Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35730 del 27/03/2013
Penale Sent. Sez. 1 Num. 35730 Anno 2013
Presidente: ZAMPETTI UMBERTO
Relatore: ROCCHI GIACOMO
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
LOREFICE GIORGIO N. IL 18/08/1955
avverso la sentenza n. 3835/2009 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 15/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/03/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI
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Udito il Procuratore Qrals
che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.
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Data Udienza: 27/03/2013
RITENUTO IN FATI-0
1. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 15/2/2012, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale di Sciacca di assoluzione di Lorefice Giorgio
da tutti i reati contestati, lo dichiarava colpevole dei delitti di porto in luogo
pubblico di un manufatto esplosivo utilizzato per un attentato estorsivo e di
estorsione,
realizzata
con
il
danneggiamento
mediante esplosione
dell’appartamento e telefonata anonima alla persona offesa, ai danni di Di
l’aggravante dell’essersi avvalso della forza di intimidazione connessa ad un
sodalizio di tipo mafioso e delle condizioni di assoggettamento ed omertà da essa
derivanti.
I delitti erano stati posti in essere in Sciacca dal 29/5/2001 (giorno
dell’attentato) all’ottobre 2001. La Corte, inoltre, dichiarava estinti per
prescrizione í delitti di danneggiamento, di favoreggiamento a favore di un
latitante e di tentato furto aggravato nell’abitazione della stessa persona offesa
dell’estorsione.
La Corte territoriale, dopo aver dichiarato inammissibile l’appello de.k
Procuratore Generale e, al contrario, ammissibile quello del Procuratore della
Repubblica, respingendo specifiche eccezioni sollevate dalla difesa dell’imputato,
dava atto del percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Sciacca per
assolvere l’imputato e rivalutava in senso opposto alla sentenza di primo grado
gli elementi probatori acquisiti.
2. 1. Per i reati contestati all’odierno ricorrente era già stato condannato,
con sentenza divenuta irrevocabile, Ragusa Calogero.
L’attentato dinamitardo ai danni dell’abitazione di Giovanna Di Giuseppe era
avvenuto nella notte del 29/5/2001; 1’11/7/2001, in una telefonata anonima,
uno sconosciuto che si era presentato come “Raso” aveva detto all’ing. Di
Giovanna di “cercare la strada”; l’anonimo aveva detto di essere I’ “amico di
tredici anni prima” e il riferimento era risultato chiaro alla persona offesa,
avendo egli subito un grave danneggiamento ad un cantiere nell’ottobre 1988,
quando, appunto, era stato uno sconosciuto di nome “Raso” ad intimare la
consegna di lire 500.000.000.
Dopo aver ricevuto la telefonata, Di Giovanna ne aveva parlato con l’amico e
socio Lorefice Carmine che aveva suggerito di rivolgersi a Ragusa Calogero,
fratello di Salvatore, già condannato per aver fatto parte della famiglia mafiosa
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Giovanna Giuseppe, costretto a pagare la somma di lire 200 milioni; con
locale. Di Giovanna aveva incontrato Ragusa che, però, aveva riferito che il
fratello Salvatore non aveva saputo fornire informazioni.
Successivamente, Lorefice aveva riferito di avere ricevuto più telefonate da
“Raso” che intimava il pagamento di lire 200.000.000; Lorefice si era anche
detto convinto della provenienza mafiosa della richiesta estorsiva. Le successive
telefonate avevano indicato anche il luogo e le modalità del pagamento; Di
Giovanna aveva consegnato due involucri, ciascuno contenente la somma di lire
100.000.000 tra il 6 e il 7 settembre 2001. Lorefice aveva riferito di avere avuto
Come emergeva dalla sentenza di condanna del Ragusa, la voce di questi
era stata riconosciuta dagli inquirenti che stavano intercettando l’utenza del Di
Giovanna in occasione della prima telefonata estorsiva; una perizia aveva
confermato l’appartenenza della voce al Ragusa, il cui alibi, supportato da un
testimone compiacente, si era rivelato falso.
2.2. Decisiva era stata la testimonianza dì Annunziata Vito, già dipendente
di Ragusa Salvatore e Ragusa Calogero; Annunziata, inizialmente, aveva
accusato dell’attentato Marco Maglienti, ma successivamente aveva riferito
circostanze decisive sia per la responsabilità di Ragusa Salvatore, sia per quelle
di Lorefice Giorgio.
Per questa parte, la valutazione della Corte territoriale era opposta a quella
del Tribunale di Sciacca, che aveva ritenuto Annunziata inattendibile, mentre la
Corte lo riteneva pienamente attendibile, sottolineando che le sue dichiarazioni
erano riscontrate da numerosi elementi; la Corte, per ciascuna delle informazioni
fornite da Annunziata, indicava i riscontri, giustificava le inesattezze, spiegava i
motivi delle dichiarazioni, indicava i rapporti tra Ragusa e Lorefice e tra Lorefice
e Annunziata, oggetto di una diversa indagine per una truffa riguardante il
finanziamento dell’acquisto di un’autovettura Mercedes, valorizzava anche il
contenuto delle intercettazioni telefoniche svolte nel separato procedimento.
In particolare, Annunziata aveva riferito di essere stato incaricato da Ragusa
Calogero di appostarsi in un determinato luogo per verificare se Lorefice passava
da quel luogo e non era seguito da alcuno; di avere portato a Lorefice Giorgio
una busta consegnatagli da Ragusa Calogero (che si trovava agli arresti
domiciliari); di avere rinvenuto, su indicazioni di Lorefice, che era venuto
all’impianto di autolavaggio, una busta di plastica al cui interno si trovava una
cassetta per impianti elettrici contenente un timer artigianale e di averla buttata
nella spazzatura; di avere ricevuto in quell’occasione confidenze da Lorefice di
essere stato autore dell’attentato a Di Giovanna insieme a Ragusa e di avere
ottenuto che Di Giovanna, convinto che la richiesta estorsiva provenisse da
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istruzioni dì lasciare il pacco in un punto specifico del Comune di Caltabellotta.
locale capomafia, consegnasse la somma di lire 100.000.000; di avere riferito
Lorefice che il timer era stato realizzato con l’aiuto di tale Sorrentino Ciro,
latitante a Sciacca, ed in precedenza provato nella casa di campagna del padre di
Lorefice; di avere avuto successivamente confidenze dello stesso tenore da
Ragusa Calogero, dopo la revoca degli arresti domiciliari; di essere stato
minacciato di morte dallo stesso Ragusa affinché accusasse Marco Maglienti; di
avere avuto riferito da Ragusa di aver costretto tale Tortorici a confermare il suo
alibi concernente la telefonata minatoria; di avere partecipato, nel corso del
nella villa di Di Giovanna, non portata a termine per la presenza inaspettata del
figlio; di essersi recato, insieme a Ragusa, a casa di Di Giovanna per riferirgli che
autore dell’attentato era stato solo Lorefice; di avere fatto delle confidenze su
queste circostanze a Bellanca Luigi e La Rosa Giuseppe e di avere ricevuto da
loro confidenze su altre condotte del Ragusa; di essersi inoltre confidato con il
maresciallo Sestito.
La Corte osservava che Annunziata, una volta scelta la strada della
collaborazione, si era rivelato costante e leale nel proprio atteggiamento nei
confronti degli inquirenti; aveva, inoltre, fornito informazioni originali che,
secondo la Corte, erano state ingiustamente trascurate dal primo giudice.
2.3. Analoga diversità di valutazione da parte della Corte territoriale rispetto
a quelle del Tribunale di Sciacca concerneva la deposizione della persona offesa
Di Giovanna Giuseppe: il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inattendibile
per avere, in una prima fase, ripetutamente negato di avere versato denaro a
seguito dell’attentato del 29/5/2001 e, in una seconda fase, per essersi
dimostrato reticente, svelando poi solo progressivamente gli elementi di prova in
suo possesso, costituiti da un CD contenente l’immagine scannerizzata delle
banconote consegnate a Lorefice Giorgio per il pagamento della somma oggetto
dell’estorsione e dalla registrazione audio di una conversazione risalente al
7/9/2004.
