Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36443 del 26/05/2015


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 36443 Anno 2015
Presidente: ESPOSITO ANTONIO
Relatore: VERGA GIOVANNA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BONURA FRANCESCO N. IL 27/03/1942
PATTI SALVATRICE MARIA N. IL 06/08/1943
BONURA VINCENZO N. IL 27/06/1973
BONURA GIUSEPPINA N. IL 24/02/1970
avverso il decreto n. 32/2014 CORTE APPELLO di PALERMO, del
16/07/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA;
le conclusioni del PG Dott.
lette/set
v2-2

Uditi difensor Avv.;

sz.–)—ra

Data Udienza: 26/05/2015

CONSIDERATO IN FATTO
Ricorrono per Cassazione, a mezzo dei difensori, con un unico ricorso, BONURA Francesco,
PATTI Salvatrice, BONURA Vincenzo e BONURA Giuseppina avverso il provvedimento della
Corte d’Appello di Palermo del 16.7.2014 che, confermando il decreto emesso dal Tribunale di
Palermo in data 17.6.2010, ha disposto la confisca di beni meglio specificati nel decreto
impugnato.
Con tre motivi di ricorso, ampiamente articolati, lamentano violazione di legge per

Venivano presentate note di udienza con cui si ribadivano ed ulteriormente illustravano le
considerazioni già esposte.
Il ricorso è inammissibile alla stregua delle seguenti considerazioni.
Deve preliminarmente rilevarsi che nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione
avverso il decreto della Corte di Appello è ammesso solo per violazione di legge, in forza della
disposizione di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 11, alla quale rinvia
espressamente la L. n. 575 del 1965, art. 3 ter, comma 2 (disposizioni la cui costituzionalità è
stata affermata dai giudici “(delle leggi con sentenza in data 15.4.2015). Ne consegue che, in
sede di legittimità, non è deducibile il vizio di motivazione, a meno che essa non sia
totalmente carente ovvero sia puramente apparente, essendo il giudice di merito venuto
meno all’obbligo di provvedere, con decreto motivato, in ordine ad un provvedimento di
applicazione di una misura di prevenzione personale e patrimoniale (Cass. sez. 2^,
10.3.2000, n. 703; Cass. sez. 6^, 17.12.2003 n. 15107).
Pertanto, il sindacato devoluto alla Corte di Cassazione ha un ambito di applicazione più
ristretto rispetto a quello di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); ne consegue che, in
sede di ricorso alla corte di legittimità avverso il decreto di cui sopra, la motivazione deve
ritenersi censurabile soltanto quando essa non presenti i caratteri minimi di coerenza, di
completezza e logicità richiesti, perché assolutamente inidonea a rendere comprensibile l’iter
logico attraverso il quale il giudice di merito sia pervenuto ad applicare e a giustificare
l’applicazione delle misure stesse, ovvero, ancora, quando le linee argomentative del decreto
siano scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici, in maniera tale da far risultare
oscure le ragioni che avevano giustificato l’applicazione della misura.
Non è invece, possibile procedere ad una rinnovata valutazione delle risultanze di fatto
acquisite, da contrapporre a quella posta dal giudice di merito a fondamento del suo
provvedimento; invero, in tal caso, la Corte perverrebbe ad una diversa decisione, con
invasione del campo di intervento del giudice di merito (Cass. sez. 5^, 28.3.2002 n. 23041).
Ciò detto deve osservarsi che il provvedimento impugnato ha assolto gli obblighi
motivazionali richiesti.
Il primo motivo di ricorso si articola in tre doglianze.

1

motivazione apparente con riguardo al provvedimento di confisca.

