’episodio ancora sub judice riguardante l’E.E.: ma, al contrario,
poté essere significativa e del tutto pertinente alle – diverse – contestazioni
mosse al B.B. nell’ambito del processo ancora da definire, ad esempio
mirando l’accusa ad illustrare se la vicenda di cui al fatto già giudicato
consentisse di raggiungere conclusioni dirimenti circa il ruolo dell’imputato
nell’ambito della presunta associazione per delinquere.
E se anche la Corte territoriale non risulta avere trattato il profilo di
gravame, va ricordato che è assolutamente pacifica, fin da epoca remota, la

l’obbligo di esaminare un motivo di appello manifestamente infondato» (v.,

ex

plurimis, Cass., Sez. III, n. 8851 del 25/05/1982, Garraffo, Rv 155462).
2.7 II richiamo alla sentenza Garraffo vale anche per il quarto motivo di
ricorso presentato dall’Avv. Paone, ancora nell’interesse del B.B..
Sono gli stessi termini di esposizione della censura, riguardante la riduzione
(secondo il ricorrente, immotivata) della lista testimoniale della difesa, a
chiarirne infatti la manifesta infondatezza. Rileva il difensore dell’imputato che
il Tribunale di Milano dispose il “taglio” dei testimoni sovrabbondanti come
segue:
– ammettendo uno solo dei testi del gruppo 4;
– escludendo i testi del gruppo 5;
– ammettendo un solo teste (individuato) nel gruppo 6;
– ammettendo uno solo dei testi del gruppo 7;
– ammettendo tre dei testi dell’ultimo gruppo.
In sostanza, dunque, i giudici di primo grado lasciarono spazio a ciascuno dei
temi che la difesa intendeva provare, sui quali erano state formulate le
circostanze comuni ai singoli gruppi: apparentemente, non vi fu risalto
solamente a quanto avrebbero potuto dichiarare i testimoni del gruppo 5, che
però – come risulta dalla articolazione delle suddette circostanze, riportata dal
ricorrente a pag. 27 – sarebbero stati sentiti “sulla organizzazione interna del
gruppo Mythos, sulle attività che svolgeva il gruppo Mythos, sul ruolo che
ricopriva e svolgeva il B.B. all’interno del gruppo Mythos”, vale a dire le
stesse circostanze capitolate per i testi del gruppo 4, con qualcosa in meno
(“sulle attività del gruppo Mythos nonché sull’attività svolta dal B.B.
all’interno del gruppo Mythos, ed in particolare sulla sua estraneità all’area
amministrazione e finanza del gruppo Mythos ed a tutta l’attività di
predisposizione ed analisi dei bilanci”).
2.8 I motivi di ricorso svolti nell’interesse del A.A., del B.B. e del
C.C., afferenti la presunta violazione dell’art. 521 del codice di rito in ordine al
rapporto fra le contestazioni di cui agli artt. 640 cod. pen. e 10-quater d.lgs. n.

59

giurisprudenza di legittimità secondo cui «il giudice di secondo grado non ha

74 del 2000, debbono intendersi assorbiti dalle ragioni sostanziali che, come
meglio si analizzerà tra breve, impongono l’annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata, in parte qua.

3. Il tema della distinzione fra condotte di evasione ed elusione tributaria
3.1 Come già anticipato, la gran parte dei ricorsi in esame si sofferma sul
problema di fondo della possibilità o meno di ravvisare – nelle operazioni
economiche contestate agli imputati, per la pianificazione e realizzazione delle

senso rilevante secondo il diritto penale tributario, e più in particolare nei termini
di cui alle figure criminose oggetto dei vari capi di imputazione.
Nelle operazioni de quibus, stando all’impostazione suggerita dai ricorrenti,
non vi sarebbe stata alcuna simulazione o finzione, giacché le relative transazioni
furono reali e produttive di effetti giuridici: anzi, avrebbero avuto un senso (di
risparmio fiscale, anche ammettendosi che quello fosse l’unico fine sotteso ad
operazioni prive di giustificazioni economiche ulteriori) proprio a condizione che
quegli effetti giuridici si realizzassero. Saremmo perciò dinanzi a condotte
meramente elusive dell’imposizione tributaria, qualificabili secondo una
terminologia oramai comune come forme di “abuso del diritto”, ma non volte
all’evasione: e se è forse possibile ipotizzare conseguenze di rilievo penale (in
ogni caso, con l’applicazione di norme incriminatrici diverse da quelle qui in
rubrica) per i casi di “elusione codificata” ex art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973,
ciò sarebbe senz’altro precluso nelle fattispecie concrete, dove l’intervento
sanzionatorio dello Stato dovrebbe arrestarsi nel momento del recupero delle
imposte indebitamente risparmiate.
In linea di principio, pertanto, la tesi difensiva è che ci si troverebbe al
cospetto di “costruzioni ingegnose”, elaborate proprio per sfruttare “le maglie
lasciate aperte dalla formulazione della legge fiscale” e dunque per ottenere un
risparmio tributario, al più realizzate con soggetti “compiacenti o collegati”: ma
nulla di fraudolento, perché nulla di fittizio venne rappresentato rispetto alla
effettività dei negozi giuridici sottesi alle operazioni medesime, che in tanto
potevano avere un senso – al limite, solo strumentale ad un vantaggio fiscale in quanto corrispondenti alla realtà.
A riguardo, è il caso di ribadire anche in questa sede, sia pure in via
esemplificativa, il modello o schema tipico di una operazione di

dividend

washing, che potrebbe costituire il parametro su cui ancorare le necessarie
valutazioni in diritto che questa Corte è chiamata a compiere sul delicato
problema prospettato: fermo restando che, a dispetto della centralità di quel tipo
di “costruzione ingegnosa” nell’economia stessa dei ricorsi in esame, al fine di
4, di.—

60

quali sarebbe stato costituito un sodalizio criminoso – condotte fraudolente in

meglio illustrare le tesi difensive, nella fattispecie concreta non vengono in rilievo
soltanto operazioni siffatte, ma anche – ed ancor prima, scorrendo la rubrica ben altre.
Immaginando dunque che la società A sia titolare del 50% delle quote sociali
della società B, acquistate per un valore di 1.000 o conseguenti ad un primo
conferimento per quell’importo, potrebbe accadere che B produca utili pari a
100, e che decida di distribuirli per intero ai soci: ad A ne spetterebbero pertanto
in misura di 50. A quel punto, la società A stabilisce invece di cedere – ad una

somma tra l’importo dell’acquisto iniziale, o del primo conferimento, e il valore
dei dividendi): A realizza così una plusvalenza di 50, mentre C incassa i suddetti
dividendi, di pari importo. In seguito, lo schema prevede che C retroceda ad A le
stesse partecipazioni, al netto del dividendo incassato: ergo, ancora una volta al
prezzo di 1.000, a quel punto realizzandosi – per C – una minusvalenza di 50,
visto che il prezzo di (ri)vendita è inferiore a quello di acquisto.
Sul piano economico il meccanismo si spiega perché, secondo la legislazione
tributaria dell’epoca dei fatti qui contestati, fermo restando il problema della
eventuale tassazione sul dividendo, la plusvalenza di A era esente da
imposizione, mentre la minusvalenza di C era invece idonea a ridurne
l’imponibile, così annullando il parziale effetto negativo della tassa sull’utile, se
applicata.
Ha dunque ragione la difesa del A.A. nel segnalare che il vantaggio
fiscale sotteso a quelle transazioni incrociate non derivava dalla detrazione di
crediti di imposta o dalla deduzione di minusvalenze, bensì in primis dal regime
tributario favorevole per le plusvalenze. E, prima ancora di affrontare le spinose
implicazioni del dibattito in tema di elusione, è pacifico che in un’operazione del
genere – se concretamente realizzata, sulla base di presupposti reali – non vi
sia alcunché di fraudolento, ma solo di elusivo: è però altrettanto innegabile che
il quadro debba necessariamente mutare laddove risulti provato che quei
presupposti, dati per veridici, non lo siano affatto, a partire dalla produzione
degli utili che dovrebbero giustificare l’esistenza di dividendi da distribuire.
3.2 Ergo, ammettendo l’effettività delle operazioni, con utili concretamente
prodotti e che gli interessati decidano di allocare laddove risulti loro più
conveniente sul piano fiscale, ci si troverà al cospetto di atti giuridici aggredibili
– o meglio, non opponibili all’Amministrazione finanziaria – in sede tributaria
(avendo le Sezioni Unite Civili di questa Corte, con la sentenza n. 30055 del
23/12/2008, affermato che «i principi costituzionali della capacità contributiva e
della progressività dell’imposizione […] ostano al conseguimento di vantaggi
fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici l’adozione ovvero l’utilizzo dei quali

61

terza società, C – la propria partecipazione in B, al prezzo di 1.050 (dato dalla

sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al
risparmio d’imposta, anche laddove non ricorra alcuna violazione o contrasto
puntuale ad alcuna specifica disposizione»), ma non in quella penale.
Uno spazio di intervento per il giudice penale, secondo i più recenti approdi
della giurisprudenza di legittimità abbondantemente richiamati negli odierni
scritti difensivi, vi sarebbe solamente in presenza di una specifica disposizione
antielusiva, la più significativa delle quali è contemplata dall’art. 37-bis del d.P.R.
n. 600 del 1973: per inciso, restando all’esemplificazione in esame, se ne

372, convertito in legge 05/11/1992, n. 429, e da ultimo con l’art. 5-quinquies
del d.l. 30/09/2005 n. 203, introdotto dalla legge di conversione 02/12/2005, n.
230 (norma comunque posteriore a buona parte delle condotte qui contestate).
Non è tuttavia questa, ad avviso della Corte, la corretta chiave di lettura delle
fattispecie concrete qui contestate: non c’è bisogno di soffermarsi funditus sulla
problematica dell’abuso del diritto, né di sollecitare un intervento chiarificatore
delle Sezioni Unite sulla rilevanza della elusione fiscale in ambito penale, perché
le operazioni indicate in rubrica e poste in essere nell’ambito del gruppo Mythos
nulla hanno a che vedere con tali tematiche, a dispetto delle concordi
impostazioni dei ricorrenti.
3.3 Per potersi parlare di abuso del diritto, o di elusione, occorre che l’atto
cui si abbia riguardo costituisca esercizio delle facoltà connesse ad una
situazione giuridica della quale l’autore sia titolare, pur volendo egli destinare
l’uso di quei poteri a scopi diversi da quelli per cui gli siano stati attribuiti: uso
che, come ricordato, in materia tributaria viene a consistere nel compimento di
operazioni conformi ai modelli previsti dalla legge, ma strumentali solo ad
ottenere un risparmio fiscale.
Come detto, in tale ambito la rilevanza penale della condotta appare
difficilmente configurabile, per la necessità del doveroso rispetto del principio
costituzionale di stretta legalità e del suo più immediato corollario, che impone la
tassatività delle fattispecie incriminatrici: è evidente infatti che non esiste una
norma da cui ricavare una immediata equiparazione dell’elusione all’evasione,
categorie concettuali che vengono ancora distinte in interventi legislativi recenti,
seppure ispirati da una logica di comune intervento nei confronti di entrambe (si
pensi all’art. 35 del d.l. 04/07/2006 n. 223, dedicato a “misure di contrasto
dell’evasione e dell’elusione fiscale”, ovvero all’art. 24 del d.l. 06/07/2011 n. 98,
che al comma 29 detta regole peculiari “al fine di contrastare la diffusione del
gioco irregolare ed illegale, l’evasione, l’elusione fiscale e il riciclaggio nel settore
del gioco”).

62

rinvengono anche in tema di dividend washing già in base al d.l. 09/09/1992 n.