La Corte motivava sullo stato di terrore in cui Di Giovanna si trovava,
condizione che lo aveva indotto ad abbandonare il posto di lavoro, nonché sulla
reazione omertosa che ne era seguita. Egli, in incidente probatorio, aveva
affermato di avere agito in questo modo per tutelare la sua famiglia e di essersi
convinto a collaborare dopo aver saputo che le dichiarazioni di Annunziata erano
divenute di pubblico dominio e che la matrice dell’estorsione non era mafiosa,
come gli aveva fatto credere Lorefice: ciò gli era già stato riferito da Ragusa e
Annunziata, ma egli, in prima battuta, non aveva dato loro credito, anche perché
non riusciva a credere che il suo amico e socio fosse autore della condotta
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2003, insieme a Ragusa, Lorefice ed “Enzo” di Palermo, ad un tentativo di furto
illecita.
Il CD contenente le immagini delle banconote era stato prodotto nella
seconda occasione in cui Di Giovanna aveva collaborato, vale a dire in occasione
dell’incidente probatorio; un mese prima egli aveva deposto al dibattimento a
carico di Ragusa, senza farne menzione, ma la Corte riteneva attendibile la
giustificazione di un ritrovamento casuale dell’oggetto e sottolineava che il CD
era stato certamente realizzato in occasione del pagamento, perché riproduceva
banconote in lire, sicuramente non più disponibili in quella entità (quasi lire 200
confermato che, dopo aver ricevuto la telefonata estorsiva dell’11/7/2001, Di
Giovanna si era procurato una somma pari a circa 182.000.000 di lire in vari
modi, anche ottenendo un prestito da un parente e facendosi scambiare assegni
dallo stesso Lorefice.
All’udienza dibattimentale del 26/9/2007 e del 17/10/2007, la persona
offesa aveva, poi, prodotto la registrazione di una conversazione ambientale a
suo dire tenuta con Lorefice Giorgio il 7/9/2004: in quel periodo, successivo
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0<" NIA./4. all'arresto di Ragusa, su suggerimento della moglie(Lortse)portava con sé un
registratore digitale acceso, a causa del grave stato di tensione in cui si trovava.
La Corte, alla luce della perizia svolta dal perito Luciano e delle
considerazioni svolte dal consulente della parte civile, giudicava errate, opinabili
e prive di fondamento scientifico le conclusioni del Tribunale di Sciacca, che
aveva affermato l'avvenuta manipolazione del contenuto della conversazione
registrata, ritenendo, al contrario, attendibili le circostanze riferite da Di
Giovanna sulle modalità di registrazione e di riversamento del file audio sul computer. Di Giovanna aveva anche spiegato che egli aveva prodotto
tardivamente il file perché riteneva di avere compiuto una condotta illecita
registrando la conversazione all'insaputa di Lorefice.
Il contenuto del file, in realtà, è limitato ad alcune frasi dalle quali si poteva
comprendere che Lorefice aveva effettivamente ricevuto il denaro dell'estorsione
da Di Giovanna; l'imputato, secondo la Corte, di fronte a questa registrazione
aveva mutato la strategia difensiva, passando da una sostanziale ammissione
(peraltro non riguardante la consegna di denaro da parte del Di Giovanna) alla
tesi della manipolazione, sostenendo che gli interlocutori si riferivano al denaro
oggetto dell'estorsione del 1988, risultando così inattendibile.
La Corte censurava la sentenza di primo grado che, dopo aver sostenuto
l'avvenuta manipolazione del file, lo riportava in motivazione, desumendo la
verità di quanto affermato da Di Giovanna circa la consegna del denaro a
Lorefice. 5 milioni) nel 2004. D'altro canto le indagini bancarie e l'istruttoria avevano In definitiva, secondo la Corte, Di Giovanna Giuseppe era attendibile; le sue
dichiarazioni avevano trovato conferma in quelle della moglie Viviano Enza.
Secondo la Corte, il Tribunale, nel giungere alla valutazione opposta, aveva
illogicamente tralasciato di domandarsi il motivo per cui la persona offesa e il
figlio - che pure erano legati da reale amicizia e colleganza con Lorefice avrebbero dovuto mentire deliberatamente ai suoi danni: piuttosto, questo
legame giustificava l'atteggiamento omertoso iniziale, venuto meno solo quando
la persona offesa si era resa conto che l'estorsione non proveniva dalla mafia 2.4. La testimonianza di Di Giovanna Mario, figlio della persona offesa,
aveva per oggetto le telefonate ricevute nell'abitazione in occasione del tentato
furto alla villa dei Di Giovanna che, nell'ottobre 2001, si erano recati a Vicenza
ad accompagnare una figlia che doveva iscriversi ad un corso di studi.
Della loro partenza essi avevano avvisato solo Lorefice Giorgio, chiedendogli
addirittura di custodire le chiavi della villa, richiesta cui egli aveva opposto un
rifiuto. Di Giovanna Mario era rientrato a Sciacca per partecipare al battesimo di
una figlia della cugina e aveva ricevuto alcune telefonate mute, nella prima delle
quali aveva distintamente sentito una frase in cui si esprimeva sorpresa per la
presenza di qualcuno a casa.
Il Tribunale aveva ritenuto inattendibile il teste per l'errata indicazione delle
date del suo rientro e della ricezione della prima telefonata anonima e per
l'indicazione errata del numero delle telefonate ricevute.
La Corte riteneva, al contrario, integralmente riscontrato, sia dai tabulati
telefonici, sia dalle testimonianze, il racconto di Di Giovanna Mario, sia pure
impreciso sulle date esatte degli eventi, e evidenziava la perfetta corrispondenza
a quello di Annunziata Vito sul tentativo di furto posto in essere su indicazione di
Lorefice e in concorso con Ragusa.
Un dato eclatante che, secondo la Corte, sarebbe stato oggetto di un
grossolano errore di valutazione da parte del Tribunale, era costituito dalla
circostanza che una delle telefonate mute era partita da un'utenza che, sebbene
intestata ad una donna, era in uso a Lorefice. 2.5. Quanto alle deposizione di La Rosa Giuseppe e Bellanca Luigi, che
avevano riferito delle confidenze ricevute da Annunziata Vito in ordine
all'attentato che Ragusa e Lorefice avevano organizzato ai danni dell'ing. Di
Giovanna, rispetto alla valutazione di inattendibilità dei due testi espressa dal
Tribunale, la Corte affermava l'inesistenza di una plausibile ragione per la quale
essi avrebbero dovuto avallare le accuse di Annunziata contro Lorefice, contro 6 locale, ma dall'amico. cui non avevano alcuna ostilità (mentre essa sussisteva nei confronti di Ragusa
Calogero), censurando il giudice di primo grado per avere tralasciato questa
considerazione e per non avere considerato la linearità della condotta di
Bellanca: egli, dopo aver registrato il colloquio con Annunziata, aveva
consegnato la cassetta alle forze dell'ordine. 2.6. La Corte, tirando le fila di queste considerazioni, riteneva il racconto di
Di Giovanna Giuseppe pienamente attendibile e ampiamente riscontrato: questi mostrandogli un atto concernente la posizione di Ragusa e dicendogli che egli era
stato ingiustamente sospettato dell'attentato e che bisognava scagionarlo; in un
primo incontro con Ragusa, questi aveva confermato la circostanza;
successivamente Lorefice aveva, invece, suggerito a Di Giovanna, che l'aveva
rifiutata, di accusare l'imprenditore Maglienti Marco.
Solo nel luglio 2004, Ragusa e Annunziata erano arrivati a casa di Di
Giovanna, indicandogli Lorefice come autore della condotta, nei tentativo di
Ragusa di escludere da sé ogni responsabilità. La moglie Viviano Enza aveva
confermato integralmente il racconto di Di Giovanna e, stranamente, il Tribunale
non aveva considerato la sua testimonianza; d'altra parte, la visita di Ragusa e
Annunziata all'abitazione di Di Giovanna emergeva anche da un'intercettazione dì
una conversazione tenuta dalla figlia della persona offesa. 2.7. Non solo: Lorefice Giorgio, nel suo interrogatorio, aveva ampiamente
riscontrato la versione di Di Giovanna sull'incarico ricevuto dopo la telefonata
dell'11/7/2001, sui contatti intrapresi con Ragusa Calogero, sull'incontro
procurato tra Dì Giovanna e Ragusa, sul cambio degli assegni in favore di Dì
Giovanna e anche sul colloquio casuale avuto con Di Giovanna il 7/9/2004,
ignorando che l'interlocutore lo aveva registrato.
Lorefice, peraltro, aveva negato di avere ricevuto le telefonate dal sedicente
"Raso" nonché di avere avuto in consegna dalla persona offesa e portato a
destinazione la somma di lire 200 milioni nel luogo stabilito.
