Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36147 del 20/05/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 36147 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: IASILLO ADRIANO
Data Udienza: 20/05/2014

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SENTENZA,

Sul ricorso proposto dall’Avvocato Domenico Canticchio, quale difensore di
Manfreda Rocco (n. il 07/08/1982), avverso la sentenza della Corte di appello
di Bari, Il Sezione Penale, in data 05/11/2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Aldo
Policastro, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

OSSERVA:

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Con sentenza del 20/05/2009, il Tribunale di Bari dichiarò Manfreda
Rocco responsabile dei reati di rapina aggravata e detenzione e porto illegale
di arma e- unificati i reati ex art. 81 del c.p. e con le attenuanti generiche
equivalenti alle contestate aggravanti –

lo condannò alla pena di anni 4 di

reclusione ed € 500,00 di multa.
Awerso tale pronunzia l’imputato propose gravame, ma la Corte di
appello di Bari, con sentenza del 05/11/2012, confermò la decisione di primo
grado.
Ricorre per cassazione l’imputato che deduce l’omessa motivazione
sulla richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale “sia per risentire
la P. O. in ordine alle modalità della ricognizione e sia per sentire l’ex
coimputato del Manfreda, il quale ha patteggiato la pena e, quindi, nelle more
del giudizio ha acquisito il nuovo status di possibile testimone assistito … in
ordine alla partecipazione o meno, alla rapina, del coimputato Manfreda”.

Eccepisce, infine, che possa ritenersi prova piena la ricognizione di persona
effettuata con incidente probatorio; in particolare rileva che la stessa Corte
ritiene tale prova piena perché effettuata con il rispetto delle formalità
previste dalla legge e fonda ciò sulla lettura del verbale. Osserva però il
difensore dell’imputato che per le parti essenziali (”se i figuranti che furono
affiancati al Monfreda fossero a lui somiglianti . . . come erano vestiti … ) la

Corte ha ritenuto di desumerle sussistenti “dalle frasi prestampate” sul
verbale alle quali il Cancelliere non ha aggiunto nulla. Infine, rileva che la

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ricognizione di persona è stata effettuata a distanza di 8 mesi dalla

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commissione del reato “allorquando non esisteva più alcuna possibilità di

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ricordo serio da parte della P. O. di un volto visto di sfuggita in un momento di

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estrema paura e concitazione”.

Il difensore dell’imputato conclude,

pertanto,

per l’annullamento

dell’impugnata sentenza.
motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propone censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.

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–~——————-

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore

possibile

ricostruzione

dei

fatti

deve

condividerne

la

giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia come nel caso di specie – compatibile con il senso comune e con “i limiti di

una plausibile opinabilità di apprezzamento”,

secondo

una

formula

giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 41\ sent. n. 47891 del 28.09.2004
dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. SA sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep.
31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 21\ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep.
25.2.1994, rv 196955).
Inoltre il resto del ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art.
591 lettera c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le
doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del
necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui
valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione,
si palesano, peraltro, immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di
merito ha con esaustiva,

logica e non contraddittoria

motivazione,

evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente
per i reati di cui sopra: in particolare l’esito della ricognizione personale che,
correttamente, rileva essere una prova. La motivazione della Corte di appello
sulla validità della ricognizione è, poi, esatta. Infatti non solo rileva che sono
state rispettate le formalità previste dagli artt. 213 e 214 del c.p.p., ma ricorda

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anche che secondo la costante Giurisprudenza di questa Corte Suprema in

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tema di ricognizione personale, l’inosservanza delle formalità previste dagli

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artt. 213 e 214 cod. proc. pen., finalizzate ad assicurare la partecipazione di

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persone il più possibile somiglianti a quella sottoposta a ricognizione, per
garantire la genuinità della prova, non costituisce causa di nullità od
inutilizzabilità dell’atto (Sez. 2, Sentenza n. 40081 del 04/07/2013 Ud. – dep.
27/09/2013 – Rv. 257069; la Corte di appello ha citato una decisione eguale e
precedente: Sez. 6, Sentenza n. 44595 del 08/10/2008 Ud.- dep. 29/11/2008
– Rv. 241655). Inoltre che in tema di ricognizione di persone, l’utilizzazione di
agenti di polizia giudiziaria come soggetti da raffrontare con il soggetto da
individuare non determina alcuna irregolarità e, tantomeno, alcuna nullità
della procedura, atteso che l’art. 214 del codice di rito non stabilisce alcun

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divieto in tal senso ma menziona soltanto la mera opportunità di assicurare la
presenza di soggetti “somiglianti” (Sez. 2, Sentenza n. 41228 del 16/1112006
Cc. – dep. 15/12/2006- Rv. 235402). Inoltre, la Corte di merito rileva che le
parti prestampate del verbale di ricognizione effettuato dal G.I.P. con
incidente probatorio (dove ad esempio si afferma che i figuranti sono
somiglianti all’imputato) se non conformi a quanto accade vengono eliminate
dal Cancelliere con l’interlineatura; d’altronde – come ha ben osservato la
Corte territoriale – il difensore presente alla ricognizione non ha eccepito o
osservato nulla sulla regolarità dell’espletata ricognizione. La Corte rileva,
poi, che il primo riconoscimento è awenuto 4 mesi dopo la rapina e
l’incidente probatorio si è svolto dopo 8 mesi; sottolinea, poi, che i rapinatori
si sono intrattenuti nella tabaccheria per vario tempo. Non è un caso che la
P.O. abbia riconosciuto anche il Cafagna (uno dei complici) che ha poi
patteggiato.
Per quanto riguarda

la

richiesta

di

rinnovazione dell’istruzione

dibattimentale appare opportuno evidenziare quanto scrive il difensore
dell’imputato nell’atto di appello. Dopo aver rilevato che non si può
condannare il ricorrente solo per il suo riconoscimento afferma: “quantomeno
si rendeva – e si rende tuttora – necessario ascoltare la persona offesa

