Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36420 del 09/07/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 36420 Anno 2015
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RUSSO MARIO N. IL 07/03/1972
avverso l’ordinanza n. 181/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del
16/02/2015
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ALESSANDRA BASSI;
4ettelsentite le conclusioni del PG Dott.

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Data Udienza: 09/07/2015

FATTO E DIRITTO
1.

Con provvedimento del 16 febbraio 2015, il Tribunale, sezione del

riesame, di Catania ha confermato l’ordinanza del Gip presso il Tribunale della
stessa città del 9 gennaio 2015, con la quale è stata applicata a Russo Mario la
misura della custodia in carcere in relazione al reato di partecipazione
all’associazione denominata “Cursoti milanesi” dal 2009 al 2012, con un ruolo
apicale (capo A) nonché al delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv cod. pen. e 73

sostegno della decisione, il Collegio ha evidenziato che i gravi indizi di
colpevolezza poggiano sulle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia di più
recente dissociazione dall’organizzazione in oggetto, quali Russo Franco,
Musumeci Michele e Angrì Ugo Rosario, cui si aggiungono quelle di altri
collaboratori più risalenti, appartenenti al diverso clan “Cappello”, quali
D’Acquino Gaetano, Pettinati Vincenzo, Sturiale Eugenio e Musumeci Gaetano;
che, in particolare, Russo Franco – fratello di Russo Mario – e Musumeci Michele
hanno riconosciuto l’indagato fotograficamente e lo hanno inserito fra gli
elementi di spicco dell’organizzazione mafiosa, della quale, dopo la sua
scarcerazione avvenuta nel marzo 2011, a causa della concomitante detenzione
dei fratelli Di Stefano, Russo aveva assunto la reggenza (v. pagine 2 e seguenti
dell’ordinanza impugnata); che il collaboratore di recente dissociazione Angrì Ugo
Rosario ha confermato la sfera d’influenza di Russo Mario nella zona di Librino, il
suo rapporto di subalternità rispetto a Stefano Carmelo e la gestione da parte di
Russo Mario della piazza di spaccio di viale Moncada (v. pagina 3). In risposta
alle doglianze mosse dalla difesa, il Tribunale ha notato come non vi sia nessun
dubbio quanto alla credibilità ed attendibilità dei collaboratori di giustizia (v.
pagine 5 e 6) e come la lettura offerta dalla difesa delle chiamate in correità dai
collaboranti risulti forzata, atomistica e talvolta tesa di evidenziare contraddizioni
ed incongruenze in effetti inesistenti (v. pagine 6 e seguenti).
Sul fronte cautelare, il Tribunale ha ritenuto operante la presunzione
prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., sicché in mancanza di elementi
favorevoli di segno contrario, la pericolosità è presunta ed è comunque
confermata dall’accertata appartenenza del Russo anche in epoca recente al
sodalizio mafioso e dai numerosi e gravi precedenti penali e carichi pendenti per
reati di mafia, di talché il pericolo di reiterazione criminosa risulta fronteggiabile
con la sola custodia in carcere.
2. Avverso l’ordinanza ha presentato ricorso ex art. 311 cod. proc. pen.
l’Avv. Salvatore Pappalardo, difensore di fiducia di Russo Mario, e ne ha chiesto
l’annullamento per i seguenti motivi:

2

d.P.R. n. 309/1990 e 7 L. n. 203/1991, commesso dal 2008 al 2012 (capo B). A

2.1. erronea interpretazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della
motivazione in relazione all’art. 416-bis cod. pen., laddove il quadro indiziario
della partecipazione dell’assistito all’associazione mafiosa si fonda sulle
dichiarazioni rese dal collaboratore Musomeci Michele, perlopiù de relato, prive di
riscontri adeguati nonché smentite dal tenore delle lettere di Russo Franco;
evidenzia ancora il ricorrente che le dichiarazioni rese da quest’ultimo sono del
tutto prive di valore probatorio, atteso che questi gestiva la piazza di spaccio al
Librino, non come appartenente al clan dei “Cursoti Milanesi”, ma in via

