Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36364 del 20/05/2015


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 36364 Anno 2015
Presidente: SQUASSONI CLAUDIA
Relatore: DI NICOLA VITO

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Mancuso Giuseppe Salvatore, nato a Vibo Valentia il 22/02/1989
Burzì Giovanni, nato a Cinquefrondi il 07/01/1990
avverso la ordinanza del 13/08/2014 del tribunale della liberà di Reggio Calabria;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Giuseppe Corasaniti che ha
concluso per il rigetto dei ricorsi;
Udito per il ricorrente l’avv. Valerio Spigarelli che ha concluso per l’accoglimento
del ricorso;

Data Udienza: 20/05/2015

RITENUTO IN FATTO

1. Giuseppe Salvatore Mancuso e Giovanni Burzì ricorrono personalmente
per cassazione impugnando l’ordinanza indicata in epigrafe con la quale il
tribunale della libertà di Reggio Calabria ha confermato la pronuncia emessa dal
Gip presso il medesimo tribunale nei confronti del primo ed ha riformato il
provvedimento impugnato nei confronti del secondo, sostituendo la misura degli
arresti domiciliari disposta dal Gip con riferimento al capo o) della rubrica con

I ricorrenti risultano indagati (capo i) del reato previsto dall’articolo 74,
commi 1, 2, 3 e 4, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 per avere partecipato ad una
organizzazione per delinquere finalizzata al sistematico illecito acquisto,
detenzione, trasporto, rivendita di sostanza stupefacente del tipo “hascisc” e
“cocaina” che veniva acquistata soprattutto dal Marocco e dall’Albania ma anche
da appartenenti alla ‘ndrina Mancuso di Limbadi e rivenduta in Roma e comuni
viciniori, mantenendo, segnatamente, le seguenti condotte: entrambi,
unitamente ad altri correi, sono accusati di avere approvvigionato la ‘ndrina Molè
di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti, tra hascisc e cocaina,
occupandosi della loro introduzione sul territorio nazionale ed affidandoli alla
citata ‘ndrina deputata del loro successivo trasferimento sulla capitale.
Per il suddetto reato, il Gip ha escluso che, con riferimento al Burzì, fossero
configurabili i gravi indizi di colpevolezza.
Entrambi sono accusati altresì del reato previsto dall’articolo 73 d.p.r. 309
del 1990 (capi o, p e q) per Mancuso e capo o) per il solo Burzì.

2.

Per la cassazione dell’impugnata ordinanza i ricorrenti sollevano i

seguenti motivi, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 disposizione di attuazione
codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Giuseppe Salvatore Mancuso affida il gravame a sette motivi, dei quali il
primo ed il terzo comuni a quelli sollevati anche da Giovanni Burzì.
2.1.1. Con il primo motivo dei rispettivi ricorsi il Mancuso e il Burzì deducono
la violazione della legge processuale in relazione agli articoli 8 e seguenti, 27
codice di procedura penale in tema di competenza per territorio sia sotto il
profilo della violazione di legge che per difetto di motivazione (articolo 606,
comma 1, lettere c) ed e), codice di procedura penale).
In sostanza, assumono che il reato più grave, che è stato loro contestato in
via cautelare, sarebbe quello di cui al capo i) della rubrica, ossia l’associazione
per delinquere finalizzata al traffico delle sostanze stupefacenti, reato associativo
che sarebbe stato consumato in Roma e zone limitrofe, con la conseguenza che

quella dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

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sarebbe errata la individuazione della competenza per territorio presso l’autorità
giudiziaria di Reggio Calabria.
2.1.2. Con il secondo motivo il Mancuso lamenta la violazione della legge
penale e il difetto di motivazione in relazione all’articolo 74 d.p.r. 309 del 1990
sul rilievo della mancanza di un’idonea prova cautelare circa la sua
partecipazione ad un presunto gruppo criminale dedito al traffico di sostanze
stupefacenti (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura
penale).