Miglionico Saverina, che il coimputato Monfreda (Cafagna Francesco),
giudicato separatamente. Di tanto si fa espressa istanza, mediante
rinnovazione del dibattimento in appello” (si vedano le pagine 3 e 4 dell’atto

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di appello). E’ evidente l’assoluta genericità della richiesta nella quale non si

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spiega perché si sarebbe dovuta riesaminare la P.O. e perché si doveva

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sentire il coimputato giudicato separatamente.

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Tanto premesso osserva questa Corte che non ricorre il requisito della
decisività della prova non assunta. Infatti, appare opportuno ricordare che in
relazione alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale questa Suprema

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Corte ha più volte affermato il principio – condiviso dal Collegio – che atteso il
carattere eccezionale della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in
appello, il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere detta
rinnovazione in tanto può essere censurato in sede c:fi legittimità in quanto
risulti dimostrata, indipendentemente dall’esistenza o meno di una specifica
motivazione sul punto nella decisione impugnata, la oggettiva necessità

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dell’adempimento in questione e, quindi, l’erroneità di quanto esplicitamente
o implicitamente ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di “decidere
allo stato degli atti”, come previsto dall’art. 603, comma 1, del codice di
procedura

penale.

Ciò

significa

che

deve

dimostrarsi

l’esistenza,

nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di
lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento
o da altri atti specificamente indicati (come previsto dall’art. 606, comma 1,
lett. E, c.p.p.) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero
state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto,
all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello. (Si
vedano: Sez. 1, Sentenza n. 9151 del 28/06/1999 Ud. – dep. 16/07/1999Rv.

213923;

Sez.

5,

Sentenza n.

12443

del

20/01/2005

Ud. –

dep. 04/04/2005- Rv. 231682; Sez. 6, Sentenza n. 1256 del 28/11/2013 Ud.
– dep. 14/01/2014 – Rv. 258236). Invece, come già detto, il difensore
dell’imputato si è limitato a stigmatizzare genericamente la mancata
rinnovazione del dibattimento senza dimostrare nulla di quanto sopra né,
soprattutto,

l’incidenza dell’eventuale escussione

materiale probatorio raccolto.

Quanto

sopra

del

coimputato

evidenzia

sul

ulteriormente

l’inammissibilità del ricorso, sul punto, trattandosi, con evidenza, di giudizio di
merito sottratto all’esame di questa Corte di legittimità.
A fronte di quanto sopra esposto, il difensore dell’imputato contrappone,
quindi, solo generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle

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argomentazioni della Corte di appello. In particolare non evidenzia alcuna

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illogicità o contraddizione nella motivazione della Corte di appello allorchè

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conferma la decisione del Tribunale. Si deve osservare che l’illogicità della

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motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso
di specie non si rawisano). Inoltre, questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di
ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che

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conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004- rv 230634).

Si deve, infine, rilevare che il reato relativo alle armi si è prescritto
(tenendo conto della varie sospensioni) dopo la sentenza di appello. Data
alla quale bisogna fare riferimento dovendosi dichiarare l’inammissibilità del
ricorso. Inammissibilità che non consente il formarsi di un valido rapporto di
impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le
cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. maturate, nel
caso di specie, successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (si
veda fra le tante: Sez. 4, Sentenza n. 18641 del 20/01/2004 Ud. dep. 22/04/2004- Rv. 228349). E’ appena il caso di precisare che quando si
parla di sentenza di condanna non si deve far riferimento al deposito della
motivazione, bensì al momento della pronuncia della sentenza di condanna,
mediante lettura del dispositivo. È infatti incontrovertibile, in generale, il
principio di diritto che, al fine di individuare il momento nel quale si produce
l’interruzione della prescrizione del reato, occorre avere riguardo a quello
dell’emissione di uno degli atti indicati nell’art. 160 c.p. (ex plurimis Sez., un.
16 marzo 1994, dep. 31 marzo 1994, dep. 3760, id. 28 ottobre 1998, dep. 18
dicembre 1998, n. 13390) e, con specifico riferimento, alla sentenza di
condanna che l’interruzione della prescrizione opera al momento della lettura
del dispositivo – anche quando non sia data contestuale lettura della
motivazione – in quanto tale è il momento in cui si accerta la responsabilità e
si infligge la pena, e non in quello successivo del deposito che serve,
appunto, alla ulteriore comunicazione delle ragioni di condanna, a fini
processuali (Sez. 2, 20 ottobre 1980, dep. 3 dicembre 1980, n. 1283; Sez. 5,
4 novembre 2003, dep. 2 dicembre 2003, n. 46231; Sez. 6, Sentenza n.
31702 del 26/05/2008 Ud. – dep. 29/07/2008 – Rv. 240607).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere
condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché ravvisandosi

profili

inammissibilità –

di

colpa

nella

determinazione

della

causa

di

al pagamento a favore della Cassa delle ammende della

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somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi
dedotti.
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Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deliberato in Roma, il20/05/2014.

Il Consigliere estensore

Il Presidente

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