Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36827 del 04/07/2018


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 36827 Anno 2018
Presidente: FIDELBO GIORGIO
Relatore: TRONCI ANDREA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
MARONE GIORGIO, nato 1’01.04.1961 a Termoli
FRANCIONI ANTONIO, nato il 27/03/1951 a Ceppaloni

avverso la sentenza del 14/12/2017 della CORTE d’APPELLO di CAMPOBASSO

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

sentita la relazione svolta dal consigliere Andrea Tronci;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sost. Felicetta Marinelli, che ha
concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza in punto di
trattamento sanzionatorio, con rideterminazione della pena in anni uno e mesi
quattro di reclusione ciascuno; rigetto nel resto dei ricorsi;

uditi i difensori, avv. Michele Marone ed avv. Antonio Guida, che hanno insistito
per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Data Udienza: 04/07/2018

RITENUTO IN FATTO
1.

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Campobasso, in

accoglimento dell’impugnazione proposta dal p.m. ed in riforma della pronuncia
assolutoria emessa dal g.u.p. del Tribunale del capoluogo molisano (“poiché il
fatto non costituisce reato”), condannava Giorgio MARONE ed Antonio
FRANCIONI a pena di giustizia, previa declaratoria di colpevolezza in ordine al
delitto di peculato, loro in concorso ascritto per avere, nelle rispettive vesti di

Molise Acque – Azienda speciale regionale, attraverso la predisposizione e
l’approvazione della determina n. 334 del 21.12.2011, distratto, con
conseguente appropriazione per fini personali, la somma di C 9.350,00 – di cui
avevano il possesso e la disponibilità giuridica per via dell’ufficio ricoperto utilizzata per il pagamento del pranzo offerto ai dipendenti dell’ente medesimo
presso il ristorante “Villa Livia” di Termoli, in occasione delle festività natalizie
dell’anno 2011.
2.

Avverso detta pronuncia entrambi gli imputati hanno interposto

tempestiva impugnazione, sulla scorta di distinti ricorsi a firma del rispettivo
difensore di fiducia, la cui identità di impostazione e di argomentazioni ne
legittima l’esposizione unitaria, nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc.
pen.
2.1

Il primo e comune motivo di ricorso assume l’insussistenza del reato per

cui è processo, stante il dedotto difetto della stessa materialità della fattispecie
prevista e punita dall’art. 314 cod. pen.
A tale riguardo, premessa la legittimità di siffatta doglianza in ragione
“dell’effetto pienamente devolutivo dell’appello proposto dal p.m. … anche in
assenza di un … appello incidentale” dell’imputato, deducono i legali ricorrenti
che il paradigma normativo del citato art. 314 sanziona unicamente la condotta
appropriativa, e non anche quella distrattiva, posta in essere dal soggetto
agente. Con la puntualizzazione che l’approdo esegetico cui è pervenuta la
giurisprudenza di legittimità – nel senso della configurabilità del peculato, là
dove la distrazione si risolve in una forma di appropriazione indebita, nel
momento in cui il mutamento della destinazione di quei beni venga operato per
ragioni esclusivamente o prevalentemente di tipo privato – presuppone, secondo
la tesi qui sostenuta, l’indagine sulle “ragioni che hanno spinto l’agente a
distrarre il bene oggetto del reato”. Indagine, per contro, del tutto omessa dalla
Corte distrettuale, che, asseritamente travisando il significato della richiamata
giurisprudenza, ha relegato le anzidette ragioni nella “stretta sfera dei motivi
personali”, ritenendone il relativo accertamento del tutto irrilevante in sede

direttore generale e di commissario straordinario dell’ente pubblico economico

penale, così malamente omettendo di prendere in considerazione quanto emerso
nel corso del procedimento: ossia che l’offerta del pranzo alla base della
formalizzata imputazione, con il correlato impegno della somma di denaro
oggetto di peculato, fu effettuata “al fine di rafforzare i legami tra le varie unità
di personale, approvare il nuovo organigramma aziendale e la nuova pianta
organica e discutere i futuri obiettivi della mission aziendale”, in nessun modo
essendo chiarito in sentenza come un’iniziativa di tal genere “possa essere volta
a sostegno di scopi personali”; non senza aggiungere, in proposito, la

procedimento non sono dei rappresentanti politici (come i protagonisti dei
numerosi procedimenti penali che hanno ad oggetto reati simili …), bensì dei
pubblici dirigenti”, che avrebbero dunque agito non già alla “ricerca del
consenso”, bensì perché convinti di perseguire fini istituzionali propri
dell’azienda, avendo non a caso operato apertamente, “alla luce del sole”, senza
alcun sotterfugio.
2.2