Estendere pertanto all’elusione le sanzioni penali espressamente previste per
l’evasione tributaria è tutt’altro che automatico, soprattutto alla luce delle
modifiche introdotte con il d.lgs. n. 74 del 2000 alla disciplina del diritto penale
tributario, espressive di una opzione in chiave offensiva ben più avanzata
rispetto a quella desumibile dalla formulazione delle ipotesi di reato già
contemplate – talora in termini di illecito contravvenzionale – dalla legge n. 516
del 1982. Il principio di legalità implica, del resto, che il giudice penale non
possa limitarsi a prendere atto dell’esistenza di una specifica disposizione

sanzionatorie che vadano oltre il mero divieto per il contribuente di perseguire
vantaggi fiscali indebiti: ciò perché all’abuso del diritto la disposizione antielusiva
consente di contrapporre il disconoscimento delle conseguenze dei negozi
adottati (la ricordata inopponibilità degli stessi all’Amministrazione finanziaria),
non già sanzioni diverse ed ulteriori.
In altre parole, per aversi sanzioni penali occorrono previsioni esplicite,
indicative della volontà del legislatore di apprestare – dinanzi alla ipotizzata
violazione di qualsivoglia norma, tributaria o meno – la tutela di maggior rigore:
non a caso, è lo stesso d.lgs. n. 74 del 2000, all’art. 19, a statuire che “quando
uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del Titolo II e da una
disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione
speciale” (e sarebbe allora ragionevole riconoscere carattere di specialità ad una
disposizione antielusiva ad hoc, che escluda o quanto meno non contempli la
comminatoria di sanzioni penali, rispetto alle norme di cui ai precedenti artt. 2, 4
od 8).
3.4 Tanto premesso in linea di principio, è necessario considerare che nella
vicenda in esame – rimanendo ancora al caso del dividend washing – le
sentenze di merito hanno ritenuto raggiunta la prova che lo schema delle
operazioni fosse sostanzialmente il seguente, ricavabile da una descrizione
esemplificativa curata nella pronuncia di primo grado a pag. 29: «una società del
gruppo Mythos (nella specie, Principium s.r.I.) distribuisce dividendi a una delle
società semplici (d’ora in poi, SS) costituite dal gruppo; SS viene acquistata,
prima della distribuzione degli utili, da un cliente (d’ora in poi, C) ad un prezzo
inferiore ai dividendi da distribuire; C corrisponde a Mythos s.p.a. un compenso
per consulenza pari al delta prezzo (dividendi – prezzo d’acquisto della SS);
Mythos finanzia con finanziamento infruttifero pari all’importo della consulenza il
venditore di SS, di regola altra società semplice del gruppo; il venditore a sua
volta gira a titolo di finanziamento infruttifero l’importo pari ai dividendi (prezzo
+ delta prezzo) a Principium». Così delineata, muovendo dal presupposto – da
intendersi parimenti provato in fatto, sulla base di elementi che certamente non

63

antielusiva, ma debba piuttosto ricavare dall’ordinamento previsioni

possono essere suscettibili di nuova verifica in sede di legittimità – che di
dividendi da distribuire non ve ne fossero ab initio, e che pertanto l’intero
marchingegno servisse per alleggerire il carico fiscale del cliente di Mythos sulla
base di presupposti fittizi, questa non è un’operazione semplicemente elusiva.
Come ineccepibilmente affermato dal Tribunale di Milano alla stessa pag. 29,
«lo scopo eventualmente elusivo di operazioni di dividend washing non vale di
per sé a connotarle come penalmente rilevanti, quando si concretino in negozi
giuridici effettivi dal cui collegamento funzionale derivi il vantaggio fiscale […]; al

effettive in quanto: hanno quale presupposto la distribuzione di utili fittizi;
comportano l’interposizione di società esistenti solo sulla carta, prive cioè di un
reale scopo da conseguire; comportano finanziamenti simulati per assenza di
esborsi reali e non finalizzati al sostegno economico di attività societaria
effettivamente svolta. La complessiva fittizietà dell’operazione è inevitabilmente
destinata a ripercuotersi su ciascuno dei passaggi, e ove di rilevanza sugli
strumenti utilizzati, quali le fatture».
Al di là di considerazioni di valore suggestivo, circa la significatività o meno
sul piano giuridico di negozi formalizzati con società aventi denominazione
seriale, non altrimenti operative o mancanti di qualunque risorsa personale e
materiale, l’analisi può fermarsi già al primo dato: gli utili apparentemente
prodotti e poi distribuiti, in modo da creare la “costruzione ingegnosa” appena
descritta giocando con le conseguenti plusvalenze e minusvalenze, non
esistevano. Nelle pagine seguenti a quella ora menzionata, il Tribunale si
sofferma diffusamente sulle risultanze documentali che avvalorano detta
conclusione, con argomenti fatti propri dalla sentenza oggi impugnata (mediante
un legittimo rinvio per relationem alla motivazione della pronuncia dei giudici di
prime cure, nonché lo sviluppo di argomenti ulteriori) e che in concreto non
vengono contestati dai ricorrenti, fermi piuttosto nel ribadire la natura elusiva
delle condotte.
Non si comprende, allora, quale spazio concreto possano avere l’art. 15 del
d.lgs. n. 74 del 2000 o la circolare n. 87/E del 27/12/2002 emessa dall’Agenzia
delle Entrate: nella fattispecie concreta non si è al cospetto di norme tributarie di
incerta interpretazione, né di operazioni economiche fino a quel momento
assentite o quanto meno non espressamente vietate, visto che la domanda da
porsi non riguarda – si ribadisce, ed ancora per restare all’esempio illustrato – la
legittimità o meno del dividend washing, bensì se l’ordinamento consenta la
possibilità di un dividend washing in cui gli utili da distribuire siano inventati di
sana pianta.

64

contrario, le operazioni oggetto di contestazione non possono considerarsi

Escluso peraltro che sia compito di questa Corte dedicarsi ad una puntuale
rivalutazione delle emergenze istruttorie evidenziate dai giudici di merito, non
può sfuggire il tenore assolutamente pacifico di comunicazioni e-mail dove si
ricorreva ad aggettivi non meritevoli di commento (come “farlocca”, riferito ad
una fattura da emettere) o delle stesse prove orali, di cui è ancora il Tribunale di
Milano a dare contezza da pag. 47. Anche voci interne alla Mythos, tra cui quella
dello stesso B.B., parlano di utili «creati attraverso questi giri, perché erano
inesistenti»; altri testi riferiscono che «la Mythos non disponeva delle somme

l’attribuzione di crediti d’imposta», ovvero escludono che la Principium avesse
mai avuto «disponibilità finanziarie per importi assimilabili a quelli dei dividendi
distribuiti nelle operazioni di

dividend washing»;

per giungere poi alla

testimonianza di un matematico – v. pag. 48 della sentenza di primo grado – il
cui compito presso la Mythos era quello di predisporre fogli di calcolo basati sul
programma Excel e da utilizzare nelle operazioni anzidette (con un meccanismo
che prevedeva l’inserimento di dati di partenza «elaborati su input dell’operatore
in funzione del risultato da raggiungere: nello specifico, nel foglio di calcolo
doveva essere dapprima inserito l’utile della società cliente e quindi, sulla base di
questo dato, venivano estrapolati informaticamente tutti gli altri valori, ed in
particolare i dividendi necessari per il conseguimento del risultato fiscale»;
meccanismo ribadito da altri testimoni ancora, secondo cui «nel programma
informatico veniva immesso dall’operatore-professionista il dato relativo all’utile
del cliente ed in automatico si determinava la quantificazione del dividendo
necessaria a realizzare l’obiettivo fiscale»).
Su tali aspetti, non a caso del tutto trascurati nel corpo dei ricorsi, deve
ritenersi pacificamente ancorata la ricostruzione in fatto che le sentenze di
merito hanno posto alla base delle argomentazioni sviluppate: le doglianze
difensive si limitano a prospettare in termini apodittici, al di là degli ulteriori – e,
per le ragioni già evidenziate, non pertinenti – rilievi, che la prova della non
rispondenza al vero degli utili oggetto delle successive distribuzioni non sarebbe
stata raggiunta, o addirittura che la circostanza non avrebbe significato. Ma non
si vede come si possa contestare la natura fittizia di una operazione nel
momento in cui questa venga realizzata muovendo dal quantum di risparmio
fiscale perseguito, ed impostando su quel dato i presunti utili da distribuire, che
invece ne avrebbero dovuto costituire la premessa: a nulla rilevando la presa
d’atto, ovvia proprio in ragione della necessità di documentare un elemento falso
per giustificare i passaggi successivi, che quegli utili furono sempre esposti nelle
dichiarazioni.

65

movimentate, dal momento che si trattava di utili fantasma necessari solo per

Nel ritenere che le operazioni contestate configurino ipotesi di reato secondo
il diritto penale tributario, in definitiva, non è assolutamente ravvisabile alcuna
forzatura del dato normativo, o men che meno una violazione di principi
sovranazionali o di giurisprudenza comunitaria: né vi è alcuno spazio di
ammissibilità, perché manifestamente irrilevante alla luce delle connotazioni
della fattispecie concreta dove non si rinvengono affatto ipotesi di mera elusione,
per una richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del Trattato U.E.
Neppure coglie nel segno la censura, mossa da più ricorrenti, secondo cui le

avrebbero comunque realizzato gli effetti (parimenti, giuridici) cui miravano.
Innegabilmente, non ci si trova dinanzi a contratti simulati in senso civilistico,
visto che gli acquisti e le retrocessioni di quote delle varie società erano voluti,
anche sul piano della minima dimensione cronologica del trasferimento dei
relativi diritti: ma un conto è che una proprietà passi davvero di mano, sia pure
a prezzo vile o per una frazione di secondo (per riprendere gli stessi esempi
esposti nei ricorsi), ben altra cosa è che la traslazione riguardi anche un
contenuto economico che il diritto oggetto di cessione non può avere. Non a
caso, l’art. 1 del d.lgs. n. 74 del 2000 – norma definitoria che chiarisce il
contenuto di numerose nozioni pertinenti alla disciplina del diritto penale
tributario – prevede già al primo punto che per “operazioni inesistenti” si
debbono intendere quelle non realmente effettuate in tutto o in parte o che
indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a
quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione medesima a soggetti diversi da
quelli effettivi: si parla dunque di operazione in senso economico e non giuridico,
come già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte sia pure a fini
parzialmente differenti.
Con la sentenza n. 13975 del 06/03/2008 (ric. P.M. in proc. Carcano), la
Sezione III – accogliendo il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso una
sentenza ex art. 425 cod. proc. pen., in un caso nel quale alcune operazioni di
finanziamento erano state documentalmente fatte apparire come acconti su
forniture – ha infatti avuto modo di evidenziare che il ricordato art. 1 del d.lgs.
n. 74 non ha inteso riferirsi soltanto alle operazioni non realmente effettuate,
con esclusione quindi di quelle aventi qualificazione giuridica diversa, e cioè solo
“giuridicamente inesistenti”: si deve invece parlare di operazione inesistente
anche quando un’operazione giuridica vi sia, ma debba intendersi non
coincidente, sul piano economico, da «quella documentata, che è la sola presa in
considerazione, agli effetti penali, dal d.lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8». Ancor
prima, la stessa Terza Sezione aveva segnalato che «in tema di reati finanziari, il
delitto previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000 e dall’art. 4, comma primo, lett.

p
i;
O

66

4
-i I

operazioni suddette, consistendo in negozi giuridici regolarmente stipulati,

d) legge n. 516 del 1982, intende punire ogni tipo di divergenza tra la realtà
commerciale e l’espressione documentale di essa e non soltanto la mancanza
assoluta dell’operazione» (sentenza n. 5804 del 21/01/2004, Cartocci, Rv
227842).
Contrariamente a quanto argomentato dalla difesa del A.A., anche ciò
che giuridicamente è effettivo può essere senz’altro fraudolento, se sul piano
economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano
convenuto: ciò per la semplice ed intuitiva ragione che, nell’ipotesi di un accordo

inesistenti, la cosa non cambia imbastendoci sopra un negozio giuridico
formalmente ineccepibile. Se A vuole far figurare costi mai sostenuti,
inventandosi che B si è occupato a titolo oneroso della pulizia dei locali della sua
sede, ben potrebbe nascondere la frode conservando tra la propria
documentazione fiscale sia le fatture che un falso contratto stipulato con
l’impresa di pulizie: quel che conta non è che esista la conseguenza giuridica del
contratto, vale a dire il diritto di A ad ottenere quella prestazione da B, ma il
fatto materiale – rilevando appunto l’operazione economica, non l’eventuale
negozio a quella sotteso – che la prestazione vi sia stata davvero).
3.5 Con riguardo ad alcuni profili peculiari di doglianza avanzati nei vari
ricorsi, deve poi segnalarsi che:
– è infondata la censura relativa mossa alla sentenza impugnata ex art. 606,
comma primo, lett. d), cod. proc. pen., quanto ad un accertamento peritale che
sarebbe stato in ipotesi indispensabile per ricostruire alcuni dei valori oggetto
delle operazioni societarie contestate, non rientrando la perizia, per sua stessa
natura, nella categoria della prova decisiva (v., da ultimo, Cass., Sez. VI, n.
43526 del 03/10/2012, Ritorto);
– non vi è alcuna contraddittorietà tra la condanna degli imputati, quali
concorrenti nei reati fiscali commessi dai clienti del gruppo Mythos, per avere
essi predisposto le presunte operazioni fraudolente, e l’affermata esclusione delle
attività di consulenza documentate in talune di quelle operazioni. E’ infatti di
immediata evidenza che un conto è una consulenza in senso tecnicoprofessionale, attività che ben può e deve essere remunerata, tutt’altro è il
concorso in una frode, magari realizzato attraverso “consigli” tecnicamente
avveduti ad un contribuente su come evadere il fisco: consigli che potrebbero
consistere, come qui ritenuto, nel far figurare attività professionali mai prestate;
– anche le operazioni intermedie, od i “giri finanziari” fra una prima transazione
basata su presupposti fittizi e l’ultimo passaggio, assumono rilievo penale quali
condotte ulteriori strumentali alla realizzazione della frode perseguita;

