Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3606 del 14/01/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 3606 Anno 2014
Presidente: CASUCCI GIULIANO
Relatore: PELLEGRINO ANDREA

Data Udienza: 14/01/2014

SENTENZA
Sui ricorsi proposti nell’interesse di:
– GARZO Giuseppe, n. a Vibo Valentia il 24.09.1986, attualmente
detenuto per questa causa e di
-GARZO Pasquale, n. a Vibo Valentia il 06.04.1990, attualmente
detenuto per questa causa,
entrambi rappresentati ed assistiti dall’avv. Francesco Muzzopappa,
-CHIARELLA Carmelo, n. a Vibo Valentia il 21.02.1991, rappresentato
ed assistito dall’avv. Francesco Catanzaro
avverso la sentenza n. 150/2013 pronunciata dalla Corte d’Appello di
Catanzaro, seconda sezione penale, in data 09.05.2013;
rilevata la regolarità degli avvisi di rito;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
sentita la relazione della causa fatta dal consigliere dott. Andrea
Pellegrino;

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udita la requisitoria del sostituto procuratore generale dott. Paolo
Canevelli che ha chiesto l’annullamento con rinvio limitatamente capo
M) nei confronti di Chiarella Carmelo con rigetto nel resto.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 09.05.2013, la Corte d’Appello di Catanzaro,

seconda sezione penale, confermava la sentenza di condanna, resa a
seguito di giudizio abbreviato, pronunciata dal Giudice per le indagini
preliminari presso il Tribunale di Catanzaro in data 07.12.2012 nei
confronti di GARZO Giuseppe, GARZO Pasquale e di CHIARELLA
Carmelo in relazione ai reati di detenzione e porto abusivi di armi
nonché di tentata rapina.
Queste le imputazioni:
GARZO Giuseppe
– capo C (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
– capo E (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
-capo I (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
– capo L (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991)
– capo M (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991).
GARZO Pasquale
– capo D (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
-capo E (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
– capo I (artt. 110 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n. 203/1991)
– capo L (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991)
– capo M (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991).
CHIARELLA Carmelo
– capo L (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991)
-capo M (artt. 110, 56, 628 cod. pen., 2 e 4 I. n. 895/1967, 7 I. n.
203/1991).
In primo grado, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
di Catanzaro dichiarava:

2

- CHIARELLA Carmelo, responsabile dei reati di cui ai capi L (in
relazione ai soli artt. 2 e 4 I. n. 895/1967), M (in relazione ai soli artt.
2 e 4 I. n. 895/1967), esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 I. n.
203/1991, ritenuto il vincolo della continuazione ed operata la
diminuente per il rito, lo condannava alla pena di anni due, mesi otto
di reclusione ed euro 1.000,00 di multa;
– GARZO Giuseppe, responsabile dei reati di cui ai capi M, C, E, I, L (in

relazione ai soli artt. 2 e 4 I. n. 895/1967), esclusa l’aggravante di cui
all’art. 7 I. n. 203/1991, ritenuto il vincolo della continuazione tra i
reati di cui al capo M e i capi C ed E, ritenuto il cumulo materiale per i
capi I ed L, applicata la riduzione per il rito, lo condannava alla pena di
anni sei di reclusione ed euro 2.000,00 di multa;
– GARZO Pasquale, responsabile dei reati di cui ai capi M, D, E, I, L (in
relazione ai soli artt. 2 e 4 I. n. 895/1967), esclusa l’aggravante di cui
all’art. 7 I. n. 203/1991, ritenuto il vincolo della continuazione tra i
reati di cui al capo M e i capi D ed E, ritenuto il cumulo materiale per i
capi I ed L, applicata la riduzione per il rito, lo condannava alla pena di
anni sei di reclusione ed euro 2.000,00 di multa.
CHIARELLA Carmelo, GARZO Giuseppe e GARZO Pasquale venivano
assolti dal reato di cui al capo L, nella parte relativa all’imputazione di
cui agli artt. 56, 628 cod. pen., perché il fatto non costituisce reato
nonché CHIARELLA Carmelo dal reato di cui al capo M, nella parte
relativa all’imputazione di cui all’art. 628 cod. pen., per non aver
commesso il fatto.
2. Avverso la sentenza – confermativa di quella di primo grado pronunciata in grado d’appello, venivano proposti da GARZO Giuseppe
e GARZO Pasquale da un lato e da CHIARELLA Carmelo dall’altro,
distinti ricorsi per cassazione con i quali veniva richiesto l’annullamento
della sentenza impugnata con i provvedimenti consequenziali di legge.
Nei propri motivi di doglianza i ricorrenti GARZO Giuseppe e GARZO
Pasquale evidenziavano:
– la violazione dell’art. 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per
motivazione assolutamente mancante o comunque apparente ed
inidonea a fornire le necessarie giustificazioni del percorso logico
seguito dal giudice (primo motivo);