partecipazione di Russo Mario alla consorteria criminale;
2.2. mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 73
d.P.R. n. 309/1990;
2.3. mancanza o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 7
L. C. 203/1991.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia rigettato.
4. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
5. In via preliminare, mette conto evidenziare come tutte le doglíanze
mosse nel ricorso si connotino per l’estrema genericità, soprattutto il secondo ed
il terzo motivo, laddove il ricorrente non ha circostanziato le ragioni di fatto e di
diritto per le quali dovrebbero ritenersi fondate le dedotte violazioni di legge e
vizi argomentativi. Genericità delle censure che riverbera di per sé in termini di
inammissibilità del ricorso, laddove i motivi di ricorso in cassazione devono
essere specifici e quindi, pur nella libertà della loro formulazione, devono
indicare con chiarezza le ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano le censure,
al fine di delimitare con precisione l’oggetto del gravame ed evitare, di
conseguenza, impugnazioni generiche o meramente dilatorie (Cass. Sez. 6, n.
1770 del 18/12/2012, P.G. in proc. Lombardo, Rv. 254204).
6. Sotto diverso profilo, va evidenziato che le doglianze sviluppate nel primo
motivo di censura si connotano per la prospettazione di una lettura alternativa
delle emergenze delle indagini, segnatamente delle dichiarazioni dei collaboratori
di giustizia e, quindi, della ritenuta intraneità del prevenuto nella societas
sceleris. Si tratta nondimeno di argomentazioni che si pongono in confronto
diretto con il materiale probatorio e che in effetti non denunciano nessuno dei
vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. E), cod. proc.
pen., il che, secondo il costante orientamento di questa Corte, rende
inammissibile il ricorso per cassazione ( Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, P.C.,
Basile e altri, Rv. 258153). Ed invero, a fronte di una plausibile ricostruzione
della vicenda, come descritta in narrativa, e dei precisi riferimenti probatori
operati dal giudice di merito, in questa sede, non è ammessa alcuna incursione
3

autonoma; in ogni caso, le dichiarazioni sono generiche quanto alla

nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti,
dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto
dal giudice di merito per verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici
ictu ocu/i percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della
motivazione alle acquisizioni processuali (ex plurimis

Sez. U, n. 47289 del

24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
7.

D’altronde, nessuna irragionevolezza si evince

dall’iter

logico

argomentativo sviluppato dal Tribunale del riesame che ha attentamente

ragioni per le quali esse debbano ritenersi intrinsecamente attendibili e
reciprocamente riscontrate e dunque utili a fondare il giudizio di gravità indiziaria
in ordine alle imputazioni provvisorie poste a fondamento del titolo cautelare (v.
pagine 2 e seguenti dell’ordinanza in verifica).
Ritualmente, il Giudice della impugnazione ha ritenuto le propalazioni dei
collaboratori reciprocamente riscontrate laddove, secondo il consolidato
insegnamento di questo Corte, i riscontri esterni della chiamata in correità
possono essere ricavati anche da una pluralità di chiamate convergenti; il
requisito della convergenza tuttavia non va inteso come piena sovrapponibilità
delle diverse chiamate (che sarebbe, oltretutto, sospetta), ma come concordanza
dei nuclei essenziali delle dichiarazioni, in relazione al

thema decidendum,

dovendo piuttosto il giudice verificare che tale consonanza non sia frutto di
condizionamenti, collusioni e reciproche influenze (Sez. 5, n. 9001 del
15/06/2000 – dep. 10/08/2000, Madonia A ed altri, Rv. 217729).
8. Ineccepibile è la motivazione svolta dal Tribunale catanese in punto di
esigenze cautelari e di misura più adeguata a farvi fronte, comunque non
oggetto di ricorso e dunque incensurabile in questa Sede.
9.

Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma

dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento
delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene

congruo determinare in 1.000,00 euro.

disaminato le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia ed esplicitato le

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della cassa delle
ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp.
att. cod. proc. pen.

Il consigliere estensore

Il Presidente

Così deciso in Roma il 9 luglio 2015

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