Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35797 del 18/06/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 35797 Anno 2013
Presidente: FIANDANESE FRANCO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sui ricorsi proposti dall’Avvocato Alberto Paolini, quale difensore di Arrotino
Gabriele (n. il 27/02/1973), e da Dalle Luche Vincenzo (n. il 01/09/1964)
avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila, Sezione penale, in
data 12/07/2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottor Francesco
Salzano, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi.

Data Udienza: 18/06/2013

OSSERVA:

Con sentenza del 04/03/2010, il Tribunale di Chieti dichiarò Arrotino
Gabriele e Dalle Luche Vincenzo responsabili del reato di truffa in concorso e
li condannò alla pena di mesi 9 di reclusione ed € 400,00 di multa ciascuno.
Avverso tale pronunzia gli imputati proposero gravame ma la Corte

primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore di Arrotino Gabriele eccependo:
l’invalidità della querela (sia per mancanza di indicazione della qualifica del
Berardinelli — P.O. — all’interno della società in nome collettivo Mariz, sia
perché non è espressa la volontà di procedere nei confronti degli autori del
reato); l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del coimputato Palermo acquisite ex ad 513 del c.p.p. — senza il consenso delle altri parti coinvolte dal
propalante. Inoltre, il difensore dell’imputato sottolinea la carenza di
motivazione con la quale è stata rigettata la richiesta di perizia grafica tesa
ad accertare se gli assegni – con i quali è stata perpetrata la truffa – fossero
stati vergati dall’Arrotino e ciò soprattutto in relazione alle contraddizioni sul
punto della P.O.; deduce, infine, l’erronea applicazione degli artt. 110 e 640
del c.p. per la mancanza di elementi che comprovino che l’Arrotino possa
essere considerato concorrente del reato di truffa.
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.
Ricorre per Cassazione anche l’imputato Dalle Luche eccependo
l’invalidità della querela (per gli stessi motivi già esposti per l’altro ricorrente)
e la carenza di motivazione in ordine alla mancata assunzione di una prova
decisiva, consistente nella perizia grafica tesa ad accertare se gli assegni
usati per commettere la truffa li avesse compilati l’Arrotino — come riferito
dalla P.O. nel dibattimento — o dal coimputato Palermo, come riferito dalla
P.O. nel corso delle indagini. Ciò sarebbe stato utile, anche, per verificare
l’attendibilità della P.O.. Rileva, infine, l’omessa valutazione dell’attendibilità
delle dichiarazioni della P.O. e del Palermo — tra l’altro gravato da numerosi
precedenti penali – anche alla luce del fatto che quest’ultimo rilascia le
dichiarazioni contro gli altri coimputati solo dopo aver preso contatto con il

d’appello di L’Aquila, con sentenza del 12/07/2012, confermò la sentenza di

Berardinelli e dopo che questi gli aveva detto che se ripeteva tutto alla P.G.
lui gli avrebbe firmato una sorta di liberatoria.
Il ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento dell’impugnata
sentenza.

I ricorsi sono inammissibili per violazione dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., perché propongono censure attinenti al merito della decisione
impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.
Sez. 4^ sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass.
Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez.
2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre i ricorsi sono inammissibili anche per violazione dell’art. 591
lettera c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen., perché le
doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del
necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui
valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione,
si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti la Corte di merito
ha — dopo un corretto richiamo per relationem alla sentenza di primo grado con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le
ragioni per le quali ritiene la responsabilità dei ricorrenti per il reato di cui
sopra; in particolare le dichiarazioni della P.O. e gli altri elementi probatori
acquisiti che, tra l’altro, supportano le dichiarazioni della stessa P.O., quali ad
esempio: il fatto che la P.O. aveva annotato il numero di targa dell’auto usata
dalle due persone – che si erano recate presso il suo negozio ad acquistare i
quadri con gli assegni di un conto già chiuso – auto riconducibile all’Arrotino;
il riconoscimento fotografico effettuato dalla P.O. dell’Arrotino; il fatto che i

a

motivi della decisione

due hanno ricordato alla P.O. un fatto accaduto nel suo negozio, fatto che
poteva conoscere solo il Dalle Luche che aveva lavorato presso il
Berardinelli; quanto dichiarato dal Palermo le cui dichiarazioni sono state
ritenute — con motivazione incensurabile a pagina 7 — credibili e riscontrate
(per tutto quanto sopra evidenziato si vedano le pagine da 3 a 5
dell’impugnata sentenza ove si riporta in sintesi la decisione del Tribunale e