3

- la violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 2 e 4 I. 895/1967 nonché in relazione agli artt. 56,
628 cod. pen. (secondo motivo);
– l’erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione
(art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen.) in ordine alla
dosimetria della pena e delle circostanze attenuanti generiche (terzo
motivo).

Con riferimento al primo motivo, i ricorrenti lamentano come nella
sentenza impugnata veniva dato adito al contenuto delle scarse
intercettazioni captate, senza fornire un’analisi approfondita delle
emergenze processuali e dei riscontri esterni.
In particolare, la sentenza impugnata aveva omesso di esaminare e
valutare le specifiche doglianze avanzate con l’atto di impugnazione in
ordine all’interpretazione delle conversazioni intercettate, essendosi
limitata a richiamare acriticamente e genericamente la sentenza di
primo grado adottando una motivazione “per relationem”.
Con riferimento al secondo motivo, i ricorrenti lamentano come,
sebbene la sentenza operi una complessa ricostruzione della vicenda
denunciata, ma nulla dica, neppure implicitamente, in ordine alla prova
della effettiva disponibilità da parte dei ricorrenti delle armi in
contestazione ed alla relativa e/o eventuale funzionalità delle stesse.
Sul punto la Corte d’Appello aveva introdotto argomenti definiti di
natura logica che si traducevano in mere asserzioni e presunzioni del
tutto sganciate da elementi fattuali emersi nel giudizio; di contro, una
corretta valutazione del fascicolo processuale avrebbe dovuto spingere
il giudice di secondo grado a ritenere gli indizi raccolti insufficienti per
l’emanazione di una sentenza di condanna, poiché non conformi al
dettato dei cui all’art. 192 cod. proc. pen., in quanto carenti di quei
requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge per
un giudizio di colpevolezza. Invero, la Corte d’Appello aveva superato
la richiesta di assoluzione in maniera vaga e generica indicando
l’elemento indiziante (individuato in tre o quattro intercettazioni
ambientali) senza tuttavia specificare i motivi per cui tale elemento
potesse o dovesse, diversamente da come prospettato dalla difesa,
indurre ad un giudizio di condanna. Pertanto l’insufficienza, la
contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e
ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base

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all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, non poteva non
comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa ed il
conseguente esito assolutorio di cui all’art. 530, comma 2 cod. proc.
pen., secondo i! canone di geran7ia in dubio pro reo.
Con riferimento al terzo motivo, i ricorrenti lamentano che nella
determinazione della pena finale inflitta (anni sei di reclusione ed euro
2.000,00 di multa), i giudici di merito siano partiti da una pena base

superiore al limite edittale ed abbiano inopinatamente disatteso la
richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche senza
dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per l’esercizio del
relativo potere discrezionale.
Nei propri motivi di doglianza il ricorrente CHIARELLA Carmelo
evidenziava che:
-la violazione dell’art. 606, comma 1 lett. c) ed e) cod. proc. pen. in
relazione all’art. 268, comma 3 cod. proc. pen. per mancanza di
motivazione ed inosservanza di norme processuali stabilite a pena di
inutilizzabilità (primo motivo);
-la violazione dell’art. 606, comma i lett. b) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 2 e 4 !. 895/1967 per mancanza di motivazione ed
erronea applicazione della legge penale sostanziale (secondo motivo);
-la violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 2 e 4 I. 895/1967 e 110 cod. pen. per manifesta
illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale
sostanziale (terzo motivo);
-la violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in
relazione agli artt. 62-bis, 81 e 133 cod. pen. per mancanza di
motivazione ed erronea applicazione della legge penale sostanziale
(quarto motivo).
In relazione al primo motivo, deduce il ricorrente come le ipotesi di
reato addebitate al CHIARELLA siano sostenute da un dato probatorio
(i risultati delle operazioni intercettive eseguite all’interno
dell’autovettura Fiat Punto tg. CT441XF in uso ai fratelli Garzo)
inutilizzabile in quanto acquisito in violazione dell’art. 268, comma 3
cod. proc.