67

tra A e B per far figurare come realmente avvenute operazioni in realtà

– nessuna delle operazioni contestate risulta avere una dimensione
esclusivamente “infragruppo”, dato il coinvolgimento di soggetti ulteriori (in
specie, clienti del gruppo Mythos), e non ha alcuna valenza la notazione secondo
cui all’interno della stessa Mythos vi fossero società in perdita o che avevano
proceduto a formalizzare condoni: far emettere fatture da soggetti che
comunque non pagheranno imposte non è certamente l’unica metodologia di
frode fiscale, essendo anzi la più semplice (non solo da realizzare, ma anche da
scoprire).

certamente riproducibili anche a proposito delle ulteriori fattispecie contestate,
nelle quali si ipotizzano l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni
altrettanto inesistenti, tutte caratterizzate – come si evince dalla ricostruzione
offerta nella sentenza di primo grado, alle pagg. 9 e 10 – dalla singolare
circostanza che «gli importi indicati nelle fatture non solo erano assai rilevanti»,
ma risultavano altresì «coincidenti con i ricavi da abbattere della società
destinataria»: in sostanza, uno schema sovrapponibile a quello del ricorso a fogli
di calcolo excel in cui il primo dato da impostare non riguarda gli utili realmente
prodotti da una società, ma il risparmio fiscale che si intende realizzare per
un’altra. Anche per le operazioni in argomento assumono significativamente (e
ineccepibilmente) rilievo, per le sentenze di merito, la mancanza di personale ed
uffici da parte delle società del gruppo Mythos che ne furono apparentemente
protagoniste, la genericità e ripetitività delle causali delle presunte
movimentazioni finanziarie (come l’imputazione ad attività di “intermediazione
mobiliare” o “prestazioni di servizio”, in assenza di qualsiasi documentazione di
supporto); nonché, ancora una volta, le prove orali, fra cui le dichiarazioni del
Bellen e degli stessi A.A. e B.B..
Inequivoci risultano poi i riscontri offerti dalle comunicazioni via

e-mail,

parimenti riportate nel corpo della sentenza del Tribunale, dove si rinviene
traccia di richieste di fatture di comodo a date vincolate, con mutamenti di
numero di altre già formalizzate ed istanze esplicite di chiarimento sul tipo di
causale da inserirvi (istanze provenienti da parte dell’emittente, vale a dire il
soggetto che per primo dovrebbe conoscere quali attività ne costituiscano il
fondamento); a mero titolo di esempio, il meccanismo fraudolento emerge con
trasparenza assoluta dai due messaggi di posta elettronica riportati a pag. 13
della sentenza di primo grado, dove una dipendente della Mythos scrive ad
un’altra di aver notato la registrazione di una fattura da Consortium a Nixe in
data 15/12/2004, segnalando che occorrerebbe invece registrarla al 30
novembre o fare uno storno, perché “quella fattura serve per abbattere il reddito

68

3.6 Le osservazioni svolte in ordine alle operazioni di dividend washing sono

della Nixe al 30/11/04”: nel giro di poche ore, la destinataria replica “Ok,
spostata al 30/11”.
Su tali aspetti di chiara evidenza istruttoria, ancora una volta, i ricorrenti
non si soffermano in alcun modo, contestando le argomentazioni dei giudici di
merito su un piano di mera astrattezza. Né risultano formulate considerazioni di
sorta sulla circostanza che all’interno del server del gruppo era stato rinvenuto
un prospetto predisposto per le operazioni di management fee, ricostruite
analiticamente dal Tribunale prendendone in esame passo per passo lo schema:

mediante la costituzione di società ad hoc, con emissioni di fatture «di importo
predeterminato “a tavolino” e funzionali al risparmio fiscale», fatture che
avrebbero dovuto documentare attività di consulenza prestate per un’intera
annualità e che invece rimangono senza qualsivoglia supporto.
3.7 Anche a proposito del c.d. “prestito Moretti” di cui al capo E), ferma
restando la necessità di prendere atto di una parziale prescrizione e di delimitare
sul piano cronologico il concreto concorso del B.B., i ricorsi eludono le
pacifiche emergenze a carico degli imputati.
Negli atti di impugnazione si rappresenta – prospettando peraltro una
differente ricostruzione in fatto, alternativa a quella che i giudici di merito hanno
ritenuto attinente al caso di specie – che non si trattò di un prestito fittizio, bensì
di una normale operazione di portage; in ogni caso, tutti i passaggi successivi al
primo, dove si sarebbe concretizzata la presunta frode, avrebbero dovuto
considerarsi irrilevanti sul piano del diritto penale tributario.
In vero, per portage si intende comunemente la cessione di titoli di una
società ad un terzo, a prezzo determinato e con accordo di riacquisto a data
futura (a prezzo parimenti prestabilito), schema dunque non del tutto aderente
all’ipotesi che qui si sarebbe verificata: di norma, la finalità di un portage deriva
dalla necessità di liberarsi per un dato tempo di una partecipazione in perdita,
oppure dalla prospettiva di concentrare su un gruppo più forte le espressioni di
voto in occasione di assemblee chiamate a deliberare su eventi di grande
rilevanza per la vita della società. Non di meno, a prescindere dalle
denominazioni formali, non si vede proprio dove possa intendersi realizzato un
prestito nell’operazione documentalmente accertata, ricostruita con dovizia di
particolari alle pagine 50 e seguenti della sentenza del Tribunale di Milano.
Il complesso giro finanziario parte infatti da un bonifico estero operato da
una società del gruppo Mythos (Mythos Arké) alla società portoghese Citalia, con
sede a Madeira, a fronte di un presunto finanziamento, con un successivo e
identico passaggio di denaro – per la stessa cifra, 6 milioni di euro, ed ancora a

69

operazioni parimenti connotate da elementi di palese fittizietà perché realizzate

titolo di apparente finanziamento con identici durata, tasso e cedole; a seguire, e
sempre per un importo di 6 milioni di euro, risultano:
l’emissione di assegni circolari da parte di Andromeda, versati su un
conto della Moretti S.p.a.;
un bonifico da Moretti S.p.a. alla Holding Terra Moretti S.p.a.;
la restituzione di un finanziamento soci da Holding Terra Moretti S.p.a.
a Vittorio Moretti e Mariella Bertazzoni;
l’emissione di assegni circolari su richiesta di Vittorio Moretti, da un

il versamento di quegli assegni, a cura del B.B., su un conto
intestato alla Mythos Arké.
Se si tiene conto delle circostanze che il primo bonifico avvenne senza che
Mythos Arké disponesse della provvista necessaria, e che alla scadenza delle
presunte cedole venivano realizzati ulteriori giri finanziari (in direzione inversa)
parimenti descritti a pag. 53 della sentenza di primo grado, ecco che la
ricostruzione dell’operazione come prestito in senso proprio – ma anche come
portage –

perde qualunque consistenza, non essendovi per tabulas alcun

soggetto economico, tra i protagonisti dell’operazione medesima, che veniva ad
acquisire disponibilità finanziarie: si trattava invece di un meccanismo che
consentiva al Moretti di trasformare il reddito lordo di impresa, soggetto a
tassazione ordinaria, in apparenti interessi attivi (tassati ben più favorevolmente
come reddito da capitale, al 12,5%), come del resto confermato anche da
testimonianze di soggetti interni al gruppo Mythos segnalati nelle pronunce di
merito.
Ancora una volta, dunque, ci si trova dinanzi ad una operazione economica
di cui non è necessario valutare la astratta legittimità o la sola strumentalità al
risparmio tributario, giacché – prima ancora – è assodato che non venne
effettivamente realizzata come documentato nelle relative fatture: rilievo che si
attaglia non soltanto alle prime transazioni, ma anche a tutte quelle volte a
completare il giro finanziario così “innescato” (secondo una icastica terminologia
adottata nelle

e-mail

riferite agli schemi in argomento, come parimenti

evidenziato dai giudici milanesi).
3.8 Analoghe considerazioni valgono anche per la “operazione Renco”, su
cui i difensori del A.A. sviluppano autonomi profili di doglianza [che peraltro
risultano specifici solo in ordine alle condotte contestate al capo F1), mentre in
ordine al diverso addebito sub 16) le censure rimangono formulate sul piano dei
rilievi generali già esposti in precedenza]. Parlare di canoni di locazione e di
interessi su effettivi prestiti obbligazionari, in un contesto nel quale è
documentalmente provato – v. le pagg. 57 e 58 della sentenza di primo grado –

70

conto corrente a lui intestato;

che un diritto di usufrutto su una parte delle azioni della Renco S.p.a. (in
quantità comprese tra 1’1,85% ed il 7,55%) venne trasferito a varie società per
soli 14 minuti, significa non tenere conto delle obiettive risultanze del processo;
né può liquidarsi come apoditticamente inattendibile il tenore di comunicazioni
via posta elettronica (in realtà, di solare evidenza per confermare la fittizietà
delle operazioni) nelle quali c’era chi si preoccupava di “non sporcare tutte le
società con la scrittura crediti v/Renco a debiti v/Renco”, così decidendo di “farla
a tappo solo su tre società”. Vero è che le conseguenti istruzioni sul da farsi

dalla Corte di appello di Milano circa la responsabilità del A.A. sui fatti
contestati appare ineccepibile, facendosi tra l’altro riferimento alle stesse
dichiarazioni dell’imputato sul considerarsi

dominus del gruppo a dispetto

dell’avere mantenuto o meno qualifiche formali all’interno delle singole società.