prospettano la violazione della legge penale e difetto di motivazione con
riferimento al capo o) della rubrica (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e),
codice di procedura penale).
2.1.4. Con il quarto motivo il Mancuso lamenta violazione della legge penale
e difetto di motivazione con riferimento al capo p) della rubrica (articolo 606,
comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
2.1.5. Con il quinto motivo il Mancuso deduce violazione della legge penale e
difetto di motivazione con riferimento al capo q) della rubrica (articolo 606,
comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
2.1.6. Con il sesto motivo il Mancuso prospetta violazione della legge penale
e difetto di motivazione in relazione alla sussistenza dell’aggravante mafiosa
all’articolo 7 della legge 203 del 1991 contestata al capo i) della rubrica (articolo
606, comma 1, lettere b) ed e), codice di procedura penale).
2.1.7. Con il settimo motivo il Mancuso deduce violazione di legge
processuale e difetto di motivazione in relazione all’articolo 275 codice di
procedura penale sulla sproporzione della misura applicata suoi riguardi, anche
alla luce della sentenza della Corte costituzionale del 22 luglio 2011 n. 231
(articolo 606, comma 1, lettere c) ed e), codice di procedura penale).

3. Per il tramite del difensore di fiducia Giuseppe Salvatore Mancuso ha
proposto due nuovi motivi, qui parimenti enunciati, ai sensi dell’articolo 173
disposizione di attuazione codice di procedura penale, nei limiti strettamente
necessari per la motivazione.
3.1. Con il primo motivo nuovo, speculare al primo motivo di ricorso, il
ricorrente deduce la violazione degli articoli 8 e 16 del codice di procedura
penale, eccependo l’incompetenza per territorio determinata da connessione del
giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria che ha emesso l’ordinanza
di custodia cautelare nonché l’omessa rilevazione dell’incompetenza da parte del
tribunale della libertà nonostante la stessa fosse stata specificamente dedotta in
sede di riesame (articolo 606, comma 1, lettere c) ed e), codice di procedura
penale).

3

2.1.3. Con il terzo motivo, il secondo proposto anche dal Burzì, i ricorrenti

3.2. Con il secondo motivo nuovo lamenta la carenza e la manifesta illogicità
della motivazione (articolo 606, comma 1, lettera e), codice di procedura penale)
in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine ai
capi di imputazione di cui alle lettere i), o), p) e q).

CONSIDERATO IN DIRITTO

2. Le doglianze mosse nei confronti del provvedimento impugnato nella
parte in cui ha disatteso l’eccezione di incompetenza territoriale rivestono
carattere preliminare rispetto ai restanti motivi e vanno pertanto
preliminarmente esaminate.
Si sostiene che due sarebbero gli argomenti utilizzati dai giudici cautelari per
affermare la competenza del tribunale reggino e cioè l’asserito, “storico”,
radicamento territoriale della cosca Molè nel territorio della piana di Gioia Tauro
ed inoltre la circostanza che almeno una parte dell’attività di
approvvigionamento di sostanze stupefacenti, che sarebbe stata
commercializzata in Roma dal sodalizio, sarebbe avvenuto in territorio calabrese
e, in particolare, attraverso lo sfruttamento del cosiddetto “canale vibonese”.
Si premette poi che l’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico,
così come contestata, costituisce fattispecie delittuosa più grave rispetto
all’associazione di stampo mafioso e al pari di quest’ultima rientra nel novero dei
reati compresi nella lista di cui all’articolo 51, comma 3 bis, codice di procedura
penale, con la conseguenza che, in ogni caso, la vis attractiva con riferimento ai
reati connessi sarebbe operata dall’articolo 74 d.p.r. n. 309 del 1990 e non
invece dall’articolo 416 bis codice penale.
Si osserva quindi come gli stessi giudici cautelari avessero rimarcato la netta
discontinuità – tanto sotto il profilo logistico-organizzativo, che degli altri
interessi economico-criminali perseguiti – segnata dal conflitto con il clan
precedentemente alleato, Piromalli, sfociato nell’omicidio – avvenuto agli inizi del
2008 – di Rocco Molè, vale a dire dell’unico esponente di vertice del relativo
gruppo criminale in libertà all’epoca dei fatti, evento che avrebbe segnato un
punto di netta cesura nella vita dell’organizzazione criminale, comportando – su
indicazione impartita dal carcere dal capo indiscusso del sodalizio, nella persona
di Girolamo Molè – il trasferimento (nell’ordinanza impugnata si parla addirittura
di “diaspora dei Mole da Gioia Tauro”) della sede organizzativa e delle principali
attività nella città di Roma, lontano territorio calabrese dove la superiorità
militare della cosca rivale avrebbe posto a repentaglio la stessa sopravvivenza
dei Molè.
4