pen., norma che stebiPsce che

!e operazioni captative

possono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti in
dotazione alla Procura della Repubblica, consentendo una deroga in
presenza di due coeve contingenze: che gli impianti “interni” siano

5

insufficienti o inidonei e che sussistano eccezionali ragioni di urgenza
investigativa.
In relazione al secondo motivo, deduce il ricorrente come la sentenza
impugnata appalesi apoditticità nella parte in cui aveva riconosciuto la
colpevolezza del CHIARELLA per il delitti di cui all’art. 2 I. 895/1967,
non essendo stata, di contro, offerta alcuna idonea motivazione circa la
sua eventuale compartecipazione in ordine alla preliminare opera da

In relazione al terzo motivo, deduce il ricorrente come essendo stato il
CHIARELLA assolto dall’accusa di concorso in rapina aggravata in
danno della sala giochi di tale Stralluzzo Simona non essendo stato
provato che egli avrebbe accettato il prospettato incarico che terzi
avrebbero voluto affidargli, doveva coerentemente e necessariamente
escludersi anche il suo coinvolgimento nell’illecito possesso della
pistola asseritamente impiegata per compiere quella rapina: ne
consegue che, la dichiarazione di colpevolezza del CHIARELLA in ordine
a tale ultimo reato poggiava – a detta del ricorrente – su un apparato
motivazionale manifestamente illogico che finiva per “recuperare” una
fantomatica partecipazione del CHIARELLA (nel ruolo di autista
incaricato di assicurare la fuga all’autore materiale della sottrazione)
alla rapina in parola, esclusa in primo grado.
In relazione al quarto motivo, deduce il ricorrente come il
provvedimento impugnato abbia omesso di dare ragione del corretto
esercizio del potere discrezionale del giudice di merito in ordine al
diniego delle circostanze attenuanti generiche ed alla quantificazione
della pena: onere motivazionale che non poteva ritenersi soddisfatto
dal tautologico richiamo alla gravità della condotta posta in essere dal
ricorrente o al precedente di cui lo stesso risultava portatore.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I ricorsi, che, almeno in parte, reiterano pedissequamente le medesime
doglianze sollevate avanti al giudice di seconde cure che ha dato
adeguate ed argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in
diritto, sono infondati e, come tali, vanno rigettati.
Al riguardo va innanzitutto premesso come la Suprema Corte consideri
inammissibili i motivi che si limitino a riprodurre le censure dedotte in

1

A

parte di terzi di custodia e/o occultamento dell’arma.

appello, anche se con l’aggiunta di frasi incidentali di censura alla
sentenza impugnata meramente assertive ed apodittiche, laddove
difettino di una critica argomentata avverso il provvedimento
“attaccato” e l’indicazione delle ragioni della loro decisività rispetto al
percorso logico seguito dal giudice di merito (Cass., Sez. 6, n. 8700 del
21/01/2013, Leonardo e altri, rv. 254584; nello stesso senso, Cass.,
Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997 – dep. 13/01/1998, Ahmetovic, Rv.

210157.
4. Fermo quanto precede, sempre in via preliminare, va evidenziato come
si sia di fronte ad una sentenza di secondo grado confermativa della
pronuncia di condanna emessa in primo grado (cd. “doppia
conforme”).
E’ noto il principio secondo cui, quando i e sentenze di primo e secondo
grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova
posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale
della sentenza di appello può saldarsi con quella precedente per
formare un unico complesso corpo argomentativo, sicché risulta
possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado,
colmare eventuali lacune della sentenza di appello; è stato tuttavia più
volte affermato dalla Suprema Corte che manca di motivazione la
sentenza d’appello che – nell’ipotesi in cui le soluzioni adottate dal
giudice di primo grado siano state specificamente censurate
dall’appellante – si limiti a riprodurre la decisione del primo giudice,
aggiungendo la propria adesione in termini apodittici e stereotipati,
senza dare conto degli specifici motivi d’impugnazione e senza
argomentare sull’inconsistenza o non pertinenza degli stessi (cfr.
Cass., Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005-dep. 16/02/2006, Aglieri ed
altri, rv. 233082, Id. i.