Palermo — che ha reso ampia confessione e indicato quali correi gli altri due
imputati — si deve rilevare che la Corte di appello ha sottolineato che alla loro
acquisizione e lettura, ex art 513 del c.p.p., non si sono opposti gli Avvocati
degli altri due imputati, che quindi hanno prestato un tacito consenso
confermato dal fatto che anche in appello i difensori dei ricorrenti si sono
limitati a criticarne solo il contenuto; quindi il Giudice di merito ha
correttamente rilevato la piena utilizzabilità delle predette dichiarazioni nei
confronti dei coindagati. A tal proposito questa Suprema Corte ha più volte
affermato il principio — condiviso dal Collegio — che ai fini dell’utilizzazione
delle dichiarazioni predibattimentali “contra alios” – rese da imputati
contumaci, assenti o rifiutatisi di sottoporsi ad esame – la necessità del
consenso di cui all’art. 513, comma primo, ultima parte, cod. proc. pen., non
comporta che esso debba manifestarsi in modo espresso e formale, con la
conseguenza che può essere desunto per implicito dal solo fatto che la
disposta acquisizione non abbia formato oggetto di specifica opposizione
(Sez. 5, Sentenza n. 47014 del 08/07/2011 Ud. – dep. 20/12/2011 – Rv.
251445; Sez. 1, Sentenza n. 18308 del 14/01/2011 Ud. – dep. 10/05/2011 Rv. 250220; Sez. 6, Sentenza n. 2928 del 21/10/2009 Ud. – dep. 22/01/2010
– Rv. 245768). Inoltre, il consenso all’acquisizione al fascicolo del
dibattimento di atti contenuti in quello del pubblico ministero può essere
validamente prestato anche dal difensore dell’imputato, sia esso di fiducia o
d’ufficio, in quanto estrinsecazione del generale potere di indicazione dei fatti
da provare e delle prove e conseguente al principio generale di
rappresentanza dell’imputato da parte del difensore (Sez. 6, Sentenza n.
7061 del 11/02/2010 Ud. – dep. 22/02/2010 – Rv. 246090). Infine, che il
consenso prestato dall’imputato per l’acquisizione di verbali di dichiarazioni, a
norma degli artt. 513, comma primo e 493, comma terzo cod.proc.pen., non

le pagine 6 e 7 dell’impugnata sentenza). A proposito delle dichiarazioni del

è revocabile (Sez. 1, Sentenza n. 23157 del 18/04/2007 Ud. – dep.
14/06/2007 – Rv. 237058).
La Corte di appello ha, poi, ben motivato sulla credibilità della
Persona Offesa, conducendo un’attenta e accurata indagine sulla sua
credibilità soggettiva ed oggettiva (condotta in modo ancor più rigoroso in
quanto la P.O. si è costituita P.C.; si vedano le pagina 6 e 7 dell’impugnata
sentenza); la Corte di merito ha altresì condiviso quanto ritenuto dal

Tribunale in ordine a delle presunte contraddizione nel narrato della P.O.
(pienamente e correttamente giustificate; si vedano le valutazioni sul punto
del Tribunale riportate a pagina 5, valutazioni condivise come afferma la
Corte di appello a pagina 6). Si deve sottolineare che sul punto questa
Suprema Corte ha più volte affermato il principio — condiviso dal Collegio secondo il quale la testimonianza della persona offesa, ove ritenuta
intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova,
purchè la relativa valutazione sia sorretta da un’adeguata motivazione, che
dia conto dei criteri adottati e dei risultati acquisiti (Sez. 3, Sentenza n. 22848
del 27/03/2003 Ud. – dep. 23/05/2003 – Rv. 225232; Sez. 6, Sentenza n.
27322 del 14/04/2008 Ud. – dep. 04/07/2008 – Rv. 240524). Persona offesa
che è teste e non chiamante in correità; pertanto non sono certo necessari,
per le sue dichiarazioni, i riscontri esterni — che comunque nel caso di specie
ci sono e sono stati correttamente evidenziati sia nelle pagine ove si riporta
sinteticamente la decisione di primo grado (pagine da 3 a 5) sia alle pagine 6
e 7 dell’impugnata sentenza – richiesti dall’articolo 192, III comma, c.p.p.;
quindi è necessario solo accertare — come è avvenuto nell’impugnata
sentenza – la credibilità della persona offesa (si veda, fra le tante, Sez. 4,
Sentenza n. 30422 del 21/06/2005 Ud. – dep. 10/08/2005 – Rv. 232018).
Inoltre, questa Suprema Corte ha affermato che la deposizione della persona
offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità
dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità
e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192,
commi terzo e quarto, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri
esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile
e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità
deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le

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dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al
riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. 1, Sentenza n. 29372 del
24/06/2010 Ud. – dep. 27/07/2010 – Rv. 248016). Principio questo confermato
anche dalle Sezioni Unite di questa Corte che hanno ribadito che le regole
dettate dall’art. 192 comma terzo cod. proc. pen. non si applicano alle
dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente

dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della
credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo
racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso
rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi
testimone (in motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui
la persona offesa si sia altresì costituita parte civile, può essere opportuno
procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi; Sez. U,
Sentenza n. 41461 del 19/07/2012 Ud. – dep. 24/10/2012 – Rv. 253214).
Principi ai quali, come già rilevato, entrambi i Giudici di merito si sono attenuti
(si veda, infatti, per quanto riguarda il Giudice di primo grado la sintesi di
quanto ritenuto dal Tribunale alle pagine da 3 a 5 dell’impugnata sentenza).
Infine, si deve rilevare che in tema di prove, la valutazione della credibilità
della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una
propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e
che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non
sia incorso in manifeste contraddizioni (che, come detto, non si riscontrano
nel caso di specie; Sez. 3, Sentenza n. 8382 del 22/01/2008 Ud. – dep.
25/02/2008 – Rv. 239342). La Corte di appello evidenzia, poi, in modo
incensurabile: perché è destituita di ogni fondamento la tesi di un accordo tra
la P.O. e il Palermo (si veda — oltre a quanto già sopra evidenziato — pagina
7 dell’impugnata sentenza); perché la querela è valida (la P.O. seppure in
modo indiretto ha spiegato di agire nell’interesse della società e che
avanzando richiesta di sequestro del corpo del reato intendeva instare per la
punizione degli autori del reato; quanto sopra affermato dal Giudice di merito
è con evidenza una quaestio facti ben motivata e quindi sottratta al controllo
di questa Corte di legittimità). A proposito della validità della querela si deve,
comunque, osservare che questa Corte ha affermato che in tema di formalità

poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità

della querela, il socio di una società in nome collettivo adempie all’onere di
indicazione della fonte dei poteri di rappresentanza della società con la mera
indicazione della qualità di socio, perché è principio generale che la società
in nome collettivo sta in giudizio per mezzo dei soci che ne hanno la
rappresentanza, e detta rappresentanza spetta disgiuntamente a ciascuno
degli stessi soci per tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale (Sez. 2,

Infine, la Corte di appello spiega correttamente perché rigetta la richiesta di
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per effettuare una perizia grafica
per accertare se fosse stato l’Arrotino a compilare gli assegni (si vedano le
pagine 6 e 7 dell’impugnata sentenza). Appare opportuno ricordare, in
proposito, che in relazione alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio — condiviso dal
Collegio – che atteso il carattere eccezionale della rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale in appello, il mancato accoglimento della
richiesta volta ad ottenere detta rinnovazione in tanto può essere censurato
in sede di legittimità in quanto risulti dimostrata, indipendentemente
dall’esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione
impugnata, la oggettiva necessità dell’adempimento in questione e, quindi,
l’erroneità di quanto esplicitamente o implicitamente ritenuto dal giudice di
merito circa la possibilità di “decidere allo stato degli atti”, come previsto
dall’art. 603, comma 1, del codice di procedura penale. Ciò significa che
deve dimostrarsi l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della
decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del
medesimo provvedimento o da altri atti specificamente indicati (come
previsto dall’art. 606, comma 1, lett. E, c.p.p.) e concernenti punti di decisiva
rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse
stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di
determinate prove in sede di appello. (Si vedano: Sez. 1, Sentenza n. 9151
del 28/06/1999 Ud. – dep. 16/07/1999 – Rv. 213923; Sez. 5, Sentenza n.
12443 del 20/01/2005 Ud. – dep. 04/04/2005 – Rv. 231682). Invece, come
già detto, gli imputati si sono limitati a generiche contestazioni a quanto
rilevato dalla Corte territoriale. In particolare non hanno tenuto conto degli
argomenti sulla base dei quali il Giudice di merito ha ritenuto irrilevante dal

Sentenza n. 38769 del 10/11/2006 Ud. – dep. 22/11/2006 – Rv. 235379).

punto di vista probatorio l’acquisizione di quanto chiesto dagli imputati.
Quanto sopra evidenzia, ulteriormente, l’inammissibilità del ricorso, sul punto,
trattandosi, con evidenza, di giudizio di merito sottratto all’esame di questa
Corte di legittimità se ben sorretto — come è nel nostro caso — da
un’adeguata motivazione.
Appare quindi evidente che tutte le critiche dei ricorrenti finiscono per
porsi come valutazioni di merito e, come tali, non esaminabili in questa sede.

Questa Corte ha, infatti, più volte affermato, anche a Sezioni Unite, che
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un
orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla corte di
Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il Giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula,
infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli
elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in
via esclusiva, riservata al Giudice di merito, senza che possa integrare il vizio
di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali”. (Sez. U, Sentenza n.
2110 del 23/11/1995 Ud. – dep. 23/02/1996 – Rv. 203767; Sez. U, Sentenza
n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205621; Sez. U, Sentenza n.
6402 del 30/04/1997 Ud. – dep. 02/07/1997 – Rv. 207945; Sez. 1, Sentenza
n. 2884 del 20/01/2000 Ud. – dep. 09/03/2000 – Rv. 215504; Sez. 1,
Sentenza n. 8738 del 23/01/2003 Ud. – dep. 21/02/2003 – Rv. 223572). A ciò
si aggiunga che gli imputati contrappongono, come già rilevato, solo
generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle argomentazioni
della Corte di appello. In particolare non evidenziano alcuna illogicità o
contraddizione nella motivazione della Corte territoriale allorchè conferma la
decisione del Tribunale. In proposito questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di
ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
8

provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004 – rv 230634). Infine, si deve osservare che l’illogicità della
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica

di specie non si ravvisano).
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che
dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono
essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonché —
ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità — al pagamento a favore della Cassa delle ammende della
somma di mille euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei
motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e, ciascuno, della somma di euro mille alla Cassa delle
ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 18/06/2013.

evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso

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