1. I ricorsi sono infondati.

Da tutto ciò, si trae argomento per sostenere, anche in applicazione
della disciplina che regola la competenza per territorio determinata dalla
connessione (articolo 16 codice di procedura penale), che la competenza ratione
loci

apparterrebbe all’autorità giudiziaria romana, posto che in Roma

l’associazione avrebbe inizialmente operato ed in tale luogo si sarebbe
manifestato anche il potere di condizionamento e di intimidazione derivante
dall’esercizio del metodo mafioso promanante dalla forza del vincolo
organizzativo.

luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, tale luogo dovrebbe essere
individuato in quello in cui la compagine è venuta ad esistenza e si è manifestata
mediante la predisposizione degli accorgimenti organizzativi preordinati a
garantire la possibilità che la stessa raggiungesse il suo gri scopi’ e, sotto tale
profilo, in Roma deve essere individuato il luogo di costituzione e di principale
operatività dell’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, la sede del
vertice organizzativo della medesima, nonché la principale piazza
commercializzazione delle sostanze psicotrope reperite attraverso i canali
calabrese, marocchino (attraverso letotte iberiche e francesi) e balcanico.
Peraltro dagli atti processuali significativamente risulta che nella città di
Roma risiede ed opera stabilmente l’intera catena di comando dell’organizzazione
dedita al narcotraffico, sicché la città di Roma rappresenterebbe non soltanto la
%-t
destinazione di tutti i trasporti di stupefacenti ma anche ci—fra-Fe luogo di
commercializzazione delle sostanze ed in Roma risiede quindi la sede operativa
dell’organizzazione, nonché il luogo di ricovero dei principali sodali.

3. Le osservazioni difensive, per quanto in massima parte giuridicamente
corrette nell’impostazione, non possono essere accolte nelle conclusioni per le
seguenti ragioni.
Il tribunale cautelare ha rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale sul
fondamentale rilievo che proprio il territorio di Gioia Tauro aveva rappresentato
la base sia della costituzione dell’organizzazione mafiosa che di quella dedita al
traffico delle sostanze stupefacenti e quest’ultima attività era intimamente
connessa alla ‘ndrina Molé che, nel territorio di Gioia Tauro e paesi limitrofi,
aveva radicato da tempo la sua base operativa di accantonamento dello
stupefacente e, all’esito della raccolta, provvedeva, in un secondo momento, alla
sua movimentazione verso il lucroso mercato romano e dei centri limitrofi,
conseguendo da ciò la competenza territoriale del tribunale reggino per essersi
svolte nel territorio di Gioia Tauro la programmazione e l’ideazione dei sodalizi,
ivi concentrandosi la direzione delle attività criminose facenti capo ai sodalizi
stessi.