12540 dei

12/10/2000-dep. 01/12/2000,

Prescia, rv. 218172). In tal caso, infatti, non può certamente parlarsi
di motivazione

“per relationem”, bensì di elusione dell’obbligo di

motivare, previsto a pena di nullità dall’art. 125, comma 3 cod. proc.
pen. e direttamente imposto dall’art. 111 Cost., comma 6, che fonda
l’essenza della giurisdizione e della sua legittimazione sull’obbligo di
“rendere ragione” della decisione, ossia sulla natura cognitiva e non
potestativa del giudizio.
Ritiene il Collegio che viola ancora più gravemente tale obbligo, e
perciò è nulla per mancanza di motivazione, la sentenza d’appello che

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si limiti a copiare la decisione di primo grado, così vanificando del tutto
il senso e lo scopo dell’atto di impugnazione e del secondo grado di
giudizio, che si trasforma in uno spreco di tempo e di risorse e in una
apparente e fittizia garanzia per l’imputato (Cass., Sez. 6, n. 12148 del
12/02/2009-dep. 19/03/2009, Giustino, rv. 242811).
5. Su queste premesse, rileva in premessa il Collegio come la sentenza
impugnata motivi congruamente in ordine alla ricostruzione degli

accadimenti, all’individuazione dei ricorrenti quali autori delle condotte
in contestazione con riferimento alle quale era stata pronunciata
condanna in primo grado con conseguente affermazione delle relative
responsabilità, alla qualificazione giuridica dei fatti, alla determinazione
del trattamento sanzionatorio, al mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche.
6. In particolare, passando all’esame degli specifici motivi di doglianza
contenuti nei ricorso proposto neirinteresse di GARZO Giuseppe e di
GARZO Pasquale, rileva il Collegio come:
-il primo motivo, si appalesi del tutto aspecifico, operando una
generica censura al provvedimento impugnato, anche con riferimento
alla tecnica della motivazione

“per relationem” operata dai giudici di

secondo grado, non valutabile in sede di legittimità;
-il secondo ed il terzo motivo, trattabili congiuntamente, attengono alla
ricostruzione in fatto ed ineriscono ad una generica doglianza sui criteri
di valutazione adottati dai giudici di merito ai fini dell’interpretazione
delle conversazionj captate ed in ordine al calcolo della pena: al
w9vb4.1-0

riguardo, t:11=MM= al primo profilo, la Corte d’Appello ha
correttamente operato corretto richiamo agli insegnamenti della
Suprema Corte (Cass., Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013dep. 12/03/2013, Melfi, rv. 254439) secondo cui in materia di
intercettazioni telefoniche, l’interpretazione del linguaggio e del
contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa
alla valutazione del giudice di merito, che si sottrae al sindacato di
legittimità se motivata in conformità ai criteri della logica e delle
massime di esperienza; parimenti, anche il secondo profilo appare
infondato avendo la Corte d’Appello di Catanzaro fornito ampia ed
adeguata motivazione in merito ai criteri osservati ai fini della
determinazione della pena.
7. Passando all’esame degli specifici motivi di doglianza contenuti nel

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ricorso proposto nell’interesse di CHIARELLA Carmelo, il Collegio rileva
quanto segue.
La censura sollevata in relazione al primo motivo riguarda
l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate.
Come già rilevato, tutti gli imputati hanno richiesto di essere giudicati
con rito abbreviato senza condizioni. In tal modo, hanno manifestato
l’esplicito “consenso” a essere giudicati con l’utilizzo degli atti contenuti