4. Le questioni relative al reato di cui all’art. 416 cod. pen.
4.1 Nell’interesse di vari imputati si è sostenuta l’impossibilità di ritenere
comunque configurabile, nella fattispecie concreta, un delitto associativo: ferma
restando – secondo le difese – la non ravvisabilità dei reati-fine, è stato
rappresentato che non rileverebbero ad esempio le circostanze della stabilità dei
contatti fra gli imputati intranei alla Mythos e soggetti operanti presso istituti di
credito od uffici finanziari, l’accumulo di cariche negli stessi individui quanto
all’amministrazione delle società del gruppo, il ricorso a programmi informatici
standard.
Non c’è dubbio che, nello svolgere attività di consulenza fiscale, si debbano
avere rapporti frequenti con banche ed Agenzia delle entrate, e che la
predisposizione di documenti elaborati al computer costituisca la normalità, ma
nella vicenda in esame è evidente la necessità di esaminare preventivamente le
peculiarità dei reati-scopo in vista dei quali si ipotizza essere stato costituito il
sodalizio. Trattasi di approccio ermeneutico assolutamente corretto, visto che
la giurisprudenza di questa Corte ha recentemente avuto modo di ribadire che in
tema di reati associativi «è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato
mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio
criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle
loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto
l’operatività dell’associazione medesima» (Cass., Sez. II, n. 2740 del
19/12/2012, Di Sarli, Rv 254233).
Un conto è dunque l’episodico ricorso a modalità illecite per realizzare delitti,
in un contesto di normale gestione contabile o di fisiologiche prestazioni
professionali in favore di soggetti economici, tutt’altro è impostare quell’attività

71

venivano impartite dallo Zamparelli, ma la motivazione adottata dal Tribunale e

mirando in via esclusiva o principale a far sì che il risparmio delle imposte si
produca mediante la frode: in altre parole, e per fermarsi ad uno solo degli indici
su cui sono stati appuntati i rilievi delle difese, adattare un foglio di calcolo alle
occasionali prospettive fraudolente di un cliente, anche suggerendogli quella
possibilità, non equivale ad utilizzare sistematicamente un file di excel creato per
consentire a qualunque cliente di frodare il fisco. In questo secondo caso, che
è quello concretamente verificatosi nella fattispecie, il ricorso al file in questione
costituisce – unitamente agli altri indici puntualmente segnalati nelle sentenze di

un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, funzionale alla
realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza, da parte
dei singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad
operare per l’attuazione del programma criminoso comune» (Cass., Sez. VI, n.
3886 del 07/11/2011, Papa, Rv 251562).
Né coglie nel segno l’obiezione difensiva secondo cui l’istruttoria
dibattimentale avrebbe fatto emergere una struttura piatta, e non verticistica,
del gruppo Mythos: infatti, a tale constatazione rispondeva già la sentenza di
primo grado a pag. 72, laddove veniva evidenziato che
gli imputati avevano introdotto modifiche, funzionali alla commissione
con modalità seriali di più delitti indeterminati in danno dell’Erario, alla
preesistente struttura del gruppo, già dedita a finalità lecite;
non vi era da nutrire dubbi «sul fatto che, nell’ambito dell’attività
lecita, i singoli professionisti godessero di ampia autonomia nella
gestione dei singoli progetti» (v. la nota 108), ma l’associazione
criminale di nuova costituzione aveva assunto, «indipendentemente
dall’organizzazione lavorativa del gruppo Mythos riferibile all’attività
lecita, una struttura spiccatamente piramidale», all’apice della quale si
doveva collocare il A.A. e – subito al di sotto – il di lui «socio
storico e braccio destro B.B.», giungendo poi allo Zamparelli, al
Bellen ed al D.D. (al di là delle considerazioni che dovranno
comunque svolgersi sulla posizione di quest’ultimo, va ricordato che lo
Zamparelli ed il Bellen definirono il processo a loro carico con
sentenze di applicazione di pena su richiesta, anche in ordine al reato
associativo).
4.2 Circa il ruolo dei singoli imputati all’interno del sodalizio, è stato già più
volte ricordato che il non avere assunto o mantenuto cariche nelle varie società
non ha alcuna incidenza sul ruolo di vertice da ascrivere al A.A., per cui non
possono trovare accoglimento i motivi di ricorso formulati sul punto dai suoi
difensori: è ancora la sentenza di primo grado a sottolineare come tutte le prove

72

merito – uno degli elementi da cui inferire «la predisposizione di

orali acquisite

– ivi comprese le dichiarazioni dello stesso imputato –

concorressero a indicare la Mythos nelle mani del A.A., trovando un decisivo
ed insuperabile riscontro nelle frequentissime comunicazioni via e-mail che «lo
vedevano destinatario, mittente o comunque coinvolto per conoscenza, da cui
emerge che egli veniva costantemente e minuziosamente informato di tutti i
passaggi delle singole operazioni, specie se illecite» (pag. 75).
Ancora a mero titolo indicativo, non va trascurato che il ricordato testimone
con competenze matematiche, da cui era stato elaborato il foglio di calcolo excel

ricevuto proprio dal A.A. l’incarico di predisporre il file in questione.
In ordine al B.B., le censure della difesa afferenti la posizione
dell’imputato nell’ambito del sodalizio non meritano parimenti accoglimento,
giacché da un lato investono profili di merito, e dall’altro segnalano profili di
contraddittorietà della decisione impugnata che in realtà non sussistono.
E’ infatti logico ricostruire la partecipazione del ricorrente all’associazione
muovendo dalla presa d’atto dei contributi da lui offerti alla realizzazione di
singoli reati-fine (come segnala la giurisprudenza di questa Corte, sopra
ricordata), mentre costituisce mera allegazione difensiva l’assunto che
mancherebbe prova certa della consapevolezza da parte del B.B. circa la
natura fraudolenta delle operazioni: a tal fine, la circostanza che egli svolgesse
anche una parallela attività lecita all’interno del gruppo si rivela neutra,
trattandosi di rilievo riferibile a tutti gli imputati, mentre spiegare gli episodi
corruttivi (di cui proprio il B.B. era stato il principale protagonista) come
iniziativa occasionale ed estemporanea, piuttosto che da correlare al programma
del sodalizio, mira appunto a prospettare una ricostruzione nel merito differente
da quella fatta propria dai giudici di primo e secondo grado, senza neppure
tenere conto delle ragioni segnalate in quelle decisioni per giungere alla
conclusione adottata.
Va considerato infine che la sentenza della Corte di appello, a proposito del
B.B., riconosce particolare significatività sia alla titolarità da parte
dell’imputato di deleghe bancarie che gli consentivano di operare sui conti di
società interessate dalle operazioni ritenute evasive dell’imposizione tributaria,
sia alla circostanza che egli risultava aver conseguito vantaggi fiscali a seguito di
talune operazioni di dividend washing.
Più delicata, e meritevole di approfondimento, è invece la posizione del
D.D., peraltro condannato solamente quale presunto partecipe
dell’associazione per delinquere, ed al contempo assolto in primo grado per
difetto in capo a lui dell’elemento soggettivo concernente i presunti reati-fine
contestatigli, sub F1), G1), G2), H1) e H2).

73

che si è avuto occasione di tornare a menzionare poco fa, dichiarò di avere

Come ricordato, la difesa dell’imputato ha diffusamente esposto le ragioni di
presunta contraddittorietà e manifesta illogicità nella motivazione della sentenza
della Corte di appello, ed in quella del Tribunale richiamata per relationem:
alcune delle doglianze si risolvono ancora una volta in censure di mero fatto (non
potendo rilevare in questa sede, fra l’altro, le osservazioni difensive sulla
necessità di ritenere membri dell’associazione per delinquere, in luogo o
comunque prima del D.D., altri soggetti intranei all’area fiscale del
gruppo Mythos), ma quanto ad altre è lo stesso esito del processo di merito ad

liberatoria in ordine ai reati fiscali non già per non averli commessi, bensì
“perché il fatto non costituisce reato”.
In concreto, dunque, è stato ritenuto che il D.D. fosse consapevole
del generico piano di frode in danno dell’Erario, ma non colse – o, quanto meno,
non sarebbe emersa prova sufficiente che la percepì – la specifica valenza che il
suo contributo al sodalizio apportò anche in vista della realizzazione dei singoli
reati fiscali: scrivono infatti i giudici di primo grado che, «pur avendo l’imputato
contribuito anche ai delitti-scopo in questione, coordinando la redazione delle
false perizie, non vi è prova che il medesimo fosse a conoscenza delle specifiche
operazioni fiscali cui esse erano destinate. Tanto si risolve in un’assenza
dell’elemento soggettivo, in quanto non è sufficiente essere meramente
consapevole dell’attività criminosa dell’associazione di cui si è parte, ma in
relazione ai singoli reati-fine è necessario un apporto personale consapevole alla
realizzazione».
Nel valutare la posizione del D.D., in definitiva, i giudici del Tribunale
si mossero in una prospettiva inversa rispetto a quella tenuta presente per
analizzare la posizione del B.B., dove la prova della partecipazione al
sodalizio fu ricavata – anche e soprattutto – dalla verifica delle modalità con cui
l’imputato concorse nei reati-scopo: e viene sostanzialmente affermato che,
presiedendo alla elaborazione di presunte perizie di comodo, il responsabile
dell’area aziendale poteva non rendersi conto di quali sarebbero state le
specifiche operazioni fraudolente cui le perizie medesime erano strumentali.
Affermazione non del tutto convincente sul piano logico, in verità: se chi cura od
organizza la stesura di una perizia che sa essere fasulla è consapevole che quella
stima compiacente servirà agli scopi di un sodalizio criminoso creato per frodare
il fisco, è ragionevole desumerne che il soggetto in questione sia ancor prima
edotto sul funzionamento del tipo di operazione che la perizia sottende (e, una
volta che l’elaborato si riferisca ad un soggetto economico determinato, come è
inevitabile, non si vede di quali informazioni ulteriori l’imputato avrebbe dovuto
disporre, per essere considerato concorrente nel reato-fine).

74

avvalorarle, considerando appunto che il prevenuto ha goduto di formula

Ciò premesso, appare per converso evidente che la sentenza di appello non
fornisce risposta a buona parte dei profili di doglianza avanzati nell’interesse del
D.D..
Il primo si riferisce appunto al tema delle perizie, appena ricordato come
elemento che i giudici di primo grado avevano ritenuto decisivo per inferirne la
partecipazione dell’imputato – responsabile dell’area aziendale al cui interno le
perizie medesime venivano predisposte – all’ipotizzato sodalizio criminoso.
A riguardo, la Corte di appello non tiene conto delle osservazioni difensive:

limitato di periti con cui aveva rapporti di collaborazione consolidati,
verosimilmente anche perché ratificassero elaborazioni (affidabili o
meno, ma) comunque già curate dagli organi interni alla Mythos.
Veniva perciò contestato che quel metodo, già in atto da circa quattro
anni prima rispetto alla data di costituzione dell’associazione per
delinquere (come ricostruita nel capo d’imputazione), potesse
assurgere a tratto distintivo della struttura parallela, visto che
caratterizzava anche le attività lecite preesistenti;
b) sul mancato riferimento a specifici elaborati peritali, in ipotesi curati
presso l’area aziendale facente capo al D.D., nella
ricostruzione delle operazioni alle quali l’imputato – per quanto poi
assolto – si riteneva avesse materialmente partecipato, e ciò sia nella
descrizione offerta in dibattimento dai testimoni escussi, anche della
Guardia di Finanza, sia nel tenore stesso della rubrica;
c) sulla esclusione di qualunque utilità o vantaggio fiscale per il
D.D. a seguito delle operazioni anzidette, o comunque delle
attività illecite in genere realizzate dal gruppo Mythos, a differenza di
altri imputati.
Temi, quelli appena evidenziati, che avrebbero in effetti imposto una
disamina compiuta, atteso che il Tribunale si era limitato a far presente che
l’imputato – in qualità di capo dell’area aziendale – aveva sicuramente avallato
la metodologia di lavoro in ordine alle perizie, coordinando gli addetti a quel
settore: a riguardo, veniva richiamata «la mai! da A.A. a D.D. sulla
Coop 7, nonché tutte le mali in argomento da A.A. o Z. a
G.».
La Corte di appello risulta avere affermato che il ruolo dell’imputato doveva
intendersi analiticamente spiegato nelle motivazioni della sentenza del Tribunale,
senza che nei motivi di gravame quegli argomenti potessero in qualche modo
dirsi contrastati; ribadisce che il “compito specifico” in cui veniva a sostanziarsi
la partecipazione del prevenuto all’associazione criminosa derivava dalla sua

ApoL r

..

