Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36254 del 02/07/2015


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 36254 Anno 2015
Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE
Relatore: GRASSO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CALIA NUNZIO N. IL 25/09/1964
avverso l’ordinanza n. 58/2014 CORTE APPELLO di VENEZIA, del
23/09/2014
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
lette/le conclusioni del PG Dott.

62ce,Gb

e

j

Data Udienza: 02/07/2015

FATTO E DIRITTO

1. Calia Nunzio ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza
della Corte di Appello di Venezia depositata il 27/10/2014, con la quale venne
liquidata in favore del medesimo la somma di C. 13.924,00, per l’ingiusta
detenzione subita, dal 29/9/2002 al 25/10/2002 in regime di custodia cautelare
in carcere, e, dal 26/10/2002 al 28/12/2002, in regime di arresti domiciliari, con
l’accusa di aver fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata alla
commissione di reati contro il patrimonio, nonché di aver concorso nella

2. Il ricorrente con l’unico esposto motivo denunzia vizio motivazionale
in ordine alla quantificazione dell’indennizzo.
Secondo l’assunto impugnatorio la Corte veneta, senza avere esplicitato i
parametri utilizzati per giungere alla determinazione quantitativa dell’indennizzo,
aveva, tuttavia, dato mostra di aver evocato criteri equitativi del tutto incongrui,
senza tener conto delle gravi conseguenze personali derivate al ricorrente
dall’ingiusta restrizione, enfatizzate smodatamente dai mezzi di stampa, i quali
avevano anche fatto largo uso della fotografia del medesimo, screditandolo
pesantemente agli /della collettività. Inoltre, non corrispondeva al vero che i
danni evidenziati derivavano anche da atri procedimenti (uno riguardante misura
di prevenzione ed altro altra misura cautelare), in quanto dagli atti prodotti era
agevole rendersi conto che, in definitiva, si trattava di una sola vicenda e che gli
atti avevano subito uno stralcio. Non era, ancora, vero che i dati attraverso i
quali si era inteso provare il danno patrimoniale patito dall’attività economica del
ricorrente non erano verificabili, in quanto era stata offerta alla Corte di merito
amplissima documentazione, di fatto rifiutata, e, comunque, questa avrebbe ben
potuto affidare ad un CTU il vaglio della documentazione in parola e le
valutazioni tecniche del caso. Del pari inascoltata era rimasta la denunzia di seri
pregiudizi alla salute derivati dalla privazione della libertà e dalla perdita della
reputazione sociale (recidivante stato depressivo). Infine, era andato dimenticato
che a cagione della gravità dell’accusa mossa il Calia aveva sofferto un grave
pregiudizio morale e dovuto affrontare documentate spese legali per difendersi.
In definitiva, violando la legge ed omettendo di rendere effettiva motivazione, la
Corte di merito era venuta meno al dovere di rendere effettivo l’indennizzo, in
presenza della prova di un danno patito superiore alla quantificazione media
derivante dall’applicazione del cd. metodo aritmetico (massimo indennizzabile
diviso per il giorni di durata massima della misura cautelare, con decurtazione al
50% per il periodo trascorso agli arresti domiciliari).

commissione di reati di appropriazione indebita e furto aggravato.

3. Il ricorso è fondato nei termini di cui appresso.

3.1. Condívisamente questa Corte ha avuto modo di affermare che,
fermo restando il tetto massimo fissato dalla legge in C. 516.456,90, il giudice
della riparazione può discostarsi dall’ammontare giornaliero di C. 235,82 (C.
117,91 per gli arresti domiciliari, da ultimo, Cass., Sez. IV, n. 34664 del
10/6/2010, Rv. 248078), tenendo conto del pregiudizio specifico, patrimoniale e
non patrimoniale, derivato dall’atto lecito dannoso, costituito dalla restrizione
della libertà, risultata ingiusta (cfr. fra le tante, Cass., Sez. IV, n. 10123 del

13/5/2008, Rv. 240302).
Lo scostamento, peraltro, deve trovare puntuale riferimento in allegate
specifiche ripercussioni di danno, che non conseguirebbero equo ristoro nella
misura ponderata matematica di cui s’è detto. Pur vero che le allegazioni in
discorso potrebbero trovare sufficiente corroborazione in asserti presuntivi,
ragionevolmente ancorati all’evidenza processuale, ma, la giustificazione
motivazionale non può essere ridotta ad un generico apodittico assioma, in un
senso o nell’altro.
Perché l’equità non tracimi in arbitrio incontrollabile è necessario che il
giudice individui in maniera puntuale e corretta i parametri specifici di
riferimento, la valorizzazione dei quali imponga rilevare un surplus di effetto
lesivo da atto legittimo (la misura cautelare) rispetto alle gravi, ma ricorrenti e,
per così dire, fisiologiche, conseguenze derivanti dalla privazione della libertà, sia
quale atto limitativo della sfera più intima e garantita del soggetto, che come
alone di discredito sociale.
Solo la compiuta individuazione dei predetti parametri salvo ed integro il
potere di determinazione quantitativa, nei limiti della ragionevolezza, consente la
verifica del percorso argomentatívo ed impedisce che l’esercizio del potere
equitativo divenga “mero”.
Sul punto si è, già, opportunamente osservato (Cass., Sez. IV,
n. 1744 del 03/06/1998, Rv. 211646) che in tema di riparazione per
l’ingiusta detenzione, il giudice, nel far ricorso alla liquidazione equitatíva, deve
sintetizzare i fattori di analisi presi in esame ed esprimere la valutazione fattane
ai fini della decisione, non potendo il giudizio di equità risolversi nel

merum

arbitrium, ma dovendo invece essere sorretto da una giustificazione adeguata e
logicamente congrua, così assoggettandosi alla possibilità del controllo da parte
dei destinatari e dei consociati.
Si