5

Ne consegue che, dovendosi la competenza per territorio individuare nel

Va detto che il motivo di ricorso non trascura la predetta circostanza ma
omette tuttavia di trarne le logiche conseguenze, fornendo scarso rilievo
all’attività di ricostituzione, a latere della già esistente associazione di tipo
mafioso, di una associazione abbastanza strutturata e dedita al traffico delle
sostanze stupefacenti, come attività non dismessa quanto piuttosto da
rivitalizzare, sebbene ex novo, dovendo gli introiti derivanti dai lucrosi traffici
della droga servire in particolare anche da provvista finanziaria per il
potenziamento dell’associazione mafiosa al fine di rafforzarla sul territorio di

provvedimento impugnato, la cosca aveva l’esigenza di riorganizzare le strategie
criminali in conseguenza dell’omicidio di Rocco Molè (l’unico libero tra i fratelli e
posto al comando del sodalizio criminale, storicamente radicato nel territorio
calabrese).
Sotto tale aspetto, l’ordinanza impugnata (pagine 9 ss.) chiarisce come il
traffico delle sostanze stupefacenti fosse un’attività illecita che storicamente
rappresentava uno dei canali di approvvigionamento della ‘ndrina, derivando da
ciò che i Molè erano sempre stati interessati, unitamente alla famiglia di
‘ndrangheta dei Mancuso di Limbadi, all’organizzazione e alla gestione del
predetto traffico.
Il tribunale cautelare ha dato anche atto che, sebbene i Molè (per
disposizione di Girolamo Molè all’epoca detenuto nel carcere di Secondigliano di
Napoli) si fossero allontanati temporaneamente dalla Calabria, essi avevano
sempre mantenuto la base dei propri interessi in Gioia Tauro, anche con
riferimento al settore dello spaccio degli stupefacenti, tant’è che sono state
costanti le contrattazioni di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente
(contrattazioni monitorate dalle intercettazioni che hanno dato conto di centinaia
di chili soprattutto cocaina ed hashish) proveniente da ben tre differenti canali di
approvvigionamento: i Balcani, il Marocco (per il tramite della Spagna e della
Francia) ed il canale “vibonese” (per il tramite della famiglia Mancuso di Limbadi)
per assicurarsi un flusso costante di stupefacenti.
Infatti, rifornitisi dello stupefacente, gli associati provvedevano a smerciarlo
ad una prima rete di spacciatori operanti in Roma e zone limitrofe che
acquistavano quantitativi considerevoli e che provvedevano a loro volta a
rivendere ad un secondo livello di spacciatori (pag. 11 dell’ordinanza impugnata).
Con riguardo poi alle forniture provenienti da Vibo Valentia, il Collegio
cautelare ha spiegato come i due sodalizi avessero tra loro interagito per il
tramite dei loro uomini di fiducia, sostanzialmente ripercorrendo un passaggio
appartenente alla loro storia e dunque consolidato sul presupposto che la cosca
dei Molè, nella sua articolazione dedita al traffico di stupefacenti, agiva in
sinergia con quella dei Mancuso di Limbadi (altra famiglia storica di ‘ndrangheta,
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competenza (piana di Gioia Tauro) in quanto, come risulta dal testo del

legata da vincoli decennali con i Molè proprio e soprattutto nello specifico settore
del traffico degli stupefacenti).

4. Sicché l’affermazione del ricorrente – secondo la quale l’associazione
dedita al narcotraffico, a differenza di quella mafiosa, sarebbe stata costituita e
sarebbe perciò operante nel Lazio – si connota, nella sua non condivisibile
articolazione, per il fatto di sorvolare, pur menzionandola, su di una
fondamentale circostanza storico – fattuale costituente la ratio essendi della