nel fascicolo del pubblico ministero e posti a fondamento, ex art. 416,
comma 2 cod. proc. pen. della richiesta di rinvio a giudizio: “consenso”
che non può che avere effetti equivalenti all'”accordo” ammesso dal
secondo l’art. 431 cod. proc. pen. ai fini dell’acquisizione “al fascicolo
per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero”, cioè “accordo” per l’utilizzo in giudizio. Non ignora il
Collegio le diversità, sotto il profilo concettuale, tra “consenso” e
“accordo”, nel senso che il “consenso” si caratterizza per essere una
proposta, mentre “accordo” è l’esito del “consenso” reciprocamente
espresso dalle parti. Nella fattispecie processuale, la “pretesa” – ossia il
“consenso” – di utilizzo degli atti di indagine è espressa dal pubblico
ministero con l’allegazione del proprio fascicolo d’indagine alla richiesta
di rinvio a giudizio ed è sui contenuti di tale fascicolo che l’imputato, o
il suo difensore munito di procura ad hoc, esprime il suo consenso con
il “risultato” che si è perfezionato l'”accordo” per l’utilizzo di tali atti ai
fini del giudizio nel forme del rito abbreviato.
Non è da revocare in dubbio, poi, che il giudizio abbreviato si configura
nel sistema processuale come un giudizio governato da regole di
diverse rispetto a quelle dell’ordinario regime dibattimentale e ciò
ancor più dopo la novella del 1999 che ha rimosso i limiti oggettivi
collegati ab origine alla pena e predisposto due moduli di richiesta
capaci di “attrarre” la preferenza dell’imputato mediante un esplicito
potere di superare la definizione sic stantibus rebus e selezionare gli
elementi raccolti nel corso delle indagini tanto ottenere un loro
completamento su richiesta a esso condizionata o anche ex officio.
Un giudizio essenzialmente “a prova contratta” alla cui base vi è una
disponibilità a connotazione abdicativa della parte privata che
giustifica, da un lato, la riduzione di un quantum di pena predefinito
dalla legge e sganciato nella quantificazione dai parametri dell’art. 133
cod. pen. e, dunque, in definitiva segnato dalla “rinuncia” del sistema a

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irrogare una sanzione adeguata al fatto e al reo e, dall’altro, le notevoli
limitazioni all’appello del pubblico ministero stabilite dall’art. 443 cod.
proc. pen..
Come è noto, le Sezioni unite si sono espresse, proprio all’indomani
della riforma del 1999, nel senso che la connotazione di negozio
processuale di tipo abdicativo può avere a oggetto esclusivamente i
poteri che rientrano nella “sfera di disponibilità degli interessati”. Ciò

comporta che nei giudizio speciaie se, da un iato non rilevano le ipotesi
di inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quelle
coessenziali ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei
quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte

secundum

legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento
secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui
all’art. 514 cod. proc. pen., sul presupposto che in tal caso il viziosanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle
parti, di tipo abdicativo, nè le ipotesi di inutilizzabilità “relativa”
stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase
dibattimentale; dall’altro iato, rilevano le ipotesi riconducibili alla
categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta “patologica”,
inerenti, cioè, agli atti probatori assunti

contra legem,

la cui

utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma
in tutte le altre fasi del procedimento (Cass., Sez. un., n. 16 del
21/06/2000-dep. 30/06/2000, Tammaro).
La richiesta di giudizio abbreviato, dunque, autorizza il giudice a
utilizzare per la decisione atti probatori “invalidi” – esclusi quelli viziati
da nullità assoluta o inutilizzabilità “patologica” – per effetto del
“negozio processuale abdicativo” che si caratterizza quale “consensoaccordo”.
Mette conto rilevare che le Sezioni unite in motivazione precisano che
la soluzione della questione risente della modifica del testo dell’art. 438
cod. proc. pen. sia, più in generale, della caduta di parte delle difficoltà
sistematiche che, in epoca antecedente alla L. n. 479 del 1999,
avrebbero dovuto essere risolte ammettendo nel rito abbreviato la
rilevanza di cause di inutilizzabilità patologiche o di nullità.
Ad avviso del Collegio, la regula iuris enunciata per gli atti probatori
non può che essere identificata nell’effetto del “consenso-accordo”
volto a recuperare, rectius, a ripristinarne l’utilizzabilità e cioè la