La versione dell'imputato, secondo la Corte territoriale, era mutata al
progredire delle emergenze probatorie: mentre inizialmente aveva sostenuto
che, in occasione dell'attentato del 1988, egli non aveva pagato alcuno, dopo la
produzione della registrazione del colloquio con Di Giovanna aveva affermato il
contrario, per la necessità di giustificare le frasi che facevano riferimento alla
ricezione del denaro e alla consegna a terzi.
La Corte, riportando il testo del colloquio, sottolineava che il riferimento
fatto da Lorefice ai soldi del Di Giovanna portati a qualcuno era evidente. La 7 aveva riferito che, a marzo o aprile 2002, Lorefice si era presentato a casa sua versione secondo cui l'incontro era avvenuto nello studio e non per strada e il
nastro era stato manipolato era smentito dal contenuto della conversazione e
dalla perizia espletata. Nessun riscontro esisteva della circostanza che, a seguito
dell'attentato del 1988, Di Giovanna avesse pagato qualche somma alla mafia
locale, né che la persona offesa fosse mai stata sospettata di connivenza con le
cosche: se tale connivenza vi fosse stata, egli si sarebbe rivolto alle cosche in
occasione del secondo attentato e non all'amico che gli aveva indicato il nome di
Ragusa Calogero. presentato l'estorsore del 1988, cosicché Ragusa Calogero, quando aveva
effettuato la telefonata dell'11/7/2001, non poteva che avere avuto da lui questa
informazione. La Corte sottolineava che anche il Tribunale aveva ritenuto che Lorefice
avesse effettivamente ricevuto il denaro da Di Giovanna, dato che era
confermato anche da due intercettazioni tra l'imputato e la sorella, del tutto
trascurate dal giudice di primo grado; ma, in modo del tutto illogico, il Giudice di
primo grado aveva svalutato la circostanza, isolandola da tutto il contesto
indiziario, perfettamente coerente e convergente nell'indicare l'imputato quale
ideatore e partecipe dei fatti contestati.
In definitiva Di Giovanna, la moglie Viviano Enza e Annunziata non avevano
affatto mentito nei loro racconti. 2.8. La Corte elencava gli indizi gravi, precisi e concordanti a carico di
Lorefice: l'imputato era uno dei pochi soggetti a conoscenza dell'estorsione,
patita da lui e da Di Giovanna, e dell'uso del nome "Raso" da parte
dell'estorsore; era in rapporti di confidenza e complicità con Ragusa Calogero
con cui, nello stesso periodo, aveva organizzato affari illeciti; era una delle
pochissime persone a potergli suggerire il nome "Raso" da usare nella telefonata
dell'11/7/2001; aveva una conoscenza della villa dei Di Giovanna ed, in
particolare, del locale seminterrato dove erano custoditi i computer del
capofamiglia, oggetto dell'attentato; aveva dimestichezza con armi, polvere da
sparo e munizioni; era a conoscenza che Di Giovanna, in quel periodo, avrebbe
ricevuto una ingente somma dalla Provincia di Agrigento per una parcella; aveva
rivendicazioni nei confronti del Di Giovanna per l'opera da lui prestata; era in una
situazione economica non brillante, con debiti per circa trenta milioni di lire e
l'immobile di abitazione pignorato; aveva tenuto un comportamento
incomprensibile la notte dell'attentato, transitando per la strada davanti alla casa
oggetto dell'esplosione ma non fermandosi, benché chiamato da Di Giovanna, 8 Piuttosto, solo Lorefice era a conoscenza del nome "Raso" con cui si era giustificandosi il giorno successivo con la sua ubriachezza; la condotta era stata
incomprensibile anche il giorno successivo, quando solo alle 12'00, dopo avere
sbrigato altre faccende, si era recato dai Di Giovanna; era stato lui a mettere in
contatto Dì Giovanna Giuseppe con Ragusa Calogero che era proprio colui che
aveva effettuato la telefonata estorsiva; aveva riferito a Di Giovanna telefonate
inesistenti provenienti dal sedicente "Raso" e aveva preteso da fare da
intermediario e consegnatario della somma, così ingannando anche i complici
sulla somma ricevuta, indicata in lire 100.000.000 mentre, al contrario, egli all'insaputa dei correi; aveva monitorato l'andamento del pagamento da parte
della Provincia di Agrigento, così giungendo ad indicare una somma pretesa dagli
estorsori quasi identica a quella che Di Giovanna aveva incassato; aveva
percorso effettivamente la strada che, a suo dire, gli estorsori gli avevano
indicato per la consegna del denaro, venendo così osservato da Annunziata,
incaricato da Ragusa; le vicende processuali del Ragusa lo avevano indotto a
distruggere il timer compromettente nascosto nell'impianto di autolavaggio e,
successivamente, quando Ragusa era stato indagato per la telefonata, egli si era
attivato personalmente, con Di Giovanna e con Ragusa, per sviare le indagini su
Marco Maglienti, in pieno accordo con il Ragusa stesso, come dimostrava
un'annotazione dei carabinieri, che avevano visto Ragusa e Annunziata salutare
Lorefice uscito dalla deposizione con il P.M.; aveva ostinatamente negato di
avere ricevuto il denaro da Di Giovanna Giuseppe, benché le conversazioni
intercettate lo smentissero. Secondo la Corte, l'errore del Tribunale era stato di operare una valutazione
atomistica degli indizi, così giudicandoli in modo erroneo e non aderente al dato
probatorio e ritenendoli inattendibili e non significativi; approdando, fra l'altro,
ad una conclusione che nemmeno l'imputato aveva mai prospettato.
La Corte escludeva l'esistenza di un accordo calunnioso tra Annunziata e
Ragusa ai danni di Lorefice e, ancor di più, l'adesione della persona offesa a
detto accordo. 2.9. Affermata, pertanto, la responsabilità dell'imputato per i reati sub A) e
C), la Corte riteneva sussistente anche l'aggravante del metodo mafioso alla luce
delle modalità dell'attentato, del tenore della telefonata estorsiva e dei
riferimenti fatti successivamente da Lorefice alla matrice mafiosa del delitto.
L'aggravante poteva essere applicata anche nei confronti di chi, come l'imputato,
non fa parte di associazioni mafiose. 9 aveva ricevuto il doppio, essendosi fatto confezionare da Di Giovanna due pacchi La Corte dava atto che i delitti di danneggiamento, di favoreggiamento
personale e di tentato furto pluriaggravato erano prescritti; li riteneva
ampiamente provati sottolineando, con riferimento a quello di tentato furto
aggravato, che gli errori del Tribunale erano evidenti, alla luce delle evidenze
probatorie ampiamente richiamate, tra le quali l'utilizzo dell'utenza pacificamente
in uso a Lorefice Giorgio per l'effettuazione di quattro chiamate tra quelle
effettuate per verificare se la villa dei Di Giovanni fosse disabitata e potesse,
quindi, essere oggetto del furto programmato, utenza utilizzata anche per tenere emergeva dalle intercettazioni in corso in quei giorni. In esso Lorefice aveva
svolto un ruolo essenziale nell'ideazione, preparazione ed esecuzione dell'azione.
Secondo la Corte il tentativo era giunto ad una fase punibile. La Corte riteneva i delitti per i quali affermava la responsabilità riuniti per
continuazione; riteneva l'imputato non meritevole delle attenuanti generiche per
la singolare gravità oggettiva dei fatti, per le modalità particolarmente
riprovevoli di commissione, per l'entità dei danni arrecati e per il giudizio
altamente negativo sulla sua personalità; la Corte sottolineava anche l'intensità
del dolo.
La pena veniva determinata in anni otto e mesi sei di reclusione ed euro
1.600,00 di multa. 3. Ricorre per cassazione il difensore di Lorefice Giorgio, deducendo distinti
motivi. 3.1. Con un primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1 lett. c) cod. proc. pen. in relazione all'art. 570 cod. proc. pen..
L'atto di appello era stato proposto da un Sostituto procuratore già trasferito
dalla Procura di Sciacca a quella di Palermo, senza assegnazione alla locale
D.D.A., Ufficio competente di Procura a presentare appello in conseguenza della
contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991. Al predetto
magistrato erano state affidate le funzioni di P.M. in relazione al dibattimento in
corso e, dopo il trasferimento a Palermo, egli era stato destinato alla trattazione
del procedimento in questione per la fase dibattimentale.
