Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 36131 del 26/05/2015


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Penale Ord. Sez. 7 Num. 36131 Anno 2015
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: BELTRANI SERGIO

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:
RANGONI ERMANNO N. IL 10/03/1940
avverso la sentenza n. 202/2012 CORTE APPELLO di L’AQUILA, del
05/06/2013
dato avviso alle parti;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI;

Data Udienza: 26/05/2015

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
L’imputato ERMANNO RANGONI, in atti generalizzato, ricorre contro la sentenza indicata
in epigrafe (che ne ha confermato la condanna per il reato di estorsione ascrittogli, riducendo
la pena ritenuta di giustizia dal primo giudice per effetto della contestuale declaratoria di
estinzione per prescrizione del reato di truffa di cui al capo B), lamentando nullità del decreto
di citazione a giudizio, nonché – nel merito, per quanto riguarda l’affermazione di
responsabilità – erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione per mancanza

o manifesta illogicità, per non configurabilità del reato.
Ctuiù urta_
In data 4 dicembre 2014 è pervenuta una memoria difensiva con la quale si reiterano
inerenti alla non configurabilità del reato , e si chiede una diversa determinazione del tempus
commissi delicti.
All’odierna udienza camerale, celebrata ex art. 611 c.p.p., si è preso atto della regolarità
degli avvisi di rito; all’esito questa Corte Suprema ha deciso come da dispositivo in atti.
Il ricorso è integralmente inammissibile:

in parte, perché proposto per motivi non consentiti: come emerge dall’esame dell’atto
di appello, la nullità asseritamente inerente al decreto di citazione a giudizio e la
doglianza inerente al tempus commissi delicti non hanno costituito motivo di appello;
quest’ultima doglianza sollecita, inoltre, un accertamento in fatto incompatibile con il
giudizio di legittimità;

in parte, perché assolutamente privo di specificità in tutte le sue articolazioni
(reiterando, più o meno pedissequamente, censure già dedotte in appello e già non
accolte: Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n.
221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n.
256133), del tutto assertivo e, comunque, manifestamente infondato, a fronte dei
rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette,
nonché esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in
questa sede – ha motivato la contestata affermazione di responsabilità valorizzando le
dichiarazioni rese dalle testi PACIFICO, DI PIETRO, DI FRANCESCO, ritenute
sufficientemente precise e quindi attendibili, dalle quali (f. 3 s.) emerge «la prova
che l’imputato pose in essere una condotta estorsiva, minacciando di un male ingiusto,
costituito dal licenziamento, le lavoratrici, nel caso di mancata accettazione delle
condizioni poste dal predetto, ossia la percezione di uno stipendio inferiore a quello
indicato nelle buste paga». E nella qualificazione giuridica dei fatti accertati, la Corte
di appello si è correttamente conformata al consolidato orientamento di questa Corte
(Sez. II, sentenza n. 36642 del 21.9.2007, CED Cass. n. 238918) per la quale integra
il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro il quale, approfittando della

situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla
domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare
la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni
effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti
collettivi; con riferimento a fattispecie simile a quelle de quibus, si è poi ribadito che
integra la minaccia costitutiva del delitto di estorsione la prospettazione, da parte del
datore di lavoro, ai dipendenti, in un contesto di grave crisi occupazionale, della

inferiore a quello risultante dalle buste paga (Sez. II, sentenza n. 656 del 4.11.2009,
dep. 11.1.2010, CED Cass. n. 246046; conforme, Sez. II, sentenza n. 16656 del
20.4.2010, CED Cass. n. 247350, e Sez. II, sentenza n. 50074 del 27.11.2013, CED
Cass. n. 257984).

Con tali argomentazioni il ricorrente in concreto non si confronta adeguatamente,
limitandosi a riproporre una diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su
mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti.

Non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della prescrizione
eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in considerazione della totale
inammissibilità del ricorso. La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, più volte chiarito che
l’inammissibilità del ricorso per cassazione <

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