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idoneità a essere “elemento di prova” funzione essenziale dei “mezzi di
prova” e dell’esito dell’attività di ricerca dei “mezzi di prova”.
Deve allora essere applicata la regola enunciata circa l’impossibilità del
recupero all’idoneità a costituire “elemento di prova” per quelli
“geneticamente” sorti in violazione di “diritti fondamentali” che la legge
processuale enuncia negli artt. 188 e 189 cod. proc. pen., contenuti
nel Libro 3^, dedicato alle “prove”, Titolo 1^, nel quale sono enunciate

“le disposizioni generali”. Entro tali limiti va definita “l’inutilizzabilità
patologica” di un atto probatorio che sarà privo della sua idoneità a
provare i fatti in esso contenuti. Nell’ambito di tale cornice giuridica,
dunque, debbono essere considerate le questioni di inutilizzabilità di
“mezzi di prova” acquisiti agli atti del processo per essere contenuti nel
fascicolo del pubblico ministero e, come tali, prove da “utilizzare” nel
giudizio abbreviato

in

ragione del

“consenso” dell’imputato

all’eventuale proposta di decisione allo “stato degli atti” formulata dalla
parte pubblica.
Le questioni poste circa la legittimità dell’utilizzo degli impianti diversi
da quelli in dotazione della Procura della Repubblica non possono
essere ricondotte nell’alveo dell'”inutilizzabilità patologica”: come tali,
al di là delle asserite violazioni, si è in presenza di acquisizioni
pienamente utilizzabili nel giudizio abbreviato (Cass., Sez. 6, n. 2930
del 23/10/2009-dep. 22/01/2010, Ceroni e altri, rv. 246129).
In ogni caso, le censure qui riproposte sono state correttamente
esaminate e risolte dal giudice di secondo grado che, nel disattendere
le predette doglianze, ha rilevato che i casi di urgenza che abilitano il
pubblico ministero all’emissione del decreto di intercettazione di
conversazioni o comunicazioni ex art. 267, comma 2 cod. proc. pen.,
possono essere considerati come le “eccezionali ragioni di urgenza”,
che legittimano l’esecuzione delle operazioni mediante impianti in
dotazione alla polizia giudiziaria – in quanto quelli installati nella
Procura della Repubblica siano insufficienti o inidonei – quando le
ragioni addotte a fondamento dell’esigenza di attuare immediatamente
le operazioni di intercettazione risultano incompatibili non solo con la
procedura ordinaria della richiesta autorizzatoria al giudice per le
indagini preliminari, ma anche con la sufficienza o idoneità degli
impianti presenti nei locali della Procura della Repubblica. Invero, si
legge in sentenza: “… l’eccezione di ínutilizzabilità è stata già rigettata

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dal primo giudice sulla condivisibile argomentazione che il decreto di
intercettazione dà contezza delle ragioni di urgenza dettate dalla
necessità della pronta

c di immediato intervento, dovute

alla realizzazione in corso di attività di cui all’art. 416-bis cod. pen.,
con insufficienza di impianti esterni esistenti negli uffici della Procura,
anche per la necessità di intervenire con attività di controllo,
osservazione e pedinamento, ineseguibili con il solo ascolto a distanza.

La censura, oltre che infondata per le ragioni illustrate è anche
aspecifica poiché si limita a reiterare semplicemente la medesima
eccezione senza confutare la spiegazione fornita nella sentenza che ha
ritenuto sufficientemente motivato il decreto, con il richiamo alla
circostanza che si tratta di intercettazioni da effettuarsi non già sulle
linee telefoniche ma in ambienti o luoghi da tenersi sotto controllo
anche diretto o visivo della polizia o da eseguirsi mediante
apparecchiature da collocare in prossimità della fonte sonora”.
Sul punto, la Suprema Corte ha riconosciuto come la motivazione sulle
ragioni di eccezionale urgenza per l’uso di impianti in dotazione della
polizia giudiziaria, o norma dell’art. 253, comma 3, cod. proc. pen., sia
da ritenersi assorbente rispetto ai profili tecnici di inidoneità funzionale
degli impianti della Procura della Repubblica, sicché, in tal caso,
l’omessa indicazione specifica dei precisati aspetti tecnici non è causa
di nullità o inutilizzabilità del decreto di intercettazione (Cass., Sez.
6, n. 39216 del 09/04/2013-dep. 23/09/2013, Di Fiore ed altri, rv.
256590).
Fermo quanto precede, va rilevato come la medesima giurisprudenza
di legittimità si sia espressa nel senso – ampiamente condiviso dal
Collegio – che l’esistenza delle “ragioni di urgenza” richieste dall’art.
267, comma 2 cod. proc. pen. affinché il pubblico ministero possa
disporre l’intercettazione e, parimenti, perché possa avvalersi di
impianti esterni, trovi giustificazione implicita là dove essa sia
desumibile dal riferimento all’attività criminosa in corso indicata, non
solo nel provvedimento del pubblico ministero, ma anche
complessivamente ricavabiie dog ii atti dei procedimento (si è visto