La Corte territoriale aveva rigettato l'eccezione sulla base dell'applicazione
alla D.D.A. per la trattazione del giudizio ex art. 70 bis ord. giud., con ordine di
servizio di cui il C.S.M. aveva preso atto senza formulare alcun rilievo, nonché
sulla circostanza che, avendo presentato le conclusioni durante il giudizio di
primo grado, ai sensi dell'art. 570, comma 2, cod. proc. pen., era legittimato a 10 contatti con Ragusa e con Piombino Vincenzo. Il tentato furto, fra l'altro, proporre appello in via autonoma.
Secondo il ricorrente, il richiamo all'art. 570, comma 2, cod. proc. pen. non
è sufficiente perché il magistrato era stato trasferito ad altro Ufficio e quindi non
faceva più parte dell'Ufficio del P.M. funzionalmente competente a proporre
impugnazione, mentre l'applicazione alla D.D.A. riguardava solo la fase
dibattimentale e, non comprendeva, quindi, la proposizione dell'appello. 3.2. In un secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 606, 597 cod. proc. pen., all'art. 10 della Costituzione e all'art. 533 cod. proc. pen.
La Corte aveva dato grande rilevanza alle fonti dichiarative nonostante la
loro incompatibilità con i dati cronologici e tecnici, cosicché la motivazione è
manifestamente contraddittoria rispetto ad altri atti del processo. Il contrasto
con l'art. 6 della C.E.D.U. deriva dalla valutazione di attendibilità dei testimoni,
ritenuti inattendibili dal Tribunale, senza che i testimoni fossero stati escussi
direttamente dalla Corte, prassi censurata da una recente sentenza della Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo. La sentenza, quindi, tramite una interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 597 cod. proc. pen., deve essere ritenuta
illegittima in assenza di una rinnovazione dibattimentale avente ad oggetto
l'esame delle fonti dichiarative ritenute false dal Tribunale. 3.3. In un terzo motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett.
b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 178, 191, 192, 220 e 546 cod.
proc. pen., 110, 61 n. 2 cod. pen., 4 legge 895 del 1967, 424, 425, comma 2,
629 cod. pen., 533, 238 bis cod. proc. pen. e 157 cod. pen..
Con riferimento al file audio registrato il 7/9/2004 e depositato il 26/9/2007,
il Tribunale ne aveva ritenuto la manipolazione. La Corte, in assenza della
rinnovazione parziale dell'istruttoria, pure richiesta dalle parti civili, aveva
ribaltato il giudizio formulato dai primi giudici, escludendo la manipolazione. Ciò
era conseguenza di violazioni di legge: la Corte aveva utilizzato una memoria a
firma di tale dott. Zonaro, che non era stato nominato consulente di parte, né
era stato escusso in dibattimento, contrapponendola alla perizia del prof.
Luciano; inoltre era incorsa in un travisamento della prova, richiamando alcuni
frammenti della deposizione dibattimentale del perito che, al contrario, aveva
ripetutamente affermato che la manipolazione era avvenuta.
La motivazione della Corte, in violazione dell'art. 546, comma 1, lett. e) cod.
proc. pen., non forniva adeguata contezza delle ragioni per cui il giudizio di
inattendibilità espresso dal Tribunale non dovesse ritenersi conforme al dato
processuale. In ogni caso, trattandosi di registrazione non originale, essa non 11 comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 6 C.E.D.U., all'art. poteva essere in alcun modo utilizzata in termini probatori: del resto, l'imputato
aveva denunciato la manipolazione della registrazione ancor prima che venisse
eseguita la perizia, che l'aveva poi confermata.
La Corte non aveva quindi superato le conclusioni del Tribunale circa la
falsità dell'elemento di prova e la falsità di entrambe le testimonianze di Di
Giovanna Giuseppe e Di Giovanna Mario. Ciò si riverbera sull'applicazione dell'art. 238 bis cod. proc. pen., che impone forniti, venendo, al contrario acquisiti elementi nuovi e diversi che
compromettono l'attendibilità della persona offesa, principale fonte di prova a
carico del Lorefice. La difesa aveva evidenziato una serie di elementi di prova contrastanti con
la ricostruzione operata da Di Giovanna Giuseppe in ordine al reperimento e alla
consegna all'imputato di una somma di lire 200 milioni con memoria del
15/2/2012: tali elementi erano stati omessi e travisati dalla Corte territoriale.
Il ricorrente, in particolare, sottolinea che la vicenda dell'estorsione da parte
di tale "Raso" risalente al 1988 era conosciuta anche dagli esponenti dell'allora
famiglia mafiosa di Sciacca, come emergeva da una nota informativa acquisita al
fascicolo per il dibattimento. Alcuni di essi erano ritenuti gli autori del
danneggiamento ai danni della società A.RE.TU.SA.. Ragusa Salvatore, fratello di
Calogero, aveva commentato la vicenda e, quindi, Ragusa Calogero poteva avere
conosciuto dettagli del primo attentato. Di Giovanna Giuseppe aveva rapporti
con Di Gangi Salvatore e questo lo rendeva inattendibile quando affermava di
avere pagato la somma di lire 200 milioni senza conoscere in alcun modo il
destinatario della somma. L'osservazione della Corte che i predetti soggetti
mafiosi non erano stati chiamati a rispondere dell'attentato del 1988 era priva di
rilevanza, perché il dato serviva a dimostrare che la vicenda non era conosciuta
solo dal Lorefice, ma anche da altri soggetti. L'informativa di polizia, per di più,
conteneva una conversazione in cui gli interlocutori parlavano di una telefonata
fatta a Di Giovanna, circostanza che smentiva l'affermazione della Corte secondo
cui detto atto non conteneva alcun riferimento al soggetto di nome "Raso". Si
tratta, in definitiva, di motivazione omessa e manifestamente illogica. Analogo vizio emerge dall'attendibilità attribuita a Di Giovanna, che
sosteneva di essere intimorito, benché, al contrario di Lorefice, affermasse di
non avere mai pagato alcunché per l'estorsione del 1988.
La Corte, poi, aveva fatto riferimento alla possibilità per Di Giovanna di 12 riscontri esterni individualizzanti che, nel presente processo, non sono stati rivolgersi ai suoi contatti e all'ex socio Dimino per risolvere la questione, senza
tenere conto che egli, all'epoca, era detenuto.
In ogni caso Di Giovanna era inattendibile e la Corte aveva omesso di
spiegare per quale motivo la sua versione di non aver pagato nel 1988 e di
ignorare il beneficiario della somma versata nel 2001 non costituissero elementi
sintomatici dell'inattendibilità del dichiarante. L'epoca in cui la persona offesa aveva provveduto a reperire il denaro secondo le stesse parole di Di Giovanna, cosicché l'indicazione del 17/7/2001 da
parte della Corte come data dell'inizio dei prelievi era arbitraria. Le prove
smentivano la versione della persona offesa del reperimento della somma tra la
prima settimana di agosto e la prima settimana di settembre. In particolare, la
testimonianza di Genna Antonino indicava che il prestito fatto a Di Giovanna di
60 - 70 milioni di lire era antecedente alla telefonata estorsiva: la Corte aveva
arbitrariamente parcellizzato la dichiarazione, ritenendo imprecisi i riferimenti
temporali, piegando il contenuto della dichiarazione testimoniale in senso
indiziario, nonostante il contenuto della testimonianza fosse diverso.
La motivazione era carente, perché non veniva fornita adeguata motivazione
per non valutare una prova a discarico.
La nota, comunque, aveva dimostrato che i prelievi dai conti correnti da
parte del Di Giovanna non superavano la somma di lire 45 milioni e ciò
dimostrava l'inattendibilità della persona offesa. Ma la Corte, smentendo le
stesse dichiarazioni di Di Giovanna, aveva fatto riferimento a prelievi svolti nel
periodo 17 - 31 luglio 2001: in questo modo aveva adottato una decisione
contrastante con i dati probatori oggettivi e cronologici. Il vizio sussisteva anche con riferimento al CD contenente le copie
scannerizzate delle banconote asseritamente consegnate da Di Giovanna: la
Corte, al contrario del Tribunale, aveva disatteso la prova tecnica costituita dalla
perizia, che indicava come assolutamente incerta la data di creazione dei files;
ma l'assenza di certezza della data rendeva il supporto informatico
processualmente irrilevante.