un’attività storica della cosca calabrese, radicata al pari dell’associazione di
‘ndragheta nel reggino, territorio nel quale, nonostante la guerra di mafia
culminata nell’omicidio di Rocco Molè, la cosca conservava la signoria sul
territorio ed intendeva riconsolidarla, rispondendo agli attacchi della cosca
avversa e contando sull’appoggio di una cosca alleata (i Mancuso di Limbadi),
tant’è che era sul territorio oggetto del controllo mafioso che, secondo le
risultanze investigative desunte dal testo dell’ordinanza impugnata, la droga
perveniva nella disponibilità dell’organizzazione che la riceveva dai tre canali di
rifornimento, la occultava e provvedeva a commercializzarla nel Lazio.
Sebbene la giurisprudenza di questa Corte non abbia adottato decisioni
sempre conformi circa la determinazione del momento consumativo del reato
associativo (l’inizio della consumazione), operazione necessaria per individuare la
competenza per territorio, privilegiando talvolta il momento del luogo in cui
l’associazione ha iniziato concretamente ad operare (Sez. 3, n. 24263 del
10/05/2007, Violini, Rv. 237333; Sez. 1, n. 45388 del 07/12/2005, Saya, Rv.
233359; Sez. 6, n. 3067 del 04/10/1999, P.M. e Piersanti N., Rv. 214944)
oppure quello in cui hanno avuto luogo la programmazione, l’ideazione e la
direzione dell’associazione (Sez. 1, n. 17353 del 09/04/2009 Confl. comp, in
proc. Antoci. Rv. 243566; Sez. 2, n. 22953 del 16/05/2012, Tempestilli ed altro,
Rv. 253189; Sez. 2, n. 19177 del 15/03/2013, Vallelonga Rv. 255829) ovvero
ancora quello in cui l’associazione si è costituita, coincidente secondo alcune
pronunce riconducibili a tale filone con il luogo di perfezionamento del pactum
sceleris per la costituzione del sodalizio (Sez. 4, n. 35229 del 07/06/2005,
Mercado Vasquez, Rv. 232081; Sez. 1, n. 600 del 07/02/1991, P.M. in proc.
Mulas, Rv. 186709; Sez. 6, n. 3784 del 06/10/1994, dep. 07/04/1995, Celone
ed altri, Rv. 201849), va osservato come la giurisprudenza di legittimità abbia
prevalentemente fatto leva, anche nella maggior parte delle decisioni richiamate,
su criteri misti aventi un comune denominatore che può essere riassunto nel
principio secondo il quale, per la consumazione del reato associativo, occorre che
si realizzi un minimum di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria
per la sussistenza del reato, con la conseguenza che il modello legale è integrato
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decisione impugnata ossia che l’organizzazione dedita al narcotraffico costituiva

quando, a seguito del pactum sceleris, viene alla luce una organizzazione
permanente di intenti delittuosi e di azione criminosa (anche esile e rudimentale,
per talune fattispecie associative), quale risultato dell’accordo stipulato dagli
associati (tre o più persone), in quanto solo con la creazione di una struttura
permanente volta alla commissione di una serie indeterminata di reati
l’associazione diviene operativa e si realizza la situazione di pericolo per
l’interesse tutelato dalla norma che giustifica l’incriminazione, nascendo il
pericolo di lesione dell’interesse penalmente tutelato.

un minimum di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria per la
sussistenza del reato coincide con quello in cui sono programmate, ideate e
dirette le attività dell’associazione ovvero nel luogo in cui si esteriorizza
l’associazione attraverso l’esecuzione dei delitti programmati, in tal modo
manifestandosi e realizzandosi, secondo un criterio di effettività, l’operatività
della struttura e quindi della societas sceleris.
Nel caso di specie, sia il criterio nozionistico di definizione dell’inizio della
consumazione del reato associativo e sia il criterio di effettività, che costituisce
normalmente indice di rilevabilità del luogo di consumazione, depongono nel
senso che anche l’associazione dedita al narcotraffico deve ritenersi radicata nel
territorio storico di appartenenza della cosca sia perché si tratta di un’attività
abitualmente praticata in quei luoghi, sia perché in quei luoghi avveniva
l’approvvigionamento della droga (l’acquisto e l’importazione dall’estero
necessitava in loco di una struttura di uomini e di mezzi necessari per coordinare
e governare l’attività di raccolta) e sia perché la commercializzazione in territorio
laziale rappresentava un posterius delle due significative e precedenti fasi.
Ne consegue l’infondatezza dei motivi dei rispettivi ricorsi.