come nella fattispecie, fossero in corso – come specificamente indicato
nel decreto del pubblico ministero in data 28.1 .0.2009 allegato al
ricorso – attività criminali concernenti, come si è visto, anche il delitto
di cui all’art. 416-bis cod. pen.): da qui l’infondatezza del motivo.

12

La censura sollevata in relazione al secondo ed al terzo motivo,
trattabili congiuntamente, riguarda la responsabilità del CHIARELLA in
relazione ai capi I) ed m). Anche detta censura appare infondata.
Al riguardo, la Corte d’Appello di Catanzaro ha riconosciuto come la
presenza del CHIARELLA, sull’auto insieme ai fratelli Garzo, intenti a
progettare !a rapina al danni de! bar Celano, !e conversazioni da cui
risultano i sopralluoghi e le perlustrazioni della zona per studiare una

via di fuga, la frase testuale di Garzo Giuseppe (“… se no lasciate
stare, che andiamo sistemiamo le pistole e facciamo un giro, ci
ritiriamo tranquilli …”),

deponevano univocamente per la piena

partecipazione del CHIARELLA alla programmazione del reato di rapina
a mezzo delle armi portate in auto, poi non portato a esecuzione,
perché troppo rischioso, rimanendo tuttavia indiscussa l’integrazione
dei reati di porto e detenzione dell’arma da parte di tutti i correi. In
relazione al capo m), la Corte d’Appello di Catanzaro, aveva escluso
come la condotta del CHIARELLA potesse essere collocata nell’alveo di
un’irrilevante connivenza non punibile, dal momento che l’imputato,
lungi dal tenere un comportamento passivo, aveva partecipato anche
in questo caso al reato di rapina, con preventiva suddivisione dei
compiti tra i correi, rivestendo il ruolo di autista che doveva assicurare
la fuga all’autore materiale de!!a sottrazione de! denaro nel locale,
come era emerso dalle conversazioni intercettate; di contro evidenziava la Corte d’Appello – la circostanza che il contributo del
CHIARELLA alla realizzazione della rapina non fosse stato accertato,
non escludeva la consapevolezza dell’esistenza e della volontà del
medesimo di aderire alla detenzione e uso dell’arma per compiere il
delitto programmato.
La censura sollevata in relazione al quarto motivo – parimenti
infondata – afferisce il trattamento sanzionatorio ritenuto troppo
gravoso anche per la mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche.
In merito a queste ultime, la Corte d’Appello di Catanzaro aveva
motivato la relativa esclusione a ragione dell’allarmante disvalore
penale delle condotte e del precedente penale, specifico ed
infranquinquennale, a carico del CHIARELLA. Con riferimento, invece,
alla determinazione c.’e!b pena, rilevava !a Corte d’Appello di Catanzaro
come non fosse consentita una rivisitazione della sanzione inflitta in

13

primo grado, non solo perché questa era stata determinata partendo
da una pena base del tutto adeguata con contenuto aumento per la
continuazione, ma anche perché la richiesta formulata non era stata
accompagnata da alcun motivo che indicasse le ragioni per le quali la
sanzione inflitta in primo grado potesse non essere conforme ai criteri
di cui all’art. 133 cod. pen., di tal guisa il giudice dell’impugnazione era
stato posto nell’impossibilità di verificare gli eventuali errori contenuto

8. Alla pronuncia di rigetto dei ricorsi consegue, per il disposto dell’art.
616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle
spese processuali

PQM

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deliberato in Roma il 14.1.2014

Il Consigliere estensore
Dott. Andrea Pellegrino

Il Presidente
Dott. ulia o Casucci

nelle argomentazioni sviluppate dal giudicante.

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