75

a) sul rilievo che fino dal 1997 il gruppo faceva ricorso ad un numero

posizione di dirigente del settore nel cui ambito erano organizzate le perizie di
comodo, tutte da considerare «ideologicamente false poiché in esse il
sottoscrittore attesta aver svolto personalmente tutta una serie di attività che in
realtà risultavano svolte da altri o addirittura non svolte (quali sopralluoghi o
riunioni di lavoro con i responsabili delle società conferenti, esame di
documentazione)». Né poteva assumere rilievo, come sostenuto dalla difesa del
D.D., la circostanza che il presunto perito compiacente, operante a
Pesaro (tale Perrone), fosse stato assolto, giacché la sentenza liberatoria nei

cosa le perizie servissero».
Secondo la Corte territoriale, sarebbe da considerare provato che il capo
area D.D. avesse avallato quella metodologia di lavoro e coordinato gli
addetti al settore aziendale, come segnalato dai giudici di prime cure: sul punto,
si richiamano ancora – oltre ai dati logici derivanti dalla qualifica di dottore
commercialista dell’imputato, e dalla pluriennale attività da lui prestata per il
gruppo – i contenuti delle comunicazioni e-mail già ricordate, alcune delle quali
inviate al D.D. dallo Zamparelli, indicato dai giudici di appello come «il
soggetto maggiormente coinvolto a livello associativo con specifico riferimento
alle operazioni di carattere fiscale».
In realtà, dalla lettura delle pronunce di merito non emerge quale fosse il
tenore delle mail in questione, ad eccezione di quella relativa alla “Coop 7”, su
cui si tornerà fra breve. Appare invece rilevante quel che riferiscono i testimoni
escussi in ordine all’attività dell’area aziendale, secondo quanto evidenzia il
Tribunale di Milano: ad esempio, Fabrizio Ranzini, che nello stralcio della
deposizione riportato nella sentenza, aveva affermato che

“vi erano delle

valutazioni, delle perizie che poi erano a supporto di operazioni straordinarie
quali cessioni di quote previa rivalutazione delle partecipazioni stesse.. per
quanto riguarda la valutazione delle aziende vi era l’area predisposta che era
l’area aziendale che appunto preparava le perizie., l’area aziendale faceva capo
al Dott. D.D. e vi lavorava per esempio il Dott. Carrano.. l’area fiscale
collaborava con l’area aziendale e quindi l’area fiscale determinava o comunque
impostava un determinato valore che doveva essere il valore dell’azienda, lo
passava all’area aziendale che valutava, faceva la valutazione dell’azienda e poi
attraverso periti esterni, valutavano e procedevano con la valutazione della
perizia [..] l’input era dell’area fiscale, io poi non so se l’area fiscale verificava o
meno la congruità di tale valore, questo non lo so dire..”.
I giudici di primo grado, a commento finale della testimonianza del Ranzini,
segnalano: «da ultimo il teste ha chiaramente affermato che prima veniva
stabilito quale fosse di volta in volta il vantaggio fiscale da ottenere e quindi, in
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ff
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76

confronti di quest’ultimo derivava dal fatto che egli «non era in grado di sapere a

funzione di esso, veniva determinato il valore da attribuire al conferimento
piuttosto che al bene oggetto di perizia». Approccio identico, dunque, a quello
già riscontrato per altre operazioni, dove i fogli di calcolo excel erano predisposti
in modo da impostare come primo dato il risparmio fiscale perseguito dal
contribuente: ma quel che qui rileva è che il disegno offerto dal Ranzini depone
per un’attività compiuta in primis dall’area fiscale, facente capo al ricordato
Zamparelli, cui quella aziendale fungeva da supporto tecnico successivo.
L’imputato Perrone, vale a dire il perito “di comodo”, riferisce di avere

nella ricostruzione offerta dal Tribunale «che gli era stato spiegato da Zamparellì
che la necessità di ricorrere a periti esterni al gruppo era finalizzata ad
evidenziare ai clienti che l’operazione non era trattata interamente dal gruppo».
Ergo, ancora per quanto ora di interesse, risulta che il soggetto chiamato a
ratificare stime fittizie avesse contatti con il responsabile dell’area fiscale,
piuttosto che con quello dell’area aziendale.
Giorgio Carrano viene indicato dal Tribunale di Milano come «diretto
collaboratore di D.D.», ed era colui che «si occupava di redigere le bozze
delle perizie relative alle valutazioni dell’azienda»: sui valori indicati in tali bozze,
secondo i giudici di primo grado, Carrano aveva riferito che il controllo di Perrone
era del tutto formale, e che si trattava di importi «determinati da un
commercialista dell’area fiscale».
A pag. 7 della motivazione della pronuncia del Tribunale (in un passo poi
richiamato dalla Corte di appello) si legge: «che Carrano avesse pochi contatti
diretti con D.D. – e si interfacciasse piuttosto coi singoli professionisti
dell’area fiscale – è circostanza di scarso rilievo, poiché è certo che il secondo che coordinava l’area – si occupasse di perizie e fosse al corrente delle anomale
modalità di esecuzione delle medesime. Ad esempio, si veda la mail inviata a
D.D. da A.A. sull’operazione Coop 7 […] (“..possiamo usare i nostri
periti normali, Perrone va bene, ma ovviamente la perizia la facciamo noi
coordinandoti con Zamparelli”)».
In un contesto da cui emerge che il Carrano, diretto collaboratore del
D.D., presiedeva ad attività illecite relazionandosi a chi operava in altro
settore, la ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di merito fonda perciò la
prova della consapevole partecipazione dello stesso D.D. sul dato logico
offerto da quella sola mai! (si ribadisce che nelle motivazioni delle due pronunce
non viene precisato quale contenuto abbiano le altre): tuttavia, al pari di quelle
non esplicitate, si tratta di una comunicazione ricevuta, che non si sa se abbia
avuto risposta e quale, con cui al D.D. si dice che dovrà ricevere
indicazioni dallo Zamparelli, e che il perito avrà il compito di avallare un

77

conseguito per quelle attività un compenso modesto, e dichiara altresì – sempre

contenuto predisposto. Ma allora, visto che il Carrano non aveva contatti diretti
con il proprio capo area, rimane sfuggente la prova in concreto della presunta
complicità concreta del D.D. quanto a tutto il resto delle operazioni, che
risultano numerose e cui i dipendenti del suo settore cooperavano
“interfacciandosi con singoli professionisti dell’area fiscale” e non già con lui; né
la presenza stessa di un responsabile dell’area aziendale appare decisiva per
consentire il radicarsi nel gruppo Mythos della prassi di rivolgersi sempre ad un
Perrone di turno, visto che – quando si trattava di indurre i periti a non

Zamparelli, non al D.D., che “se Dell’Aiuto reclama, gli dici che abbiamo
chi ce le fa a meno e senza reclamare” (v. sempre pag. 7 della sentenza di primo
grado).
Le considerazioni appena sviluppate rendono perciò evidente, ad avviso del
collegio, la carenza di motivazione della sentenza impugnata nel non avere
esaminato i profili dell’appello presentato nell’interesse dell’imputato, sopra
enumerati da a) a c): quanto all’ultimo punto, del resto, basterà osservare che la
Corte territoriale ritiene di sottolineare per il B.B. – al fine di considerarlo
intraneo all’associazione – anche il particolare dei vantaggi fiscali che egli
risultava avere personalmente conseguito, senza invece farsi carico di superare il
contrario argomento che in quegli stessi termini era stato sostenuto dalla difesa
del D.D..
Si impone pertanto, con riguardo a quest’ultimo, l’annullamento della
sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano
per un nuovo esame sugli aspetti evidenziati.

5. Le questioni relative alla applicazione delle norme penali tributarie
5.1 Non può trovare accoglimento il nono motivo di ricorso presentato
nell’interesse del A.A., relativo all’interpretazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 74
del 2000.
Scorrendo la rubrica, è agevole riscontrare che secondo l’impostazione
accusatoria deve contestarsi – nei confronti di chi rappresenta di avere
sostenuto costi – il reato di cui all’art. 2 del citato decreto, laddove la presunta
frode consista nell’utilizzo di fatture che si intendano emesse per operazioni
inesistenti, e l’art. 3 in presenza di altri artifici, che nella fattispecie sarebbero
consistiti nell’accantonamento in contabilità di costi da imputare a fatture ancora
da ricevere.
La tesi difensiva, secondo cui nel caso in esame non sarebbero ravvisabili i
“mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento”, imposti dalla lettera
della legge, non appare condivisibile. In proposito, la giurisprudenza di questa

78

esagerare con le proprie pretese sui compensi – il A.A. scriveva allo

Corte ha da ultimo affermato che un “mezzo fraudolento” «non può certo
identificarsi in mere condotte di mendaci indicazioni di componenti attivi, già
considerate dalla norma all’interno della “falsa rappresentazione”. Allo stesso
tempo, non parrebbe possibile qualificare come mezzo fraudolento nemmeno la
condotta di sottofatturazione dei ricavi, ricorrente allorquando venga […] emessa
una fattura avente un corrispettivo inferiore a quello reale: […] questa stessa
Corte ha precisato come la semplice violazione degli obblighi di fatturazione e
registrazione, pur se finalizzata ad evadere le imposte, non è sufficiente, di per

concreto, se essa, per le modalità di realizzazione, presenti un grado di
insidiosità tale da ostacolare l’attività di accertamento dell’amministrazione
finanziaria […]. È allora necessaria, per la realizzazione del “mezzo fraudolento”,
la sussistenza di un quid pluris che, affiancandosi alla falsa rappresentazione
offerta nelle scritture contabili e nella dichiarazione, consenta di attribuire
all’elemento oggettivo una valenza di insidiosità, derivante dall’impiego di artifici
idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile ed a costituire ostacolo al
suo accertamento. Ancor più chiaramente, si è detto che integra il reato di
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici qualsiasi comportamento del
contribuente, maliziosamente teso all’evasione delle imposte ed accompagnato
da una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie […].
L’affermazione, già resa da questa Corte nella vigenza della normativa

ex I. n.

516 del 1982, secondo cui i mezzi fraudolenti possono anche consistere in
comportamenti di per se stessi leciti, che acquistano natura illecita solo per il
contesto di mendacio contabile a cui sono collegati e per lo scopo fraudolento di
impedire agli uffici fiscali la scoperta di detto mendacio […], va infatti ribadita
anche con riferimento al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 3» (Cass., Sez. III, n. 2292
del 22/11/2012, Stecca, Rv 254136).
Ora, nel caso oggi in esame – prendendo spunto a titolo esemplificativo da
una delle operazioni contestate ai sensi del menzionato art. 3 – il sistema
prevedeva annotazioni in contabilità che richiamavano giustificazioni diverse a
fronte delle fatture da emettere (“prestazioni per consulenza gestionale” da una
parte, “proventi per intermediazione mobiliare” dall’altra), e soprattutto le
società da cui le fatture venivano indicate come di successiva emissione erano
del tipo descritto nella stessa premessa delle motivazioni delle sentenze di
merito: Eldorado e Donde, fra le altre, avevano tutte sede legale presso lo
stesso recapito, non avevano uffici propri né personale e non risultavano mai
avere effettuato, per le operazioni economiche di cui figuravano protagoniste,
alcuna reale movimentazione finanziaria. Elementi, quelli appena segnalati, che
pur non espressamente richiamati dalla decisione impugnata a sostegno della

79

sé, ad integrare il delitto in esame, dovendosi invece verificare, nel caso

corretta applicazione della norma incriminatrice qui evocata, debbono intendersi
dati per presupposti, e di sicura incidenza sulla configurabilità dei “mezzi
fraudolenti” indicati dal testo di legge.
Né si pone in concreto una duplicazione di contestazioni, non risultando in
alcun caso che le fatture da ricevere, prese in esame ai fini degli addebiti ex art.
3 debbano intendersi le stesse poi considerate nei capi d’imputazione
concernenti reati di cui al precedente art. 2 (in ipotesi, per gli esercizi
successivi).

ricorrenti ne deducono l’inosservanza e l’erronea applicazione laddove gli
imputati risultano essere stati condannati sia per delitti ex art. 2, che per fatti
qualificati ai sensi dell’art. 8, condotte che invece l’art. 9 esclude possano essere
addebitate ad un unico soggetto con riguardo alla stessa fattura (da un lato
emessa e dall’altro utilizzata). A tal fine, richiamano le indicazioni offerte dalla
sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 27 del 25/10/2000, ric. Giordano,
secondo le quali l’emittente la fattura non può concorrere nella condotta di
successiva utilizzazione, né l’utilizzatore in quella precedente di emissione,
trattandosi rispettivamente di postfatti od antefatti privi di rilevanza penale.
Secondo la Corte territoriale, come pure già secondo il Tribunale di Milano, si
deve però registrare che nel caso in esame alcuni soggetti (persone fisiche)
risultano contemporaneamente legali rappresentanti sia della società emittente
che di quella utilizzatrice la medesima fattura; inoltre, laddove non sia
ravvisabile detta identità ed i titolari delle società in questione si debbano invece
distinguere, gli imputati avrebbero comunque concorso materialmente con
costoro in entrambe le condotte, apportando un contributo rilevante ex art. 110
cod. pen.
Le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito appaiono corrette, ove si
consideri che in sede di legittimità è stato recentemente precisato che «l’art. 9
d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, contenente una deroga alla regola generale fissata
dall’art. 110 cod. pen. in tema di concorso di persone nel reato, esclude la
rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto
emittente, ma non trova applicazione quando la medesima persona proceda in
proprio sia all’emissione delle fatture per operazioni inesistenti, sia alla loro
successiva utilizzazione» (Cass., Sez. III, n. 19247 del 08/03/2012, Desiati, Rv
252545). Nella motivazione di quest’ultima pronuncia, viene affrontato in
termini assai analitici un problema di possibile coesistenza «di due fattispecie
differenti cui conseguirebbero due diversi regimi giuridici; si tratta di fattispecie
che possono essere sintetizzate come segue. La prima risulta integrata
dall’ipotesi che due soggetti giuridici diversi e tra loro autonomi definiscano un