La seconda censura che accomuna i due ricorsi, per violazione di legge e

vizio di motivazione, investe la sussistenza dell’elemento soggettivo proprio della
contestata fattispecie incriminatrice.
Si rileva in proposito che la Corte distrettuale, sulla scorta della propria
errata interpretazione del dettato dell’art. 314 cod. pen., si sarebbe soffermata
esclusivamente sul “semplice utilizzo del denaro per finalità ‘diverse’ da quelle
istituzionali”, senza dedicare alcuna attenzione alla necessaria consapevolezza
dell’appropriazione in capo ai soggetti agenti, intesa dunque come coscienza e
volontà di impiegare il denaro pubblico per fini personali, così facendolo proprio.
Ulteriore supporto alla fondatezza della tesi difensiva discenderebbe dalla
disciplina dell’errore di fatto, di cui all’art. 47 cod. pen.: pur dandosi atto dai
ricorrenti dell’estraneità delle spese oggetto dell’imputazione al concetto di
“spese di rappresentanza”, si richiama sul punto la giurisprudenza di legittimità,
ammissiva della possibilità che l’agente incorra in errore circa la natura delle
spese sostenute, con conseguente ricaduta sul piano della prescritta
rappresentazione del dolo della fattispecie, stigmatizzandone l’apoditticamente
ritenuta non pertinenza al caso in esame da parte della Corte distrettuale.
2.3

La terza ed ultima doglianza, per violazione di legge, concerne la

determinazione del trattamento sanzionatorio, non avendo il giudice territoriale
tenuto conto, nella determinazione della pena a carico degli imputati, della
riduzione per il rito, connessa all’opzione dagli stessi esercitata per la
celebrazione del processo nei loro confronti con le forme del rito abbreviato.

significatività della pur sottolineata “circostanza per cui gli imputati di questo

CONSIDERATO IN DIRITTO
1.

Il ricorso è fondato, con esclusivo riferimento alla censura da ultimo

illustrata, alla stregua delle considerazioni che seguono.
2.

Giova premettere che il difforme esito dei due processi di merito poggia

esclusivamente sulla divergente valutazione giuridica in ordine alla sussistenza

ricostruzione della vicenda per cui è processo, nel complesso e nei suoi singoli
aspetti, quanto la ritenuta integrazione della materialità della fattispecie ascritta.
A tale ultimo riguardo, rileva, infatti, innanzi tutto, la sicura estraneità alla
spese di rappresentanza di quelle sostenute nel caso di specie, così come opinato
già dal g.u.p., valendo in proposito quanto affermato anche recentemente da
questo giudice di legittimità, con sentenza richiamata altresì dalla Corte
distrettuale e pienamente condivisa dal Collegio, secondo cui

“Ai fini della

configurabilità del reato di peculato possono considerarsi “spese di
rappresentanza” solo quelle che soddisfino il duplice requisito di essere destinate
alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente che le sostiene e di essere
funzionali a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico, al
fine di accrescere il prestigio della sua immagine e la diffusione delle relative
attività istituzionali nell’ambito territoriale di operatività” (così Sez. 6, sent. n.
16529 del 23.02.2017, Rv. 270794).
Per altro verso, rileva, poi, la circostanza che delle esaltate finalità
rappresentate dai ricorrenti e sopra sintetizzate, nel paragrafo 2.1 del precedente
RITENUTO IN FATTO, la sentenza impugnata ha dimostrato la radicale
inconsistenza, sulla base di considerazioni – con le quali i ricorrenti non si
confrontano affatto – di ordine sia logico che fattuale: le prime legate alla palese,
intrinseca inverosimiglianza dell’assunto difensivo, sulla quale non mette conto di
soffermarsi nel dettaglio, in ragione del suo carattere evidente; le seconde
discendenti dalle esplicite indicazioni fornite dai testimoni dipendenti dell’Ente
Molise Acque, che presero parte al munifico pranzo organizzato dai due imputati
con denaro pubblico, in relazione sia ai contenuti dell’incontro conviviale, sia alle
ragioni che furono alla base della sua preparazione, avendo gli stessi escluso con
nettezza che le causali, ampiamente sottolineate dalla difesa e ricondotte in seno
alla enfatizzata “mission aziendale” dell’ente medesimo, abbiano mai costituito
oggetto dell’incontro anzidetto ed anzi, a monte, fossero mai state indicate come
la ragione sottesa alla pianificazione del pranzo in questione.