5. Il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo nonché il secondo motivo
nuovo del ricorso Mancuso ed il secondo motivo del ricorso Burzì possono essere
congiuntamene esaminati perché tra loro collegati.
Con essi il Mancuso si duole del fatto che il tribunale cautelare avrebbe
erroneamente ritenuto integrata la fattispecie cautelare associativa sotto il
profilo della gravità indiziarla in assenza di significativi elementi circa la sua
partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico facente capo ai Molè (capo
i) e circa i contestati episodi di cessione diretti ad approvvigionare, secondo
l’impostazione accusatoria,. I.€ casca 314eata (capi o, p e q), doglianza parimenti
sollevata dal Burzì che risponde del reato di cui al capo o) in concorso con il
Mancuso.
Le doglianze sono palesemente inammissibili in quanto – con motivazione
adeguata e priva di vizi logici, come tale, insuscettibile di sindacato di legittimità
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Di regola, il luogo in cui si scorge una struttura che sia in grado di assicurare

- il tribunale cautelare, riportando e richiamando il contenuto delle
intercettazioni, ha tratto il logico convincimento, desunto dal riscontro
processuale dei datati rapporti amicali ed affaristici tra i vertici “operativi” delle
due ‘ndrine, circa la partecipazione del Mancuso al reato associativo per aver egli
fornito un notevole contributo alla cosca alleata, costituendo la sua
organizzazione vibonese un canale di approvvigionamento di ingenti quantitativi
di sostanze stupefacenti dirette alla cosca dei Molè, dopo la loro introduzione nel
territorio dello Stato, materializzandosi le condotte nelle tre vicende oggetto

I controlli sul territorio, eseguiti dalle forze di polizia, avevano infatti
permesso di individuare i soggetti che affiancavano Giuseppe Salvatore Mancuso
nelle operazioni di narcotraffico, primo fra tutti Dominic Signoretta nonché
Arcangelo Furfaro (organico ai Molé) e lo stesso Rocco Molè.
Il primo (Dominic Signoretta) – cui faceva rifermento, per quanto qui
interessa, il Burzì – era direttamente “dipendente” dal Mancuso.
Dal testo del provvedimento impugnato si evince che le attività tecniche
hanno comprovato come il Mancuso fosse l’assoluto dominus delle operazioni del
gruppo a lui facente capo per il rifornimento vibonese al gruppo pianota,
venendo costantemente aggiornato sullo stato delle attività e impartendo le
relative disposizioni.
Le conversazioni, il cui contenuto è stato riportato nell’ordinanza impugnata
(pagine 13 e seguenti) secondo una scansione cronologica idonea a ricollegarle
ai singoli capi (o, p e q) delle provvisorie imputazioni, risultano emblematiche
tanto del ruolo sovraordinato svolto dal Mancuso, quanto del coinvolgimento dei
predetti soggetti (per quanto qui interessa, il Burzì in relazione al capo o) nei
traffici in questione, come comprovato dall’uso di termini “in codice” quali
“documenti”, “fattura “, “commercialisti”, decifrati dagli investigatori, ed utilizzati
per indicare alternativamente lo stupefacente, il denaro contante ed i soggetti
interessati.
Alla stregua di tali considerazioni, deve ritenersi corretto l’approdo cui è
giunto il tribunale cautelare che non è suscettibile di diverso apprezzamento
come solleciterebbero i ricorrenti sulla base di una interpretazione alternativa del
contenuto delle conversazioni non competendo al giudice di legittimità, in
presenza di una motivazione esente da profili di illogicità manifesta, di procedere
ad una rilettura del materiale probatorio.

6. Il sesto motivo non è fondato.
Con esso il ricorrente afferma che, in ordine agli addebiti mossi a suo
carico, non emerge alcuna condotta di agevolazione della cosca né sotto il profilo

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della contestazione cautelare (ai capi o, p e q della rubrica).

della condotta materiale, né tantomeno con riguardo al profilo psicologico di
rafforzamento dell’altrui proposito criminoso.
Sostiene il ricorrente che la motivazione dell’ordinanza impugnata sarebbe in
parte qua del tutto carente in ordine all’aggravante mafiosa “soggettiva”
ascrittagli posto che la stessa risulta praticamente inesistente, essendosi il
giudice cautelare limitato ad affermare apoditticamente che il sodalizio avrebbe
“indubbiamente favorito le attività della cosca” senza specificare quale possa
essere stata la condotta di agevolazione da parte del Mancuso e, prima ancora,