Illogico era anche il riferimento alla data di entrata in vigore dell'euro,
poiché l'ultimo giorno utile per la conversione in euro delle lire era stato il
3/12/2011. La Corte aveva omesso di valutare la prova a discarico costituita dalla
mancanza di qualunque prova dell'incasso di denaro contante da parte di 13 destinato agli estorsori non poteva essere anteriore al 6 - 7 agosto 2001, Lorefice; questi, nel gennaio 2002, aveva acquistato un'autovettura pagandola
con assegni di conto corrente e con un finanziamento. Manifestamente illogica era la motivazione della Corte con riferimento alle
condizioni economiche di Lorefice, che godeva di un reddito notevole e aveva
sottoscritto un titolo finanziario per lire 50 milioni con bonifico bancario pochi
giorni dopo avere ricevuto una ingente somma di denaro da parte di Di Giovanna
come corrispettivo di una prestazione professionale. la mancata costituzione di parte civile nei confronti di Ragusa, Annunziata e
Piombino sulla base della loro solvibilità. Il ricorrente richiama la motivazione del Tribunale sulla inattendibilità
intrinseca di Dì Giovanna e censura per omessa motivazione l'argomentazione
della Corte, che non avrebbe enunciato alcuna plausibile ragione per cui
superare il giudizio di inattendibilità intrinseca. Anche la motivazione sui riscontri esterni individualizzanti era illegittima.
In particolare, la Mercedes classe A, a bordo della quale l'imputato aveva
collocato il denaro oggetto dell'estorsione secondo il racconto di Dì Giovanna, era
entrata nella disponibilità di Lorefice solo il 27/9/2001 e, quindi, non era nel suo
possesso nei primi giorni dello stesso mese.
La Corte non aveva rilevato che il mendacio su questo aspetto era da
attribuire ad entrambi i coniugi e non solo a Di Giovanna e aveva ignorato il
principio secondo cui le dichiarazioni provenienti da due soggetti conviventi non
possono essere di reciproco riscontro, a meno che non risulti che le fonti di
conoscenza siano autonome. L'articolo del giornale locale che aveva provocato l'intercettazione tra
Lorefice e la sorella non era mai stato acquisito.
La conversazione intercettata, comunque, non aveva significato univoco; per
di più era congetturale la considerazione secondo cui Lorefice aveva temuto di
essere intercettato nel corso della prima conversazione. La conversazione non
poteva, quindi, costituire un indizio certo, anche perché i rapporti economici tra
Lorefice e Di Giovanna erano diversi e contestuali proprio all'epoca del presunto
pagamento della somma di denaro per l'estorsione. Con riferimento alle dichiarazioni di Annunziata Vito, le risultanze
processuali dimostravano l'esistenza di un accordo calunniatorio tra lui e Ragusa 14 I debiti menzionati dalla Corte erano inesistenti; e la Corte aveva giustificato ai danni di Lorefice, che Ragusa cercava di far confessare.
Il ricorrente sottolinea che Ragusa e Lorefice non potevano ritenersi
concorrenti nel reato perché, in quel caso, il primo non poteva avere interesse a
ricevere dichiarazioni da Lorefice, che avrebbe fatto riferimento alla sua
corresponsabilità. La Corte aveva superato questa osservazione evidenziando i
diversi ruoli dei due complici ed escludendo Ragusa dalla fase esecutiva
dell'attentato.
Si trattava di argomentazioni illegittime e irricevibili, mentre la vicenda La motivazione della Corte è manifestamente illogica quando, pur
ammettendo che Annunziata aveva reso dichiarazioni false fino al 2004, nega la
sua tendenza a mentire per effetto della struttura della sua personalità.
Il Tribunale aveva evidenziato la falsità e inattendibilità delle dichiarazioni di
Annunziata, ma la Corte aveva svalorizzato gli errori nell'ordine cronologico degli
avvenimenti, dato che il Tribunale aveva ritenuto sintomo di inattendibilità del
teste, giudizio in alcun modo contrastato nella sentenza impugnata.
Il ricorrente sottolinea che l'errore riguarda proprio il momento in cui
Annunziata avrebbe avuto da Lorefice notizie sulla sua partecipazione
all'estorsione; altra falsità riguardava l'utilizzo della cassetta fatta prelevare dal
Lorefice nell'attentato al Di Giovanna, dato che aveva indotto la Corte ad una
congettura concernente una prova eseguita in precedenza.
Ulteriore difetto di motivazione riguardava la conoscenza tra Lorefice e
Annunziata: il Tribunale, rilevando che il primo era un semplice cliente
dell'autolavaggio dove il secondo lavorava, aveva espresso perplessità sulla
confidenza relativa a condotte così gravi; la Corte aveva superato questo dato,
senza fornire motivazione contraria, facendo riferimento alla truffa ordita per il
finanziamento della Mercedes Classe A intestata all'Annunziata, elemento già
preso in considerazione dal Tribunale per dimostrare che, poiché Lorefice aveva
subito dalla condotta di Annunziata un danno di lire 10.000.000, i rapporti tra i
due non erano certo tali da indurre Lorefice alla confidenza.
I pessimi rapporti tra Ragusa e Annunziata da una parte e Lorefice dall'altra
emergevano anche dallo smarrimento degli assegni denunciati dal secondo di cui
Ragusa era ritenuto responsabile. Sul punto la motivazione era del tutto illogica. Quanto alle dichiarazioni di Bellanca e La Rosa, essi erano stati ritenuti
inattendibili dal Tribunale con adeguata motivazione; la Corte aveva ribaltato
questo giudizio senza nemmeno prendere in considerazione le argomentazioni
del Tribunale. 15 dimostrava l'assenza di correità tra i due soggetti. 3.4. In un quarto motivo, si denuncia la violazione dell'art. 606, comma 1,
lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 7 di. 152 del 1991, 517 e
522 cod. proc. pen..
L'aggravante era stata contestata dal P.M. ai sensi dell'art. 517 cod. proc.
pen. all'udienza del 17/10/2007; la difesa aveva eccepito l'inammissibilità della
contestazione suppletiva, in quanto i fatti su cui il P.M. fondava la contestazione
erano già acquisiti al fascicolo del P.M. anteriormente alla richiesta di rinvio a
giudizio. Il Tribunale aveva, al contrario, ammesso la contestazione suppletiva. ricorrente, cosicché la relativa eccezione può essere motivo di ricorso per
cassazione.
Il ricorrente chiede che la sentenza venga dichiarata nulla nella parte in cui
ha applicato l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991, in assenza di
elementi nuovi emersi per la prima volta in dibattimento. La sentenza, secondo il
ricorrente, è comunque censurabile laddove ha riconosciuto la configurabilità
dell'aggravante in esame in assenza palese dei presupposti di legge, in
mancanza di qualsivoglia collegamento dell'imputato con un'associazione
mafiosa. Fra l'altro, secondo l'imputazione, Lorefice aveva ingannato la persona
offesa sulla riconducibilità della richiesta estorsiva al gruppo mafioso. Il
ricorrente sottolinea, infine, che il metodo mafioso non è stato contestato a
Ragusa Calogero, separatamente giudicato. 3.5. In un quinto motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di
motivazione con riferimento all'affermazione di responsabilità per il delitto di
tentato furto di cui al capo G.
La motivazione della Corte non riusciva a superare la stringente motivazione
del Tribunale, che era giunto a ritenere la falsità della testimonianza di Di
Giovanna Mario: la Corte non contrastava il crollo del costrutto accusatorio sul
punto fondamentale della consapevolezza da parte di Lorefice dell'assenza
dall'abitazione di tutti i componenti la famiglia Di Giovanna, tenuto conto, fra
l'altro, che la fidanzata di Mario Di Giovanna aveva affermato che il giovane era
rimasto a casa. Su questo punto emergeva l'accordo fraudolento tra Di Giovanna
Giuseppe, Di Giovanna Mario e Annunziata Vito per accusare Lorefice del
tentativo di furto.
La Corte non spiegava adeguatamente perché Mario Di Giovanna avesse
indicato una data errata del suo arrivo a Sciacca e aveva addirittura disatteso la
testimonianza circa il giorno in cui era giunta la prima telefonata sospetta,
limitandosi a rilevare che le telefonate non risultavano dai tabulati. La Corte
aveva sostenuto ripetutamente che il teste aveva sbagliato ma era credibile, ciò 16 In conseguenza dell'assoluzione, l'ordinanza non era stata impugnata dal costituendo un palese vizio di manifesta illogicità della motivazione. Altrettanto
palese era la forzatura della data della festa tenuta da Mario De Giovanna nella
sua abitazione, spostata al 30/10/2001, quando egli aveva riferito di averla
tenuta il 29, mentre la fidanzata l'aveva addirittura anticipata di diversi giorni. Lo
spostamento della data della festa mirava a collegare detta festa con la presenza
di Piombino, correo del tentato furto, a Sciacca.
