Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35743 del 05/07/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 35743 Anno 2013
Presidente: ZAMPETTI UMBERTO
Relatore: CAPOZZI RAFFAELE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LABIDI MANEL N. IL 13/12/1982
avverso la sentenza n. 178/2011 GIUDICE DI PACE di LECCO, del
30/09/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/07/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. RAFFAELE CAPOZZI
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. S
che ha concluso per t e

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Data Udienza: 05/07/2013

R.G.6370/12-RUOLO N.6 P.U. (2274)

RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 30 settembre 2011 il Giudice di pace di Lecco ha condannato
LABIDI Manel, cittadina extracomunitaria di nazionalità tunisina, alla pena di C
5.000,00 di ammenda per il reato di cui all’articolo 10 bis del d. legs. 25 luglio
1998 n. 286, per essersi illegalmente trattenuta nel territorio dello Stato Italiano,
siccome munita di passaporto con visto d’ingresso per turismo per 8 giorni,

mezzo prima, essendo stata sorpresa in Lecco il 10 maggio 2011.

2.Avverso detta sentenza propone personalmente ricorso per cassazione LABIDI
Manel eccependo:
I)-erronea applicazione della legge penale, per essere la norma applicata dal
giudice di pace in contrasto con la direttiva europea 2008/115/CE, da ritenere
applicabile direttamente al caso in esame; ed alla stregua di tale direttiva i
cittadini di paesi terzi irregolarmente soggiornanti avrebbero dovuto essere
rimpatriati secondo norme e procedure comuni a tutti gli Stati membri,
attraverso una serie di strumenti atti a garantire la minor compressione possibile
della libertà e dei diritti fondamentali dei destinatari;
II)-erronea applicazione della legge penale e motivazione contraddittoria e
manifestamente illogica, in quanto la corretta disamina degli elementi acquisiti
nel corso del processo avrebbe dovuto condurre all’esclusione del dolo o della
colpa nel suo comportamento, avendo essa ricorrente ritenuto di potersi
trattenere nel territorio nazionale per avere pienamente regolarizzato la propria
situazione di straniero irregolare, essendo rimasta vittima di raggiri da parte di
due soggetti, che l’avevano indotta a sborsare C 800,00 a titolo di contributi,
quale inizio della c.d. procedura di emersione;
III)-inosservanza di norme penali, per avere egli nominato quale proprio legale
di fiducia l’avv. Pietro Luigi CALZETTA, che aveva rinunciato al mandato, si da
indurre il giudice di pace a nominargli un difensore d’ufficio; e l’estratto
contumaciale della sentenza gli era stato notificato presso detto difensore
d’ufficio e non presso il proprio difensore di fiducia, nel cui studio aveva eletto
domicilio.

CONSIDERATO IN DIRMO
1.E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da LABIDI Manel.

1

validato con ingresso in Italia avvenuto il 1 gennaio 2010 e quindi un anno e

2.11 reato a lei contestato è previsto dall’art. 10 bis del decreto legislativo
25.7.1998 n.286, così come inserito dall’articolo 1 comma 16 0 lettera a) della
legge 15 luglio 2009 n. 94 e consiste nell’essersi trattenuta nel territorio dello
Stato in violazione delle disposizioni contenute nel decreto legislativo anzidetto,
nonché in violazione dell’articolo 1 della legge 28 maggio 2007 n.68.

3.E’ emerso che l’imputata, peraltro rimasta contumace nel giudizio di primo
grado, pur avendo fatto regolare ingresso in Italia, siccome munita di passaporto