è,

inoltre,

condivisamente

scritto

che

la

riparazione

per ingiusta detenzione costituisce uno strumento indennitario da atto lecito e

17/11/2011, Rv. 252026; n. 10690 del 25/2/2010, Rv. 246425; n. 23119 del

non risarcitorio, diretto a compensare solo le ricadute sfavorevoli (patrimoniali e
non) procurate dalla privazione della libertà, attraverso un sistema di chiusura
con il quale l’ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente, ma
senza colpe, compressa, correlando, perciò, la quantificazione dell’indennizzo alla
sola durata ed intensità della privazione della libertà, salvo gli aggiustamenti resi
necessari dall’evidenziazione di profili di pregiudizio più vasti ed esuberanti
rispetto al “fisiologico” danno da privazione della libertà (Cass., Sez. 4, n. 21077
dell’1/4/2014, dep. 23/5/2014, Rv. 259237). Con la conseguenza che in sede
di quantificazione dell’indennizzo spettante per l’ingiusta detenzione, ove da essa

familiari, è possibile far applicazione di un criterio di liquidazione diverso da
quello equitativo purché siano compiutamente illustrate le ragioni di
adeguamento dell’indennizzo alla peculiarità del caso concreto (Sez. 4, n. 997
del 17/12/2013, dep. 13/1/2014, Rv. 257907), opportunamente adeguando il
quantum determinato con il criterio aritmetico (Sez., 3, n. 3912 del 5/12/2013,
dep. 29/1/2014, Rv. 258833).
A questi principi non si è tenuta conforme la decisione impugnata, la quale
ha liquidato l’indennizzo utilizzando lo stretto parametro matematico, senza
prendere in effettiva considerazione le allegazioni del ricorrente.
Vanno, in particolare, evidenziate le omissioni motivazionali di cui appresso.
a) La Corte di merito ha ricollegato il maggior pregiudizio allegato, denunziato
come di particolare intensità (trasmodante, quindi, il nocumento ordinario
derivante dalla privazione della libertà) alla concomitante esistenza di altri
procedimenti e misure e, comunque, al processo in sé, senza, però, procedere ad
una reale disamina delle specifiche spiegazioni rese sul punto dal Celia.
b) Si riduce ad una mera apparenza la motivazione con la quale il Giudice della
riparazione ha escluso il maggior pregiudizio da danno all’attività lavorativa e alla
salute del ricorrente. La Corte di Venezia nega che il richiedente abbia fornito
<>.
Trattasi di motivazione meramente apparente, caratterizzata da aspecificità
ed inconoscibilità delle concrete ragioni della decisione, la quale, per un verso,
non mostra di essere dipendente da un effettivo studio della vicenda processuale
(il solo richiamo sommario a documenti neppure individuati nella loro fisicità,

sia derivato un comprovato pregiudizio all’ordinario svolgimento delle relazioni

oltre che pertinenza, non può ovviamente apparire soddisfattivo) e, per altro
verso, rende ignoto il percorso decisionale. Sotto altra prospettiva (evidenziata,
da ultimo, da Cass., Sez. 5, n. 9677 del 14/7/2014. Dep. 5/3/2015, Rv. 263100)
deve, ad un tempo, affermarsi che un simile costrutto giustificativo risulta avulso
dalle risultanze processuali o si avvale di argomentazioni di puro genere o di
asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, il
ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata appare
fittizio e perciò sostanzialmente inesistente.
Per contro, sarebbe occorso conoscere, ma effettivamente, per quali motivi

comunque, perché anche facendo ricorso a strumenti di collaborazione
conoscitiva (perito) la prospettazione non era apprezzabile. Analogamente, poi,
quanto all’esposto danno alla salute, la motivazione appare sommamente
sbrigativa e apodittica, mancando un effettivo raffronto con l’evoluzione clinica
della dedotta patologia e, anche in questo caso, ove necessario, con l’apporto di
un perito settore.
Ciò posto, il provvedimento deve essere annullato richiedendosi nuovo vaglio
sui punti evidenziati, fermo restando la natura indennitaria, sopra illustrata, del
ristoro, non assimilabile al risarcimento da danno ingiusto, parametrabile
ordinariamente attraverso il criterio nummario, ma, tuttavia, soggetto ad
adeguamento al fine di tener conto delle specifiche peculiarità del caso.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello
di Venezia.

Così deciso nella camera di consiglio di giorno 2/7/2015

Il

liere est.

Il Presidente

non era possibile assegnare serietà alla documentazione contabile esibita e,

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