Sul punto della festa si riscontrava la palese inattendibilità di Annunziata,
che dava per tenuta una festa che, invece, si era tenuta il giorno prima. 30/10/2001 dimostrano che quel giorno non vi era stata alcuna festa: e, sul
punto, la Corte era ricorso alle congetture, ipotizzando telefonate dei familiari da
nessuno riferite. Sempre con riferimento al tentato furto, il ricorrente sottolinea che
l'ubicazione della cassaforte era noto anche a sconosciuti, e non solo a Lorefice,
poiché, nel 1999, il Di Giovanna aveva denunciato un furto di preziosi: dato del
tutto pretermesso dalla Corte.
Ancora, con riferimento alla telefonata proveniente dal telefono in uso a
Lorefice, il Tribunale aveva argomentato sull'irrilevanza del dato, con una
motivazione del tutto tralasciata dalla Corte. In definitiva, con riferimento al capo G, la ricostruzione operata dalla Corte
era frutto di una totale demolizione del quadro probatorio arbitrariamente
ricostruito al fine di giustificare un pregiudizio ai danni dell'imputato. 3.6. In un sesto motivo, il ricorrente contesta la violazione di legge e il vizio
di motivazione con riferimento al reato sub D) di favoreggiamento personale
rispetto al latitante Sorrentino Ciro.
Il Tribunale aveva ampiamente motivato l'assoluzione sulla mancanza
dell'elemento soggettivo del reato, accreditando la versione del ricorrente di
avere ignorato che Sorrentíno, che egli ospitava, fosse latitante, tanto da uscire
con lui negli esercizi pubblici e presentarlo ad altre persone.
La Corte, per superare tale motivazione, ipotizzava in via congetturale che
Sorrentino fosse in possesso di documenti falsi, così cadendo nel difetto assoluto
di motivazione. 3.7. In un settimo motivo, il ricorrente denuncia violazione di legge con
riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche, non avendo la
Corte evidenziato gli elementi positivi quali l'incensuratezza e l'intervento posto 17 Anche le telefonate all'utenza della fidanzata, avvenute nel giorno del in essere dopo la richiesta di aiuto da parte di Di Giovanna. Il ricorrente conclude per l'annullamento della sentenza impugnata. 4. La difesa delle parti civili Di Giovanna Giuseppe e altri ha depositato
memoria.
In essa si sostiene l'infondatezza del primo motivo di gravame per i motivi Quanto alla violazione dell'art. 6 della C.E.D.U. lamentata nel secondo
motivo di ricorso, le parti civili sottolineano che la Corte è arrivata
all'affermazione di responsabilità dell'imputato non per una smisurata
valorizzazione delle prove dichiarative, ma in virtù di una corretta analisi dei dati
tecnici e cronologici. La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
riguardava i casi in cui la prova testimoniale è decisiva, requisito che non ricorre
nel caso di specie, attesa l'abbondanza dei dati oggettivi: la sentenza
irrevocabile nei confronti di Ragusa Calogero, le acquisizioni documentali
concernenti l'eseguito pagamento di 200 milioni di lire da parte di Giuseppe De
Giovanna, la registrazione audio del colloquio del 7/9/2004, le conversazioni
telefoniche intrattenute dall'imputato, le dichiarazioni dello stesso imputato, le
annotazioni di P.G., i tabulati e le intercettazioni telefoniche, le ulteriori sentenze
acquisite. Quanto al terzo motivo di gravame, le parti civili sottolineano che, con il
ricorso, si tenta di indurre questa Corte ad esprimere valutazioni di merito,
mentre il giudizio sulla motivazione ha un ambito circoscritto, in quanto il vizio di
manifesta illogicità deve risultare ictu oculi dal testo della motivazione. Si tratta,
quindi, di motivo di ricorso inammissibile.
Nel merito delle contestazioni, le parti civili argomentano sulla esatta
valutazione della registrazione audio senza alcun travisamento della perizia
redatta dall'ing. Luciano; negano, poi, recisamente che la Corte abbia omesso
l'esame della memoria difensiva del 15/2/2012, avendo, al contrario, esaminato
tutte le obiezioni presentate in tale memoria, citandola nei passi rilevanti
riguardanti la conoscenza da parte di altri soggetti dell'uso del nome "Raso" da
parte dell'anonimo estorsore del 1988, il pagamento della tangente nel 1988 da
parte di Lorefice (che aveva sempre negato tale pagamento, cambiando versione
solo all'udienza dibattimentale del 17/10/2007 per contrastare la registrazione
del colloquio prodotto dalle parti civili), la conoscenza di soggetti mafiosi da
parte di Di Giovanna, il reperimento della somma di lire 200 milioni dopo la 18 esposti dalla Corte territoriale. telefonata dell'11/7/2001, il CD contenente l'immagine delle banconote
scannerizzate, le condizioni economiche di Lorefice, l'acquisto del titolo
finanziario del valore di lire 50 milioni.
La Corte aveva ampiamente valutato l'attendibilità dell'ing. Giuseppe Di
Giovanna, in modo meticoloso e convincente.
Quanto all'autovettura in uso al Lorefice, la Viviano non aveva affatto
sostenuto che l'imputato usasse la Mercedes, mentre Di Giovanna aveva
espresso incertezza: ciò dimostrava l'assenza di qualsiasi accordo sul punto tra i Lorefice.
L'analisi delle intercettazioni tra Lorefice e la sorella era ampia e logica;
l'articolo del giornale "Otto e mezzo" era stato ritualmente acquisito al fascicolo
per il dibattimento.
La parte civile sottolinea che Annunziata Vito era stato dichiarato attendibile
dal Tribunale di Sciacca che aveva condannato Ragusa Calogero; il giudizio
opposto formulato nel presente processo dal Tribunale è frutto di errori ed
omissioni, sanati dalla valutazione della Corte d'appello che li esamina con
estrema cura e attendibilità, motivando, in particolare, sulle incongruenze
temporale in maniera del tutto logica.
Travisata dal ricorso è la valutazione della lettera con cui Ragusa avrebbe
ordinato di disfarsi della cassetta nascosta nell'impianto.
Ampia e convincente è la motivazione concernente la conoscenza tra
Annunziata e Lorefice, soprattutto con riferimento all'esito degli accertamenti
eseguiti nella separata indagine concernente la truffa avente ad oggetto il
finanziamento ottenuto per l'acquisto di una autovettura.
Con riferimento alla vicenda degli assegni rubati - che avrebbe giustificato la
rottura dei rapporti tra Lorefice e Ragusa - la motivazione della Corte è
convincente quando accredita la versione, sostenuta dallo stesso imputato, circa
la mancanza di sospetti sul Ragusa come autore della sottrazione al momento
della denuncia di smarrimento; il ricorso nega l'esistenza di assegni firmati in
bianco che, al contrario, sono menzionati nel decreto di citazione a giudizio nei
confronti di Di Leo Gaspare, che aveva ricevuto uno dei titoli.
Quanto all'attendibilità di Bellanca e De Rosa, il ricorso svolge considerazioni
in fatto, e perciò inammissibili; emergeva, comunque, il travisamento della
testimonianza di Bellanca da parte del Tribunale di Sciacca. La Corte aveva
limitato la portata probatoria delle testimonianze e aveva, comunque,
logicamente considerato che il coinvolgimento di Lorefice non poteva spiegarsi
con un malanimo nei suoi confronti da parte dei due soggetti che, al contrario,
avevano come obbiettivo solo Ragusa. 19 due coniugi ed era giustificato dai frequenti cambi di autovetture da parte del La Corte aveva dimostrato ampiamente che la tesi, sostenuta dal ricorrente,
della "circolarità" delle dichiarazioni mendaci dell'Annunziata è infondata,
elencando tutti i dati di conoscenza originali forniti dallo stesso e i riscontri
ottenuti; quasi tutte le informazioni erano sconosciute a Di Giovanna. Le parti civili sostengono l'infondatezza del quarto motivo di ricorso
(contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991) alla luce della
giurisprudenza delle Sezioni unite richiamata dal Tribunale e della giurisprudenza del 1999. Come osservato dal Tribunale, nessuna lesione del diritto di difesa
dell'imputato si era, comunque, prodotta.
In ogni caso, la contestazione era stata effettuata solo dopo che l'istruttoria
dibattimentale aveva fatto emergere la circostanza del pagamento dell'ingente
somma a causa della forza di intimidazione contenuta nella telefonata
dell'11/7/2001, con il riferimento al sedicente "Raso", che lasciava intendere il
coinvolgimento della cosca locale.