Le osservazioni del ricorrente sono corrette in diritto ma eccentriche e
decontestualizzate rispetto al fatto, così come ricostruito e ritenuto provato dai
giudici cautelari.
Sotto il profilo c.d. dell’agevolazione mafiosa, l’aggravante cd. privilegiata
prevista dall’art. 7, comma 1, d.l. 13 maggio 1991, n. 152 convertito in legge 12
luglio 1991, n. 203, in quanto incentrata su una particolare motivazione a
delinquere desumibile dalla direzione finalistica della condotta, configura, una
circostanza soggettiva, a differenza dell’uso del metodo mafioso che invece si
connota per il carattere oggettivo dell’aggravante incentrata più sulle modalità di
realizzazione dell’azione criminosa.
Su entrambi i versanti, deve ritenersi che la detta circostanza aggravante è
applicabile in quanto conosciuta o ignorata per colpa o ritenuta insussistente per
errore determinato da colpa (art. 59 cod. pen.), mentre esclusivamente la
circostanza di natura oggettiva si comunica ai concorrenti nel delitto anche
quando questi ultimi non siano consapevoli della finalizzazione dell’azione
delittuosa a vantaggio di un’associazione di stampo mafioso, ma versino in una
situazione di ignoranza colpevole, a differenza dell’agevolazione mafiosa che,
come tale, non si estende agli eventuali concorrenti ai sensi dell’art. 118 cod.
pen.
Va segnalato sul punto che il contrasto con la sentenza Buonanno di questa
Corte (Sez. 2, n. 3428 del 20/12/2012, dep. 23/01/2013, Buonanno ed altro, Rv.
254776) è solo apparente perché nella richiamata pronuncia era contestato l’uso
del metodo mafioso e dunque la versione oggettiva dell’aggravante de qua.
Ciò che appare certo è che la finalità agevolatrice, perseguita dall’autore del
delitto, deve essere oggetto di rigorosa verifica in sede di formazione della prova
cautelare o penale, avendo questa Corte affermato che, in tal caso, l’aggravante
di cui al citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di
agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica necessariamente
l’esistenza reale e non più semplicemente supposta di questa, essendo
impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un’entità solo
immaginaria. Ne discende, come insopprimibile conseguenza, che nella fase del

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la sua consapevolezza di agire in favore di una cosca.

giudizio il giudice, per la certa configurabilità dell’aggravante, deve dimostrare
anche l’esistenza dell’associazione agevolata, mentre, nella fase delle indagini
preliminari, ai fini dell’eventuale applicazione di misure cautelari, è sufficiente la
prova dell’elevata probabilità dell’esistenza dell’associazione suddetta (Sez. 1, n.
1327 del 18/03/1994, Torcasio ed altro, Rv. 197430).
Ciò posto, il tribunale cautelare si è ampiamente attenuto a tali principi
perché – al cospetto di una storica alleanza tra cosche (Mancuso di Limbadi Molè), desunta anche da significativi precedenti giudiziari indicati nell’ordinanza

operativa della cosca agevolata di contare sul canale vibonese per
approvvigionarsi di ingenti quantità di stupefacenti per rafforzare il potere
criminale mafioso nel territorio di propria competenza – la consapevolezza da
parte del capo di una cosca agevolatrice, anche comprovata dalla diretta
partecipazione all’associazione dedita al narcotraffico, quale esponente apicale
del proprio gruppo criminale di riferimento, per effetto anche della diretta
partecipazione ai reati commessi per approvvigionare l’associazione partecipata,
può ritenersi, con un alto grado di probabilità logica, sussistente o comunque
colposamente ignorata.
Peraltro, la circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 7 del
D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con mod. dalla legge 12 luglio 1991, n. 203,
è configurabile anche nel caso in cui l’agente persegua l’ulteriore scopo di trarre
un vantaggio proprio dal fatto criminoso, purché ad esso si accompagni la
consapevolezza, nella specie sussistente, di favorire l’interesse della cosca
beneficiata (Sez. 5, n. 11101 del 04/02/2015, Platania ed altri, Rv. 262713).