per ingresso in Italia avvenuto il 1 gennaio 2010, è stata rinvenuta in Lecco circa
un anno e mezzo dopo e quindi ben oltre gli otto giorni entro i quali egli avrebbe
potuto chiedere il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5 comma 2 del d. 1gs.
n. 286 del 1998.
4.La norma di cui all’art. 10 bis d.lgs. n. 286 del 1998) ha di recente superato il
vaglio di compatibilità con i principi della Costituzione, avendo la Corte
Costituzionale, con sentenza n. 250 del 2010, rilevato che detta norma non
punisce una condizione personale e sociale e cioè quella di straniero
«clandestino» (o, più propriamente, «irregolare»), nè criminalizza un modo di
essere della persona, punendo essa uno specifico comportamento, costituito dal
«fare ingresso» ovvero dal «trattenersi» nel territorio dello Stato, in violazione
delle disposizioni di legge.
Si è quindi di fronte, rispettivamente, ad una condotta attiva istantanea (il
varcare illegalmente i confini nazionali) e una a carattere permanente di natura
omissiva, consistente nel non lasciare il territorio nazionale.
La condizione di “clandestinità” è, in questi termini, la conseguenza di una
condotta penalmente illecita posta in essere dallo straniero e non già un dato
preesistente ed estraneo al fatto, e la rilevanza penale si correla alla lesione del
bene giuridico individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione
dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo, bene
“strumentale”, attraverso la cui tutela si accorda protezione a beni pubblici
“finali” di sicuro rilievo costituzionale.
Per tali ragioni non è stata ritenuta una scelta arbitraria la predisposizione di una
tutela penale di siffatto interesse, che si atteggia a bene giuridico di “categoria”,
capace di accomunare buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo
unico del 1998.
Sulla base di tali argomentazioni la Corte costituzionale ha decretato la
compatibilità della norma di cui all’art. 10-bis d. 1gs. n. 286 del 1998 con alcuni
2

con visto d’ingresso in Italia per motivi di turismo valido per 8 giorni, convalidato

principi della Carta fondamentale, specificamente e principalmente con quelli
desumibili dagli artt. 2 e 3.

5.Quanto poi alla compatibilità della fattispecie contravvenzionale di cui all’art.
10 bis del d.lgs. n. 286 del 1998 con la normativa sovranazionale, in particolare
con la direttiva CE n. 115 del 2008, si è di recente registrato l’intervento
risolutivo della Corte di giustizia della Comunità europea, la quale, con decisione
del 6 dicembre 2012, presa sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai

carico di Md Sagor, ha appunto confermato la piena compatibilità della fattispecie
contravvenzionale in esame con la direttiva europeaa anzidetta.

6.Va peraltro aggiunto che anche la giurisprudenza di questa Corte ha più volte
statuito che la fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 10 bis d.lgs n. 286

del 1998, che punisce l’ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato,
non viola la c.d. direttiva europea sui rimpatri (direttiva Commissione CEE 16
dicembre 2008, n. 115), non comportando essa alcun intralcio alla finalità
primaria perseguita dalla direttiva predetta di agevolare ed assecondare l’uscita
dal territorio nazionale degli stranieri extracomunitari privi di valido titolo di
permanenza e neppure è in contrasto con l’art. 7, par. 1 della medesima, il
quale, nel porre un termine compreso tra i 7 e 30 giorni per la partenza
volontaria del cittadino di paese terzo, non per questo trasforma da irregolare a
regolare la permanenza dello straniero nel territorio dello Stato (cfr., in termini,
Cass. Sez. 1, n. 951 del 22/11/2011 (dep. 13/1/2012), Gueye, Rv. 251671).

7.E’ infondato al limite dell’inammissibilità anche il secondo motivo di ricorso,
con il quale la ricorrente lamenta l’insussistenza nel suo comportamento
dell’elemento psicologico (dolo o colpa), necessario per la configurabilità della
contravvenzione ascrittale, avendo fatto riferimento ad elementi di fatto, peraltro
addotti in modo del tutto generico e neppure supportati da adeguata
documentazione, non proponibili nella presente sede di legittimità.

8.E’ infine infondato il terzo motivo di ricorso, siccome ampiamente sanato dalla
circostanza che la ricorrente ha in concreto proposto regolare e tempestiva
impugnazione avverso la sentenza emessa dal Giudice di pace di Lecco, in tal
modo dimostrando di esserne venuta, comunque, a conoscenza della stessa e di
avere potuto quindi esercitare i suoi diritti di difesa.

3

sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale di Rovigo, nel procedimento penale a

9.Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame con condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso il 5 luglio 2013.

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