80

5.2 Con riguardo alla previsione di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 74, vari

accordo per la realizzazione di una frode fiscale mediante l’emissione di fatture
false da parte di un soggetto e la loro utilizzazione da parte dell’altro. L’onerosità
dell’operazione per il soggetto che simula prestazioni non effettuate (debito IVA
e debito di II.DD. a fronte di incassi solo formali o seguiti da restituzione “in
nero” di parte del pagamento) trova compensazione in vantaggi di natura
extracontabile e si accompagna spesso a ulteriori meccanismi fraudolenti
(mancata dichiarazione annuale; distruzione della documentazione; e simili). A
sua volta, l’utilizzatore delle fatture irregolari si avvantaggia di costi e di debito

derivanti dalla frode. Come si vede, si tratta di fattispecie che interessa due
soggetti accomunati soltanto dalla prospettiva di un vantaggio economico che, in
forme diverse, viene raggiunto mediante il ricorso a fatture che la terminologia
corrente qualifica come “false” (f.o.i.), ovvero non corrispondenti ad operazioni
effettive. La seconda risulta integrata dall’ipotesi che il soggetto giuridico che
ha interesse a utilizzare la f.o.i. dia luogo a una serie di condotte preparatorie e
dissimulatorie diverse. Rientrano in questa ipotesi il meccanismo, tipico delle c.d.
“frodi carosello”, che prevede la creazione di soggetti giuridici intermediari che
operano come filtro; ma vi rientra anche l’ipotesi di ricorso a fatture irregolari
“infragruppo”, nel quale vengono coinvolte società che fanno capo al medesimo
controllante che può nei fatti condizionarne la gestione e le soluzioni contabili.
Avendo riguardo alla prima delle ipotesi descritte, deve rilevarsi che
nell’operatività della legge n. 516 del 1982, il soggetto utilizzatore delle f.o.i. era
considerato dalla giurisprudenza maggioritaria come l’effettivo beneficiario della
frode e, dunque, colui che risultava titolare dell’interesse prioritario alla
creazione delle fatture irregolari e alla realizzazione di un meccanismo di
nascondimento della diversa realtà economica e contabile sottostante. Tale
valutazione conduceva a ravvisare non solo una sua responsabilità per la
condotta diretta di utilizzazione, ma anche un suo concorso morale nella
condotta illecita di emissione posta in essere dal soggetto con cui egli aveva
preso accordi, e ciò sotto il profilo della istigazione o del rafforzamento del
proposito criminoso nei termini previsti dall’art. 110 cod. pen. La disciplina
introdotta dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ha inteso modificare tale profilo e ha
espressamente previsto che l’utilizzatore non possa essere chiamato a
concorrere col diverso soggetto che ha accettato di provvedere all’emissione
delle f.o.i. necessarie alla successiva realizzazione della frode che l’utilizzatore
intende concretizzare mediante la presentazione di dichiarazioni infedeli. Sulla
base del medesimo principio interpretativo, la persona che ha emesso le f.o.i.
non può essere chiamata a rispondere a titolo di concorso con la diversa

81

IVA fittizi, in genere compensando l’emittente con una parte dei vantaggi

condotta di utilizzazione posta in essere dal soggetto che le fatture ha ricevuto,
iscritto in contabilità e incluso nella dichiarazione annuale».
A questo punto, esaminata la fattispecie concreta in quel momento sub
judice,

la decisione in esame rileva che l’attività contestata agli imputati

(presunti meri utilizzatori le fatture) non era quella «di avere istigato il soggetto
emittente o rafforzato il suo proposito illecito, condotta rilevante ex art. 110 cod.
pen., e non procedibile d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 9, ma di avere
emesso in proprio, seppure in concorso “interno” con altre persone, le fatture

giungere alle dichiarazioni infedeli». Giunge così a concludere che «si è in
presenza, dunque, di una fattispecie non riconducibile alla sfera di applicazione
del citato art. 9 […]. Ciò che l’art. 9 citato intende evitare non è, in sé, la
“doppia” punibilità della medesima persona fisica per la gestione delle medesime
fatture, ma la punibilità della medesima persona una volta a titolo diretto per la
propria condotta di utilizzazione delle f.o.i. e una seconda volta per concorso
morale nella diversa e autonoma condotta posta in essere dall’emittente con cui
ha preso accordi».
A definitiva conferma della correttezza dell’approccio interpretativo così
illustrato, la Sezione Terza evoca «l’ipotesi che l’amministratore della società
utilizzatrice porti in contabilità una o più f.o.i. emesse da una ditta individuale di
cui egli stesso è legale rappresentante. Un’impropria lettura dell’art. 9 citato
condurrebbe ad affermare che la condotta di emissione di f.o.i. d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74, ex art. 8, non può essere coperta da responsabilità penale, attesa
l’identità del legale rappresentante del soggetto emittente e di quello utilizzatore,
in ciò confondendo nell’unicità della persona fisica i diversi livelli di responsabilità
giuridica che debbono, invece, essere tenuti distinti. Senza omettere di rilevare
che in tale ipotesi sarebbe impossibile individuare un criterio fondato su basi
obiettive per definire quale delle due condotte, di emissione e di utilizzazione,
dovrebbe “cedere” rispetto all’altra e risultare non sanzionabile penalmente.
Viceversa, una più corretta interpretazione deve condurre a ritenere la persona
responsabile sia della condotta di emissione sia della diversa condotta di
utilizzazione, con evidentemente probabile applicazione dell’istituto della
continuazione fra i due reati ex art. 81 cpv. cod. pen.».
Il collegio ritiene di prestare adesione alle argomentazioni appena riportate
che, per completezza ed analiticità, meritano di essere pienamente condivise,
senza che dall’esame della normativa o della giurisprudenza intervenute medio
tempore risultino ragioni di sorta per discostarsi dai principi in quella sede
affermati. E’ ictu ocu/i evidente, peraltro, come nella fattispecie oggi portata
all’attenzione di questa Corte gli addebiti contestati debbano ricond rsi alla

1,6
82

che poi la società utilizzatrice avrebbe ricevuto e immesso in contabilità per

seconda delle ipotesi formulate in via introduttiva nella motivazione adottata
dalla Sezione Terza, sì da rendere rituale l’esclusione dell’operatività dell’art. 9
d.lgs. n. 74 del 2000.
5.3 Sono invece fondati i motivi di ricorso relativi alla inosservanza ed
erronea applicazione dell’art. 10-quater dello stesso d.lgs. n. 74.
Come rilevato nell’interesse di più imputati, il Tribunale di Milano ha ritenuto
la norma appena ricordata in rapporto di continuità normativa con l’art. 640 cod.
pen., rispetto al quale conterrebbe previsioni sanzionatorie di maggior favore,

secondo i ricorrenti, già in base alle indicazioni offerte dalla più volte ricordata
sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, n. 1235 del 28/10/2010, ric.
Giordano (nei ricorsi in esame viene spesso riportata la data del deposito).
Quest’ultima pronuncia, in vero, risulta avere affermato il principio espresso nella massima ufficiale Rv 248865 – secondo cui «è configurabile un
rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale
(artt. 2 ed 8, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai
danni dello Stato (art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen.), in quanto qualsiasi
condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore
penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla
condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale
l’ottenimento di pubbliche erogazioni». In motivazione, il massimo organo di
nomofilachia ha precisato, dopo una diffusa disamina dei principi generali della
dogmatica penale che non è questa la sede per ripercorrere, che «qualsiasi
condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del quadro
sanzionatorio delineato dalla apposita normativa», e che anche da plurime
novelle legislative si ricava la conferma che «il sistema sanzionatorio in materia
fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e
autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi
repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte
lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle
entrate fiscali»
Discutendosi di frode fiscale, in definitiva, non c’è dubbio che oggi non siano
correttamente ipotizzabili contestazioni ex art. 640 cpv. n. 1 cod. pen.: debbono
trovare applicazione, in via esclusiva e per effetto del ricordato rapporto di
specialità, soltanto le previsioni di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74 del 2000.
Per converso, avuto riguardo ad ipotetiche condotte commesse prima dell’entrata
in vigore di quest’ultimo testo di legge, vi sarebbe spazio sul piano concettuale
per discutere di continuità normativa fra gli addebiti in esame, ma – nello
specifico delle condotte di emissione od utilizzazione di fatture a onte di

83

dunque applicabili ai sensi dell’art. 2 cod. pen.; interpretazione da censurare,

operazioni inesistenti – esistevano già le fattispecie incriminatrici di cui all’art. 4
del d.l. n. 429 del 1982, convertito nella legge n. 516 dello stesso anno. Ne
deriva che, con l’affermazione di principio in ordine alla autosufficienza del
sistema repressivo apprestato dal diritto penale tributario (sia con il precedente
che con l’attuale assetto normativo), la sentenza Giordano di fatto esclude che
alle condotte di frode fiscale stricto sensu sia mai stata applicabile la norma
generale sanzionatoria della truffa.
Occorre però chiedersi quali siano i limiti di portata applicativa dei principi

problema affrontato dalla Sezione Terza di questa Corte (sentenza n. 37044 del
30/05/2012, Agenzia delle Entrate di Roma) non già con riguardo al delitto ex
art. 10-quater dei d.igs. n. 74, bensì a quello del precedente art. 10, relativo alle
ipotesi di occultamento o distruzione di documenti contabili. Nella motivazione
di detta pronuncia si è rilevato che la sentenza delle Sezioni Unite
«espressamente affronta il tema del rapporto di specialità fra il delitto ex art.
640, comma 2, cod. pen. e quello/quelli di “frode fiscale” avendo come
riferimento non tutte le disposizioni del citato d.igs., ma solo quelle che
sanzionano la presentazione di dichiarazione infedele e l’emissione di fatture per
operazioni inesistenti. Richiamata la ratio della riforma dell’anno 2000 […], le
Sezioni Unite hanno ritenuto che le condotte

ex art. 2 ed art. 8, citati,

comportando una fraudolenta esposizione di costi e ricavi tali da alterare
l’ammontare delle imposte dovuto dagli autori del reato, contengono in sé tutti
gli elementi propri della sottrazione di somme al bilancio statale e, dunque,
escludono che per tale sottrazione gli autori possano rispondere anche ai sensi
dell’art. 640, comma 2, cod. pen. Così fissato il rapporto di specialità esistente
tra il delitto di truffa aggravata e quello di frode fiscale, appare evidente che la
condotta ex art. 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non presenta alcuna delle
caratteristiche che rendono i suddetti artt. 2 e 8 “speciali” rispetto all’art. 640,
comma 2, citato. La condotta di distruzione o occultamento della
documentazione, infatti, non comporta da sola alcuna alterazione delle somme
riportate in contabilità e nella dichiarazione annuale, così che non incide sui
rapporti di debito/credito con l’Amministrazione finanziaria e rimane priva della
natura di frode comportante un danno diretto per l’Erario. La condotta […]
costituisce, piuttosto, una delle operazioni artificiose funzionali alla dichiarazione
fraudolenta e alla falsificazione dei dati contabili, avendo la finalità di ostacolare
la ricostruzione dei dati contabili e dei fatti, di impedire l’identificazione degli
autori delle frodi e, in altri termini, di creare uno schermo tra costoro e gli organi
accertatori così da assicurare l’impunità alle persone e di impedire il recupero
delle somme altrimenti evase. Non vi è, dunque, alcuna ragione per ritenere che

84

espressi dalla suddetta sentenza con riguardo a figure criminose diverse,

i principi fissati dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite operino anche per il
reato previsto dall’art. 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74».
Ritiene il collegio che le osservazioni appena riportate siano certamente da
condividere, atteso che la norma di cui all’art. 10 disegna una fattispecie che non
appare ex se caratterizzata da frode: basti considerare, infatti, che alla condotta
tipica di occultamento o distruzione di documentazione contabile il fine di
evasione delle imposte dà una connotazione soltanto in termini di dolo specifico.
Ergo, visto che le Sezioni Unite limitarono doverosamente le proprie valutazioni

la truffa (né avrebbe potuto essere diversamente, richiedendo quel delitto contro
il patrimonio a forma vincolata la necessità di artifici o raggiri), nessuno spazio di
applicazione dell’art. 15 cod. pen. potrebbe esservi in caso di contemporanea
contestazione di violazioni all’art. 640 cod. pen. ed all’art. 10 del d.lgs. n. 74.
Coerentemente, affrontando lo stesso problema su un piano di diritto
intertemporale, non si potrebbe ritenere già sanzionato

ex art. 640 un

comportamento di occultamento o distruzione di documenti che si assuma
commesso prima del 2000.
A identiche conclusioni, ma per altra via, sembra peraltro doversi pervenire
anche con riguardo al delitto di cui all’art.