Nel merito, la mancata partecipazione dell'imputato ad una associazione
mafiosa non impediva il riconoscimento dell'aggravante. Con riferimento al quinto motivo di ricorso, le parti civili, analizzando l'intero
compendio probatorio, sostengono che era stato il Tribunale, e non la Corte, a
piegare i dati oggettivi probatori emergenti dagli atti, proponendo una
motivazione infedele rispetto al testo del processo. Comunque il ricorso è da
considerarsi inammissibile, in quanto propone censure in fatto e chiede a questa
Corte di rivalutare gli elementi di prova. In conclusione, le parti civili, chiedono la conferma della sentenza
impugnata, anche con riferimento alla valutazione concernente il
favoreggiamento a favore di Sorrentino e alla mancata concessione delle
attenuanti generiche. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. L'art. 570, comma 2, cod. proc. pen. dispone che l'impugnazione possa
essere proposta anche dal rappresentante del P.M. che ha presentato le
conclusioni.
Si tratta di disposizione che accresce i poteri del rappresentante del P.M. che 20 costante formatasi anche successivamente all'approvazione della legge n. 479 ha presentato le conclusioni, conferendogli una propria legittimazione
all'impugnazione (Sez. 1, n. 11353 del 12/10/1992 - dep. 25/11/1992, P.M. in
proc. D'Orazio, Rv. 192894) e che, quindi, si applica per ogni caso di
presentazione delle conclusioni (Sez. 1, n. 27549 del 23/06/2010 - dep.
15/07/2010, P.M. in proc. Costanzo e altro, Rv. 247672, per il ricorso proposto
dal magistrato del pubblico ministero organicamente incardinato nella Procura
della Repubblica presso il Tribunale, qualora abbia presentato le conclusioni nel
giudizio di secondo grado cui abbia partecipato previo provvedimento quest'ultimo). La norma trova, quindi, applicazione anche al caso di specie, nel quale il
magistrato, applicato alla D.D.A. di Palermo, era stato designato, ai sensi
dell'art. 70 bis ord. giud., alla trattazione del presente giudizio: infatti, in base
alla norma summenzionata, la legittimazione ad appellare la sentenza di primo
grado deve essere riconosciuta al Procuratore distrettuale e, nel caso in cui
quest'ultimo si sia avvalso della facoltà prevista dal comma 3 ter del citato art.
51 cod. proc. pen., anche al rappresentante del pubblico ministero presso il
giudice competente che ha presentato le conclusioni nel dibattimento di primo
grado.
Né si può sostenere che la delega, essendo prevista solo per il dibattimento,
non sarebbe stata idonea a conferire al pubblico ministero delegato per l'udienza
alcun autonomo potere di impugnazione: la legittimazione ad impugnare deriva
direttamente dal secondo comma dell'art. 570 cod. proc. pen. che non prevede
deroghe (Sez. 1, n. 8777 del 05/05/1999 - dep. 08/07/1999, Belforte, Rv.
214885).
Se, quindi, come ampiamente argomentato nella sentenza impugnata sulla
base della documentazione acquisita, l'applicazione alla trattazione del
dibattimento era stata ritualmente emessa, l'aver presentato le conclusioni
conferiva a quel magistrato la legittimazione a proporre appello avverso la
sentenza di impugnazione. 2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Secondo il ricorrente, una interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 597 cod. proc. pen., conforme all'art. 6 della Convenzione Europea dei
Diritti dell'Uomo, impone al giudice di appello, che intenda ribaltare la decisione
di primo grado valutando diversamente l'attendibilità dei testimoni, di sentire
nuovamente detti testimoni. 21 autorizzativo del Procuratore Generale della Repubblica, in qualità di sostituto di Questa Corte ha, invece, ritenuto manifestamente infondata l'eccezione di
legittimità costituzionale dell'art. 603 cod. proc. pen. - la norma processuale che
permetterebbe la nuova escussione dei testimoni in appello - per contrasto con
l'art. 117 della Costituzione e l'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti
dell'Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria
obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova
audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di
Appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione dell'imputato. europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia, impone
di rinnovare l'istruttoria solo in presenza di due presupposti: la decisività della
prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di
appello dell'attendibilità dei testimoni (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012 - dep.
02/10/2012, Luperi e altri, Rv. 253541). Si deve, comunque, negare che il giudice d'appello, per procedere alla
reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado, sia tenuto in linea
generale a procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
In effetti, se, come più volte affermato, in assenza di mutamenti del
materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria
di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della
decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità
del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole
dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano
minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (da ultimo, Sez. 6, n. 8705
del 24/01/2013 - dep. 21/02/2013, Farre e altro, Rv. 254113), l'onere imposto
non può spingersi oltre, se il giudice di appello ha fornito una lettura corretta e
logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice (Sez. 4,
n. 4100 del 06/12/2012 - dep. 25/01/2013, Bifulco, Rv. 254950). Il principio di diritto che si può desumere dalla decisione della Corte Europea
dei Diritti dell'Uomo già menzionata è, in realtà, il seguente: laddove la prova
essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto,
dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per
disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della
medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali, ma è tenuto a
raccogliere nuovamente la prova innanzi a sé per poter operare una adeguata
valutazione di attendibilità, salvo possibili casi particolari (quale può essere un
evidente errore del primo giudice che, per esempio, ritenga la testimonianza 22 In effetti, l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte falsa perché nega una circostanza che il giudice erroneamente ritenga vera o
viceversa) (cfr., per l'analisi della pronuncia, Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013 dep. 12/04/2013, Caboni ed altro, Rv. 254623). La fattispecie che si presenta nell'odierno processo è del tutto differente:
come sottolineato dalle parti civili e come emerge con chiarezza dall'esposizione
fatta nella prima parte della presente sentenza, il compendio probatorio che ha
dato origine alle due sentenze di segno opposto è amplissimo e variegato, identificata nell'affermazione che un teste, ritenuto inattendibile dal giudice di
primo grado, è stato, al contrario, ritenuto attendibile da quello di appello.
La Corte territoriale ha, piuttosto, ritenuto di fornire una lettura corretta e
logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice e, in
questa complessiva rivalutazione del materiale probatorio ha inserito anche la
valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni: ha preteso, comunque, di non
lasciare alcun ragionevole dubbio sulla fondatezza dell'imputazione, quindi
assolvendo appieno l'onere motivazionale. 3. Il terzo motivo di ricorso riguarda, appunto, la valutazione complessiva
del materiale probatorio. Come anticipato, la Corte territoriale mostra di seguire il principio
giurisprudenziale ormai pacifico di un onere motivazionale rafforzato che grava
sul giudice di appello che riforma una sentenza di assoluzione di primo grado.
Evidente è il tentativo del ricorrente di sollecitare, mediante la denuncia di
violazioni di legge e di vizio motivazionale, una valutazione del fatto da parte di
questa Corte, che, invece, è preclusa in questa sede. Occorre ribadire che,
perché sussista il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.,
occorre che esso risulti "dal testo del provvedimento" e che l'illogicità sia
"manifesta", così da ritenere la motivazione viziata da evidenti errori
nell'applicazione delle regole della logica.
La lettura della sentenza impugnata e la memoria della parte civile,
comunque, dimostrano ampiamente che i vizi denunciati non sussistono.
Con riferimento al file audio riportante la conversazione tra Di Giovanna
Giuseppe e Lorefice Giorgio, la mera lettura della sentenza smentisce il
ricorrente quando sostiene che la opposta valutazione datane dalla sentenza di
appello si basa principalmente sulla consulenza tecnica del consulente delle parti
civili; si trattava di memoria tecnica, firmata anche dal difensore che indicava 23 cosicché l'essenza della decisione in appello non può, in alcun modo, essere determinate circostanze che, comunque, non risultano centrali nella lettura della
perizia del prof. Luciano, i cui risultati sono attentamente e logicamente
esaminati, fino a giungere ad una conclusione importante: che il colloquio non
era stato manipolato quanto al contenuto della registrazione, ma sotto altri
profili, l'amplificazione del rumore ("evidenziazione del parlato") e l'
"aggiustamento di guadagno".