7. Il settimo motivo è inammissibile per genericità della censura.
Il ricorrente deduce che, ai fini della formulazione del giudizio di
adeguatezza cautelare, il tribunale territoriale non ha tenuto conto della
giurisprudenza costituzionale che ha sostanzialmente trasformato la presunzione
cautelare da assoluta a relativa e neppure avrebbe tenuto conto
dell’incensuratezza e della giovane età del ricorrente, dolendosi di un difetto di
motivazione in tal senso.
Questa Corte, sulla scia del dictum della Corte costituzionale, ha affermato
che (Sez. 3, n. 1488 del 10/12/2013, dep. 15/01/2014, A., Rv. 258017) i reati i quali, come quello di specie, sono stati coinvolti dalla declaratoria di
incostituzionalità, che ha attinto in parte qua l’art. 275 , comma 3, cod. proc.
pen. – restano comunque sottoposti ad un regime cautelare speciale, affievolito
dalla natura relativa, e quindi vincibile, della presunzione di adeguatezza della
custodia carceraria e, solo in tali sensi, costituzionalmente compatibile in quanto

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impugnata, neppure specificamente censurati, e in presenza di una necessità

semplicemente idonea a realizzare una semplificazione del procedimento
• probatorio in materia di adeguatezza cautelare.
Sicché, comportando una indubbia semplificazione del procedimento
probatorio, le presunzioni,

in subiecta materia,

incidono profondamente

sull’obbligo di motivazione, particolarmente pressante e costituzionalmente
imposto nella materia riguardante le limitazioni della libertà personale in senso
stretto, con la differenza che, mentre le presunzioni assolute non ammettono la
prova del contrario depotenziando, al massimo grado possibile, l’obbligo della

viceversa le presunzioni relative ammettono la prova contraria, avendo il giudice
l’obbligo di spiegare, quantomeno al cospetto di allegazioni difensive, le ragioni
per le quali il fatto costitutivo della restrizione o delle specifiche modalità
esecutive di essa non sia suscettibile di essere modificato o estinto da altri
specifici fatti.
Ne consegue che le presunzioni relative possono essere vinte anche ex
officio allorquando dal corredo processuale il giudice rilevi l’esistenza di specifici
fatti che consentono di escludere le esigenze cautelari (prima presunzione
relativa prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.) o consentono che le
stesse possano essere salvaguardate con misure diverse dalla custodia in carcere
(seconda presunzione relativa prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc.).
Pertanto, qualora il giudice di merito non ritenga di poter superare la
presunzione relativa, su di lui incombe solo l’obbligo di dare atto dell’inesistenza
di elementi idonei a vincere tale presunzione; tuttavia l’obbligo di motivazione è
imposto e diventa più oneroso (Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, Rv.
199387) nell’ipotesi in cui l’indagato o la sua difesa abbiano evidenziato elementi
idonei a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari e/o abbiano allegato, o
anche solo dedotto l’esistenza ex actis di elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte
con altre misure.
Nella specie, il tribunale cautelare ha affermato come non siano stati offerti
dalla difesa elementi che facessero fondatamente ritenere che l’indagato avesse
rescisso i legami con l’associazione mafiosa di appartenenza ovvero con
l’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, motivazione non attinta
da alcuna specifica doglianza, derivando da ciò l’inammissibilità de motivo.

8. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento dlle
spese processuali.

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motivazione, per essere l’effetto giuridico prodotto direttamente dalla legge,

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Dispone, per il Mancuso, che copia del presente provvedimento sia
trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario competente, a norma dell’art.
94, comma 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.

Così deciso il 20/05/2015

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