10-quater [introdotto soltanto nel

2006, perciò in epoca successiva rispetto alle presunte date di commissione dei
reati qui contestati ai capi G2) ed H2), inizialmente qualificati

ex art. 640,

comma secondo, n. 1, cod. pen.]: ciò perché, pur volendo dare una lettura
estensiva della locuzione “condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale”
utilizzata dalle Sezioni Unite nella sentenza Giordano, non sembra – come in
effetti rilevato dalle difese dei ricorrenti – che la condotta tipica presa in esame
dalla norma di nuova introduzione contempli un volontario atto di disposizione
patrimoniale da parte del soggetto passivo, nel senso richiesto dalla fattispecie
incriminatrice in tema di truffa.
Sono ancora una volta le Sezioni Unite (sentenza n. 155 del 29/09/2011, ric.
Rossi) a chiarire che «nella formulazione dell’art. 640 cod. pen. la condotta
tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie
causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando
attraverso l’induzione in errore; e che l’induzione in errore pur rappresentando il
modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce. Dottrina e
giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio
dall’errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento
sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento “collaborativo” della
vittima che per effetto dell’induzione arricchisce l’artefice del raggiro e si procura
da sé medesimo danno. La collaborazione della vittima per effetto del suo errore

85

al rapporto di specialità esistente fra i reati tributari con condotta fraudolenta e

rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perché ingiusto profitto e
danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell’agente; e
costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera
spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di
coartazione dall’altro. Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma
essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni
patrimoniali, realizzato tramite lo stesso grazie all’inganno, è definito “atto di
disposizione patrimoniale”.
La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca

norma consente difatti di restringere l’ambito della “collaborazione carpita
mediante inganno” ad un atto di disposizione da intendersi nell’accezione
rigorosa del diritto civile e di escludere, all’inverso, che il profitto altrui e il danno
proprio o di colui del cui patrimonio l’ingannato può legittimamente disporre, sia
realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto,
consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della
realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l’integrazione
della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia
frutto dell’errore in cui è caduto per fatto dell’agente e dal quale derivi
causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a
danno della vittima. Se, insomma, il senso riposto dell’atto di disposizione è che
il danno deve potersi imputare ad un’azione che viene svolta all’interno della
sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto
profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non
deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto
negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a
produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali
ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un
atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto
volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato
dall’errore indotto da una condotta artificiosa».
In quella fattispecie concreta, veniva conclusivamente affermato che l’atto
volontario richiesto dall’art. 640 cod. pen. può anche consistere in una «dazione
di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere eseguire un ordine del
giudice conforme a legge». Non si trattava, dunque, di una semplice omissione
od inerzia: e si deve ritenere, stando al dictum delle Sezioni Unite, che il “fatto
omissivo” idoneo a concretizzare una disposizione patrimoniale rilevante, per
potersi parlare di truffa, sia pur sempre il risultato immediato di una volontaria
rinuncia ad un facere.

86

categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria. Nulla nella formulazione della

Analizzando allora il precetto disegnato dall’art. 10-quater del d.l. n. 74 del
2000, si deve senz’altro affermare che quella di non versare all’Erario somme
dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti o inesistenti, appare
condotta lato sensu fraudolenta, ma a tale elemento in fatto (ai fini della
consumazione del reato) non è richiesto debba aggiungersi un atto di
disposizione patrimoniale da parte della pubblica amministrazione. Anche sul
piano cronologico, è evidente che la sequenza artificio – induzione in errore atto di disposizione – profitto (e danno) tipica della truffa è qui del tutto

minor somma, o dell’omissione di qualunque versamento, poi (al più,
contestualmente) l’artificio, consistente nella presentazione della dichiarazione in
cui si dà atto dei presunti crediti da compensare; ciò del tutto
indipendentemente dall’efficacia o dalla stessa evenienza di successivi controlli,
in cui verrebbe a sostanziarsi la volontaria (per quanto frutto di errore indotto)
partecipazione del soggetto passivo.
Il collegio non ignora, come del resto segnalato da alcuni ricorrenti, che
secondo la sentenza n. 7662 del 14/12/2011 della Sezione Terza (ric. Moretti) la
condotta sanzionata dall’art. 10-quater avrebbe dovuto intendersi già di rilievo
penale, ancor prima del 2006, sotto altro profilo: in particolare, perché rientrante
nell’alveo della fattispecie incriminatrice ex art. 316-ter cod. pen.
Non si ritiene tuttavia di condividere tale interpretazione.
Nella motivazione della pronuncia da ultimo ricordata, viene richiamato un
ulteriore precedente delle Sezioni Unite (sentenza n. 16568 del 19/04/2007, ric.
Carchivi), e si segnala che in quella occasione era stato affermato «il principio
secondo cui integra il reato di indebita percezione di elargizioni a carico dello
Stato previsto dall’art. 316-ter cod. pen., comma 1, e non quello di truffa
aggravata ai sensi dell’art. 640-bis cod. pen., l’indebito conseguimento, nella
misura superiore al limite minimo in esso indicato, del cosiddetto reddito minimo
di inserimento previsto dal d.lgs. 18/06/1998 n. 237. L’importanza della
decisione sta […] proprio nelle motivazioni della sentenza con cui sono state
sottolineate l’autonomia e la complementarietà delle due figure criminose,
rilevandosi in particolare che l’art. 316-ter è riservato a situazioni come quelle
del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente
in errore l’autore della disposizione patrimoniale. Rilevano infatti le Sezioni Unite
come, in molti casi, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni
non presuppone l’effettivo accertamento da parte dell’erogatore dei presupposti
del singolo contributo, ma ammette che il riconoscimento e la stessa
determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla
mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una

87

stravolta, perché si ha immediatamente il profitto all’atto del versamento della

fase successiva le opportune verifiche […].

Ora, il nucleo comune delle due

disposizioni (d.lgs. n. 74 del 2000, art. 10-quater, e art. 316-ter cod. pen.) sta
proprio nella falsità ideologica della dichiarazione, attestandosi nell’ipotesi del
reato fiscale l’esistenza di crediti inesistenti da portare in compensazione. L’art.
10-quater citato richiede, peraltro, solo il dolo generico, senza l’ulteriore intento
specifico di evasione».
A riguardo, deve tuttavia prestarsi adesione alle censure sviluppate nel
ricorso dei difensori del A.A.: l’art. 316-ter cod. pen. riguarda il

erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo
Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee”, e non sembra affatto che
il riconoscimento di un credito di imposta possa essere assimilato alle
menzionate categorie di atti (questi sì) di disposizione patrimoniale. Come
giustamente osservato nell’interesse del ricorrente, «il credito di imposta al socio
è, semplicemente, la restituzione al socio dell’imposta pagata a monte dalla
società, necessaria per il corretto calcolo dell’imposta a saldo. Non si tratta di un
finanziamento o agevolazione, ma della restituzione di una imposta: chi,
ipoteticamente, commetta frodi in tale contesto, non froda per ottenere
contributi, abusando delle norme che prevedono erogazioni agevolative e simili,
ma, ed è cosa completamente diversa, cerca di pagare una minore imposta».
Conclusivamente, deve pertanto affermarsi che con il d.l. n. 223 del 2006 si
è introdotto un novum nel diritto penale tributario, prima non contemplato dalla
normativa speciale: e quel comportamento non poteva intendersi già
sanzionabile ex art. 640 cod. pen. Ne deriva la conclusione dell’annullamento
senza rinvio della sentenza impugnata, nei limiti dei fatti come sopra riqualificati,
perché insussistenti (non essendo previsti dalla legge come reato all’epoca della
presunta commissione).
Va precisato che l’annullamento riguarda le condanne pronunciate con
riferimento ai reati sub G2) ed H2): per quest’ultimo, però, la riqualificazione ai
sensi dell’art. 10-quater non ha riguardato l’intera condotta contestata, ma solo
quella di cui al secondo alinea, dove si richiamano comportamenti strumentali
alla creazione di crediti di imposta inesistenti, onde neutralizzare mediante
compensazione quanto dovuto dalla società cliente Moretti S.p.a. (poi
denominata Fruges S.p.a.). La prima parte dell’addebito si riferisce invece alla
creazione di minusvalenze, e risulta riqualificata ai sensi del già ricordato art. 3
del d.lgs. n. 74 del 2000: sul punto, la sentenza non risulta oggetto di
impugnazione.
5.4 In parte fondati risultano altresì i motivi di ricorso presentati
nell’interesse del B.B. quanto alla declaratoria di responsabilità penale

88

conseguimento indebito di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati od altre

intervenuta nei suoi confronti in ordine ai reati-fine del sodalizio. Non possono
condividersi, in vero, le doglianze mosse dai suoi difensori a proposito della
mancanza di prova di un suo contributo materiale, ovvero di una sua
partecipazione sul piano psicologico, nella realizzazione dei reati tributari
contestatigli: come già ricordato, è proprio muovendo dalla verifica delle
peculiarità dei singoli reati-scopo che, nel caso di specie, si è pervenuti da parte
dei giudici di merito a delineare il sodalizio criminoso che vi era sotteso (sia pure
con alcune distinzioni nel percorso argomentativo delle due sentenze, che
Ergo, le ragioni sopra

evidenziate circa la sicura partecipazione del B.B. al reato associativo
valgono anche per superare le obiezioni difensive qui in esame.
Non può altresì convenirsi con la difesa dell’imputato circa presunte carenze
motivazionali della sentenza impugnata, a fronte dei motivi di appello presentati,
avendo comunque la Corte territoriale fatto riferimento agli elementi che
dovevano intendersi indicativi della partecipazione del B.B. alle varie
condotte criminose (fra cui, a mero titolo di esempio, la circostanza che nella
generalità delle comunicazioni via e-mail acquisite figurasse tra i destinatari un
soggetto recante l’acronimo dell’imputato).

Meritano invece accoglimento le censure della difesa con riguardo alla
contraddittorietà della motivazione della sentenza di secondo grado che,
assolvendo il B.B. quanto al reato associativo limitatamente ad una sua
partecipazione posteriore al 29/09/2005 (data del suo arresto, sopra ricordato),
non ha ritenuto di trarne analoghe conseguenze anche con riferimento ai reatifine da collocare nello stesso ambito temporale, se non con riguardo al solo
delitto contestato al capo B17). E’ verosimile che ciò derivi da una valutazione
meramente erronea del dictum della sentenza del giudice di prime cure, avendo
la stessa Corte affermato a pag. 31 che il Tribunale di Milano «ha operato una
cesura temporale ed ha limitato la partecipazione del B.B. ai reati fiscali
commessi prima del suo arresto», quando così non era.
Ne deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza medesima, anche con
riferimento agli altri addebiti successivi alla data suindicata, meglio indicati in
dispositivo, perché non può ritenersi che il B.B. li abbia commessi.

6. Il ricorso presentato nell’interesse dell’E.E.
La difesa dell’E.E. contesta in primis che all’imputato debba riconoscersi la
veste di pubblico ufficiale, non risultando dimostrato che gli spettassero le
qualifiche di esattore o di messo notificatore, né che comunque avesse in
I

concreto esercitato dette funzioni.

comunque non alterano la comune ricostruzione in fatto).