La prima censura rivolta al provvedimento impugnato è che i giudice di merito hanno omesso
qualsivoglia argomentazione in ordine al presupposto su cui si regge la misura ablatoria, cioè
che il proposto BONURA Francesco avesse agito sui beni in argomento da effettivo dominus,
determinandone la destinazione e l’impiego o che gli stessi fossero il frutto di attività illecite o
ne costituissero il reimpiego e ciò nonostante la PATTI avesse documentato che i beni
confiscati erano stati acquisiti con fonti lecite provenienti dalla famiglia. In realtà la
motivazione del provvedimento impugnato si segnala per uno scrupolo argomentativo
particolarmente rigoroso proprio sul punto. Può pertanto affermarsi che la tesi dei ricorrenti si

alla quale i giudici di merito hanno fornito ampia e articolata risposta, non potendosi non
rilevare che con riguardo ai beni, per i quali la donna ha dimostrato un autonomo titolo di
proprietà e di provenienza, il sequestro e la confisca sono stati revocati sin dal primo giudice,
viceversa per i beni per i quali tale dimostrazione non è stata fornita è stata correttamente
applicata la presunzione riconosciuta dalla giurisprudenza di questa corte che ha
costantemente statuito in materia di misure di prevenzione patrimoniali che il sequestro e la
confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi,
dovendosi ritenere che il prevenuto ne abbia la disponibilità facendoli apparire formalmente
come beni nella titolarità delle persone di maggior fiducia, sui quali pertanto grava l’onere di
dimostrare l’esclusiva disponibilità del bene per sottrarlo alla confisca ( Cass. N. 2960 del
2006 Rv. 233429,N. 39799 del 2010 Rv. 248845; N. 49878 del 2013 Rv. 258140). La
doglianza si appalesa altresì generica per mancanza di indicazioni di quali altri beni oltre a
quelli per i quali il sequestro era stato revocato sarebbero di illegittima provenienza.
La seconda doglianza, sempre per pretesa assenza di motivazione, riguarda il flusso in uscita
di euro 185.924,48. Ci si duole della circostanza che tale esborso era stato ritenuto
giustificabile nei confronti del BONURA nel 1990 mentre gli odierni giudici non avrebbero
considerato né motivato sulle voci di entrata che lo giustificherebbero. Il decreto impugnato
offre sul punto ampia motivazione che tiene conto di tutte le censure formulate (pagina 16)
con la conseguenza che le doglianze si appalesano come mera contestazione delle valutazioni
operate dalla Corte Territoriale e come tali inammissibili in questa sede.
Generica e anche l’ulteriore censura secondo cui la Patti e i di lei figli hanno documentato
redditi leciti percepiti nel corso degli anni prima per miliardi di lire e poi milioni di euro e che
nonostante quanto sopra i giudici di merito hanno ritenuto che gli stessi non abbiano potuto
giustificare alcuna acquisizione. La censura è manifestamente infondata perché costituisce un
evidente dissenso alla valutazione giudiziale, prospettata come asserita mancanza di
motivazione. In realtà la motivazione esiste, è ben argomentata, gli elementi di valore
probatorio sono analiticamente valutati dai giudici che si richiamano alla perizia disposta in
appello, esplicitando l’iter logico seguito per pervenire a tale valutazione.

2

vt/

appalesa come rinnovazione di una linea difensiva tenuta nei vari gradi di giudizio, rispetto

Anche gli ulteriori motivi di ricorso ( motivi sub 2 e 3) condividono la stessa impostazione di
quelli esaminati. Si tratta ancora una volta di dissenso rispetto a valutazioni espresse dai
giudici di merito e proposte di spiegazioni alternative.
In sintesi i rilievi e le doglianze sono tutte riconducibili per il loro contenuto a censure
attinenti alla logicità della motivazione o al merito delle valutazioni e come tali inammissibili
in questa sede.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile e i ricorrenti condannati al
pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di euro 1000,00 alla cassa delle

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali
e ciascuno della somma di euro 1000,00 alla cassa delle ammende.
Così deliberato in Roma il 26.5.2015
Il Consigliere estensore
Giovanna VERGA

Il Pr sidente
Antonio ‘SP’ .ITO

ammende.

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