Il ricorso non dimostra affatto il travisamento della perizia, riportando, non a
caso, un passo dell'esame del perito in cui si fa riferimento all'amplificazione del La eccezione di ìnutilizzabilità del file è infondata: la Corte territoriale, con
motivazione attenta e logica, dà credito alla versione offerta dalla persona offesa
con riguardo alle circostanze della registrazione e alle modalità del riversamento
e del riascolto della stessa e, quindi, afferma che la registrazione è utilizzabile,
pur essendo frutto di operazioni tecniche successive ad essa, essendo possibile
affermare che il colloquio tra i due soggetti era avvenuto nei termini da essa
riportata.
Si deve ricordare che la giurisprudenza costante di questa Corte afferma che
la copia di un documento, quando sia idonea ad assicurare l'accertamento dei
fatti, ha valore probatorio anche al di fuori del caso di impossibilità di recupero
dell'originale (da ultimo Sez. 2, n. 36721 del 21/02/2008 - dep. 25/09/2008,
Buraschi e altro, Rv. 242083), purché essa sia idonea ad assicurare
l'accertamento dei fatti (Sez. 3, n. 2065 del 22/01/1997 - dep. 05/03/1997,
Winkler, Rv. 207104): si tratta di applicazione del principio di non tassatività dei
mezzi di prova stabilito dall'art. 189 cod. proc. pen.; occorreva, ovviamente,
accertare la provenienza del documento (art. 239 cod. proc. pen.), verifica
ampiamente eseguita dalla Corte territoriale. Con riferimento al contenuto della memoria difensiva con cui la difesa
dell'imputato sosteneva l'inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e
del figlio Mario, si deve condividere l'affermazione della difesa della parte civile
secondo cui la Corte ha tenuto conto della memoria, più volte esplicitamente
menzionata, senza eludere alcuna questione.
Ciò vale per quanto riguarda la conoscenza da parte di una pluralità di
soggetti dell'uso del nome "Raso" da parte dell'estorsore del 1988 (motivazione
amplissima, pagg. 62 - 65, il cui contenuto non è affatto riducibile a quanto
esposto nel ricorso che sostiene un travisamento della prova senza
specificamente indicarla e riportarla); sull'avvenuto pagamento della tangente
del 1988, negato da Di Giovanna e affermato da Lorefice (la circostanza è
richiamata per sostenere la diversa interpretazione del colloquio registrato tra i 24 rumore. due soggetti); sul reperimento della somma di lire 200 milioni successivamente
all'11/7/2001; sulla valenza del CD ronn che riproduceva le banconote utilizzate
per il pagamento. Nessuna manifesta illogicità della motivazione si ricava quanto
alla valutazione delle condizioni economiche di Lorefice.
La motivazione sulla attendibilità intrinseca di Di Giovanna Giuseppe è
ampia, attenta e niente affatto manifestamente illogica; il presunto accordo
calunniatorio tra Di Giovanna e la moglie non è affatto svelato dall'errore in
ordine all'autovettura che Lorefice aveva quando Di Giovanna gli consegnò i incertezza sul dato e, del resto, il cambio dell'autovettura risaliva proprio a
quell'epoca; d'altro canto, il tipo e il colore dell'autovettura è un dato
palesemente secondario, mentre la consegna del denaro è attestata dalla
sentenza irrevocabile di condanna a carico di Calogero Ragusa.
L'intercettazione tra Lorefice e la sorella faceva riferimento ad un articolo di
giornale che - come dimostra la parte civile con puntuali indicazioni - era stato
acquisito al fascicolo per il dibattimento; l'interpretazione del colloquio adottata
dalla Corte è motivata logicamente, cosicché questa Corte non può rivalutare il
dato; né il ricorrente si riferisce ad un vero e proprio travisamento della prova.
Ampiamente motivata, in maniera niente affatto illogica, è l'attribuita
attendibilità ad Annunziata Vito che il ricorrente, con ogni evidenza, vuole far
rivalutare a questa Corte, così come quella di Bellanca e La Rosa. Si deve sottolineare che la Corte non si limita ad analizzare i singoli elementi
di prova, ma giunge ad una valutazione conclusiva e sintetica della vicenda che
si mostra niente affatto illogica o contraddittoria con gli atti del processo
accuratamente esaminati. Il motivo di ricorso deve, in definitiva, essere rigettato. 4. Anche il quarto motivo di ricorso è infondato, sia sotto il profilo
sostanziale che sotto quello processuale. Quanto alla legittimità della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l.
152 del 1991, si deve ricordare l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa
Corte secondo cui la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 c.p.p. e la
contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui
all'art. 517 c.p.p. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del
dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque
anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle 25 pacchi contenenti il denaro, atteso che entrambi i coniugi hanno mostrato indagini preliminari (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998 - dep. 11/03/1999, Barbagallo,
Rv. 212757); la giurisprudenza successiva è costante in senso conforme al detto
insegnamento (da ultimo Sez. 6, n. 44501 del 29/10/2009 - dep. 19/11/2009,
Cardella, Rv. 245006), mentre la pronuncia invocata dal ricorrente è rimasta del
tutto isolata. Quanto al merito dell'aggravante, si è costantemente affermato che per la
configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso", prevista necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione
per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste
tipicamente mafiosa (Sez. 1, n. 5881 del 04/11/2011 - dep. 15/02/2012,
Giampa', Rv. 251830; Sez. 1, n. 16883 del 13/04/2010 - dep. 04/05/2010,
Stellato e altri, Rv. 246753); quindi si applica anche alla condotta di un soggetto
non appartenente ad associazioni mafiose, se è fondata sulla loro esistenza in
una data zona (Sez. 1, n. 4898 del 26/11/2008 - dep. 04/02/2009, Cutolo, Rv.
243346). Si è, ad esempio, affermato che integra la circostanza aggravante
dell'uso del metodo mafioso la condotta di colui che ottenga somme destinate
alla distribuzione ai sodali in occasione delle festività pasquali e natalizie,
ponendosi al cospetto delle persone offese come emissario di un gruppo
criminale organizzato e rappresentando loro l'incontrastabilità e l'ineluttabilità
degli scopi dell'associazione (Sez. 1, n. 17532 del 02/04/2012 - dep.
10/05/2012, Dolce, Rv. 252649). La fattispecie in esame corrisponde esattamente a questa ipotesi, poiché la
persona offesa era stata indotta a ritenere che l'estorsione provenisse da
appartenenti ad associazioni mafiose, in grado di porre in essere gravissimi atti
di violenza come quello subito da Di Giovanna. 5. Il quinto e sesto motivo di ricorso sono manifestamente infondati.
La motivazione della Corte territoriale è ampia e convincente e, d'altro
canto, in presenza della avvenuta prescrizione dei reati, la pronuncia di
assoluzione era possibile soltanto in presenza dell'evidenza dell'innocenza
dell'imputato, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. art. 531,
comma 1, cod. proc. pen.).
Si tenga presente che né il tentato furto (capo G) né, tanto meno, il
favoreggiamento personale a favore di Sorrentino Ciro (capo D) erano condotte
produttive di danno nei confronti della parte civile costituita Di Giovanna
Giuseppe, cosicché non ricorreva la necessità per la Corte di una motivazione 26 dall'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in I. 12 luglio 1991, n. 203), non è approfondita con riferimento ai possibili effetti civilistici della stessa.
La motivazione, comunque, è stata assai ampia anche per detti reati,
dimostrando la Corte ampiamente l'impossibilità di ritenere evidente l'innocenza
dell'imputato. 6. L'ultimo motivo di ricorso è altrettanto infondato. La sentenza impugnata fornisce una motivazione di oltre due pagine per segnalando la gravità oggettiva dei fatti, le modalità riprovevoli della loro
commissione, l'entità dei danni arrecati, le negative e spregevoli caratteristiche
della personalità dell'imputato.
Questa Corte ha ritenuto ammissibili e legittime motivazioni ben più
sintetiche, affermando che la concessione o meno delle attenuanti generiche
rientra nell'ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il
cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura
sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva
del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010 - dep.
23/11/2010, Straface, Rv. 248737) e sottolineando che, nel motivare il diniego,
non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi
favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente
che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti,
rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364
del 16/06/2010 - dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv. 248244). Il ricorso deve, in definitiva, essere rigettato, con conseguente condanna
dell'imputato al pagamento delle spese processuali e alla refusione delle spese
sostenute nel presente grado dalle parti civili. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese
del grado, che liquida nella complessiva somma di euro 7.200, oltre spese
generali, IVA e CAP come per legge.
Così deciso il 27 marzo 2013 gliMOSITATA giustificare la mancata concessione delle attenuanti generiche all'imputato,