La giurisprudenza di legittimità ha già da tempo segnalato che lo
svolgimento di attività esattoriale implica l’esercizio di pubbliche funzioni, anche
a prescindere dall’essere l’autore dipendente o meno dell’ente presso cui si trovi
di fatto ad operare (v. Cass., Sez. VI, n. 10609 del 05/10/1992, Cristofaro). Ed
in realtà, stando alle indicazioni offerte dalla sentenza di appello, l’imputato
doveva intendersi – quale dipendente dell’Esatri – equiparato ad un ufficiale
esattoriale: secondo la ricostruzione dei giudici di merito, in sostanza, egli
«quietanzava pagamenti effettuati dai contribuenti». La contestazione della

questa Corte a rivalutare le acquisizioni istruttorie – intento chiaramente
palesato con il secondo motivo di ricorso – per verificare se possa in concreto
affermarsi che l’E.E. quietanzasse pagamenti (fra l’altro, si fa rilevare che egli
era preposto solamente allo sportello riservato alle pratiche di rimborso): ferma
l’inammissibilità del gravame, limitatamente a tale aspetto, non sembra
comunque possa esservi stato alcun travisamento della prova, ove solo si tenga
presente che “Esatri” è acronimo di Esazione Tributi, ed è pertanto intuitivo che
per un addetto allo sportello (se queste erano le mansioni del prevenuto)
l’attestare un avvenuto pagamento od anche la presentazione di una istanza di
rimborso costituissero attività tipiche, di palese contenuto certificativo.
Nello specifico delle pratiche cui il gruppo Mythos era interessato, egli non
era chiamato a quietanzare alcunché, visto che lo Zamparelli si rivolgeva a lui
per seguire appunto l’erogazione di rimborsi: ma, si ribadisce, si tratta di aspetto
non rilevante in punto di ricostruzione della qualifica pubblicistica da riconoscere
all’E.E., che si trovò a compiere un atto – su sollecitazione del suddetto
Zamparelli – rientrante nelle competenze dell’ufficio di appartenenza, come più
diffusamente rilevato nella sentenza del Tribunale. A pag. 70 della pronuncia di
primo grado si sottolinea infatti che in relazione a quell’atto (lo sblocco delle
pratiche) l’E.E. «aveva qualche possibilità di ingerenza, sia pure di mero
fatto», ed aveva altresì «di fatto esercitato la sua influenza istituzionale, ad
esempio telefonando a Chiola», vale a dire il collega preposto al centro operativo
di Pescara, presso cui le pratiche erano giacenti.
Assai significativo appare, del resto, il tenore di una

e-mail parimenti

riportata nella sentenza dei giudici di prime cure a pag. 67, inviata dallo
Zamparelli al A.A. il 28/04/2004 e che si conclude con la frase “resta
comunque problema che dobbiamo convincere Esatri a telefonare a Pescara ma
penso si possa fare”: che poi per Esatri si intendesse l’E.E. è circostanza
pacifica, visto che poche righe addietro lo stesso Zamparelli aveva precisato
apertis verbis al A.A. “in Esatri il rapporto con il nostro uomo (tale E.E.) è sempre buono, mi ha trattato molto bene”.

90

difesa in ordine a tale veste involge pertanto il fatto, sollecitando in sostanza

I

Nel sollecitare il disbrigo di quelle pratiche l’imputato si trovò pertanto a
compiere un atto di ufficio, per quanto non contrario ai propri doveri (di qui la
già intervenuta derubricazione dell’addebito in quello di corruzione impropria,
peraltro susseguente): ciò in quanto «l’atto d’ufficio, inteso non in senso
strettamente formale ma anche come comportamento materiale, per essere
qualificato tale, a prescindere dalla sua contrarietà o conformità ai doveri, deve
essere esplicazione dei poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente
esercitata e presuppone – per così dire – la necessità di una congruità tra esso, in
quanto oggetto dell’accordo illecito, e la posizione istituzionale del soggetto
pubblico contraente» (v. Cass., Sez. VI, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella).
In ordine ai dolo, costituiscono mere allegazioni difensive le tesi secondo cui
l’E.E. non sarebbe stato consapevole che quella specifica attività da lui svolta
rientrasse in un servizio disciplinato nelle forme della pubblica funzione, o che a
seguito di quell’attivo interessamento lo Zamparelli od altri lo avrebbero
remunerato con un orologio o diversa utilità: proprio in quanto intraneo ad un
ufficio preposto ad attività di esattoria, seppure non investito direttamente di
funzioni decisorie sulle pratiche di interesse della Mythos,

è in re ipsa che

l’E.E. si rendesse conto di quali regole dovessero presiedere ad una pratica di
rimborso; inoltre, è pacifico che l’imputato fosse solito ricevere regalie più o
meno periodiche, seppure di modesto valore, dalla stessa Mythos (profili della
contestazione oggetto di parziale assoluzione), ed è quindi ragionevole ritenere
che, almeno in punto di dolo eventuale, egli si prefigurasse una retribuzione
correlata al grandissimo interesse che il gruppo dimostrava di coltivare verso le
pratiche da sbloccare, trattandosi di somme decisamente importanti. Tant’è
vero che, ricevuto il donativo di un orologio del valore di circa 2.000,00 euro,
egli non manifestò alcuna riserva, affrettandosi invece a ringraziare lo Zamparelli
(che già il 29/12/2004, in una mali indirizzata al B.B. recante non a caso
oggetto “E.E.”, scriveva “mi ha chiamato per ringraziare, l’orologio è piaciuto
molto).

a

7. Le questioni sul trattamento sanzionatorio
In punto di entità delle pene irrogate, come pure sulla negazione delle
circostanze attenuanti generiche, hanno presentato motivi di ricorso i difensori
del A.A. e del B.B. (le doglianze esposte nell’interesse del D.D.
debbono ovviamente intendersi assorbite dall’annullamento con rinvio della
sentenza della Corte di appello di Milano, in parte qua).
Va ricordato tuttavia che la graduazione della pena rientra nella
discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la
pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen..,
4

91

sicché è inammissibile la censura che, nel giudizio di Cassazione, miri ad una
nuova valutazione della congruità del trattamento sanzionatorio (v., ex plurimis,
Cass., Sez. III, n. 1182 del 17/10/2007, Cilia).
La sentenza di primo grado ha diffusamente argomentato sulla necessità di
muovere, sia per il A.A. che per il B.B., da una pena base superiore al
minimo edittale, evidenziando in proposito una pluralità di ragioni; mentre la
sentenza della Corte territoriale ha ricordato l’impossibilità di far derivare da un
pregresso stato di incensuratezza, in presenza degli elementi di contrario tenore

meritevolezza delle circostanze ex art. 62-bis cod. pen. Né, di fronte ad una
parziale assoluzione come quella pronunciata per il B.B. quanto alla durata
della sua partecipazione al reato associativo, poteva dirsi sussistente alcun
obbligo di riduzione della pena in termini di proporzione matematica.
La giurisprudenza di questa Corte è peraltro consolidata nel senso che «la
sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. è
oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione
fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile
in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata,
neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi
fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (v. Cass., Sez. VI, n. 42688
del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle
circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra
gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto
a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo
elemento attinente alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle
modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (Cass., Sez. II,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone).

8. I reati da considerare estinti per sopravvenuta prescrizione
L’annullamento con rinvio della sentenza impugnata quanto alla posizione
del D.D. è assorbente del quinto motivo di ricorso presentato
nell’interesse di quest’ultimo, dove si invoca in subordine una declaratoria di
estinzione del reato associativo perché il contributo dello stesso D.D.
dovrebbe farsi risalire ad epoca precedente rispetto a quella ritenuta in rubrica.
Nei riguardi degli altri imputati, occorre considerare che:
– al A.A. si addebitano i reati sub A, B7), B9), B13), B16), B17), C2), C3),
C4), D1), D2), D3), E1), E3), E3-bis), E4), G1), G2), H1), H2), Il), 12), 13), 14)
ed 16); fra questi, vi è stata declaratoria di parziale prescrizione in appello per i
capi El) (limitatamente alle fatture emesse da Mythos nel 2003, da Maranghino

92

esposti nella pronuncia in quella sede impugnata, un automatico giudizio di

ai fatti commessi fino al maggio 2005), Gl) (limitatamente ai fatti
commessi nel 2004) e H1) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004);
nei riguardi del solo A.A., i reati di cui ai capi B13) (limitatamente
al fatto commesso nel 2004), C2), D1), D2), D3), I1), 13), 14)
(limitatamente al fatto commesso nel 2004) e 16) (limitatamente al
fatto commesso nel 2004);
l’unico reato ascritto

sub F2), da intendersi commesso nel

dicembre 2004.
Per la rideterminazione delle pene si impone parimenti il rinvio ad altra
sezione della Corte di appello di Milano, visto che non in tutti i casi risulta
chiarito dai giudici di merito se la singola articolazione della condotta contestata
nei vari capi di imputazione costituisca segmento autonomamente valutabile ai
fini del cumulo giuridico (ad esempio, con riguardo a fatture emesse in uno
stesso esercizio). Resta comunque impregiudicato che, con riferimento ai reati
non rientranti nella anzidetta declaratoria di prescrizione, la sentenza di
condanna pronunciata nei confronti del A.A., del B.B. e del C.C. deve
intendersi passata in giudicato.

9. Le questioni civilistiche
Stante il parziale annullamento della sentenza impugnata, conseguente al
venir meno – non solo per prescrizione – di taluni addebiti, le disposizioni
relative alle provvisionali disposte nei confronti del A.A., del B.B. e del
C.C. debbono essere conseguentemente annullate, con rinvio per l’eventuale
rideterminazione ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Peraltro, con
riguardo al solo B.B. e per effetto della parziale assoluzione pronunciata nei
suoi confronti già all’esito del giudizio di secondo grado, sarebbe stato in effetti
doveroso rivedere la misura della provvisionale, ovvero esplicitare le ragioni del
mantenimento, sul punto, dello stesso dictum di cui alla sentenza di primo
grado. Le ragioni di doglianza del D.D., di cui al sesto motivo di
ricorso, debbono intendersi assorbite dal più volte ricordato annullamento con
rinvio, già agli effetti penali.

P. Q. M.
1. Annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di
E.E., in ordine al reato sub F2) a lui ascritto, per essere detto reato
estinto per intervenuta prescrizione;
4. annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata:

94

4

nei confronti di A.A., B.B. e
C.C., quanto ai reati

sub G2) ed H2) (limitatamente per

quest’ultimo alla dichiarazione presentata da “Moretti S.p.a.”, poi “Fruges
S.p.a.”), perché i fatti non sussistono;
nei confronti di B.B., quanto ai reati

sub

B9)

(limitatamente al fatto commesso il 19/10/2005), B16), El)
(limitatamente ai fatti successivi al 29/09/2005), E3),

E3-bis)

(limitatamente ai fatti successivi al 29/09/2005), H1) (limitatamente ai

dichiarazione presentata da “Moretti S.p.a.”, poi “Fruges S.p.a.”), per non
avere l’imputato commesso i fatti contestati;
nei confronti di A.A. e B.B.,
quanto ai reati di cui ai capi 87), B9) (limitatamente al fatto commesso il
28/10/2004), El) (limitatamente ai fatti commessi fino al maggio 2005),
Gl) (limitatamente ai fatti commessi nel 2004) e H1) (limitatamente ai
fatti commessi nel 2004), per essere detti reati estinti per intervenuta
prescrizione;
nei confronti di A.A., quanto ai reati di cui ai
capi B13) (limitatamente al fatto commesso nel 2004), C2), D1), D2),
D3), I1), 13), 14) (limitatamente al fatto commesso nel 2004) e 16)
(limitatamente al fatto commesso nel 2004), per essere detti reati estinti
per intervenuta prescrizione;
3. rigetta nel resto i ricorsi degli stessi A.A., B.B. e C.C.;
4. annulla le statuizioni civili concernenti le provvisionali disposte a carico di
A.A., B.B. e C.C.;
5. rinvia il processo ad altra Sezione della Corte di appello di Milano, per la
rideterminazione delle pene rispettivamente inflitte a A.A., B.B. e C.C., nonché dell’entità delle
provvisionali, quanto alle contestazioni non incluse nell’annullamento senza
rinvio di cui al punto 2;
6. annulla le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di D.D., in ordine al reato sub A) a lui ascritto, con rinvio ad altra Sezione della
Corte di appello di Milano, per nuovo esame sul punto.

Così deciso il 16/01/2013
Consiglie

Il Presidente

fatti successivi al 29/09/2005) e H2) (quanto ai fatti ulteriori rispetto alla

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