dell’elemento soggettivo proprio del reato di peculato, ferma dunque tanto la

D’altro canto, non è certo senza rilievo l’opportuna sottolineatura, ad
opera della Corte distrettuale, che la determina di autorizzazione della spesa fu
sintomaticamente adottata, in palese violazione della procedura di contabilità
pubblica, non già preventivamente, ma solo in via successiva, quando già
l’incontro conviviale si era tenuto e fu altresì tenuta ferma malgrado le
perplessità espresse e formalizzate dal collegio sindacale.
Inevitabile, pertanto, è la conclusione che la somma impegnata per il più
volte citato incontro di cui trattasi non può neppure essere ricondotta ad una

appieno la nozione di distrazione, tuttora rilevante ai sensi dell’art. 314 cod.
pen., secondo la consolidata elaborazione giurisprudenziale sul punto:

“Nel delitto di peculato il concetto di ‘appropriazione’ comprende anche la
condotta di ‘distrazione’ in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa
da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri
tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene” (così, per tutte, sez. 6, sent.
n. 25258 del 04.06.2014, Rv. 260070).
Con l’opportuna puntualizzazione che l’atto di disposizione del pubblico
denaro va ricondotto nel paradigma tratteggiato dall’art. 314 cod. pen., non solo
in assenza di motivazione o documentazione che valga a significare, pur al
cospetto della violazione delle regole contabili, l’avvenuto perseguimento di
interessi pubblici obiettivamente esistenti, ma anche ove la motivazione, pur
esistente, ricopra finalità di evidente e mera copertura formale, onde celare il
perseguimento di finalità esclusivamente private, estranee a quelle istituzionali
dell’ente (cfr. Sez. 6, sent. n. 41768 del 22.06.2017, Rv. 271283).
3.

Le considerazioni svolte implicano ovvie ricadute a livello di elemento

soggettivo, che correttamente la Corte molisana ha ritenuto pienamente
integrato, indipendentemente dall’accertamento – non richiesto in questa sede e
perciò irrilevante – dei motivi che hanno soggettivamente determinato gli agenti
a porre in essere la condotta contestata, essendo sufficiente, ai fini
dell’integrazione del dolo richiesto dall’art. 314 cod. pen., la consapevolezza
dell’appartenenza del denaro all’ente pubblico o esercente un servizio di pubblica
necessità, nonché quella dell’estraneità dell’impiego del denaro agli scopi propri
dell’ente medesimo.
4.

E’ per contro fondata la censura finale, in tema di trattamento

sanzionatorio, atteso che la pena inflitta agli imputati, pari ad anni due di
reclusione ciascuno, con il riconoscimento ad entrambi delle attenuanti
generiche, è stata calcolata senza tener conto della riduzione di cui all’art. 442
cod. proc. pen., spettante agli odierni ricorrenti per effetto dell’opzione a suo

qualsivoglia altra finalità propria dell’ente Molise Acque, risultando così integrata

tempo esercitata, per la celebrazione del processo nei loro confronti con le forme
del rito abbreviato: donde la rideterminazione della pena medesima in anni uno
e mesi quattro di reclusione pro capite.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento
sanzionatorio, che ridetermina in misura di anni uno e mesi quattro di reclusione
per ciascuno dei ricorrenti. Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 4 luglio 2018

Il consigliere estensore

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