Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35730 del 27/03/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 35730 Anno 2013
Presidente: ZAMPETTI UMBERTO
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LOREFICE GIORGIO N. IL 18/08/1955
avverso la sentenza n. 3835/2009 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 15/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/03/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI
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Udito il Procuratore Qrals
che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

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Data Udienza: 27/03/2013

RITENUTO IN FATI-0

1. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 15/2/2012, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale di Sciacca di assoluzione di Lorefice Giorgio
da tutti i reati contestati, lo dichiarava colpevole dei delitti di porto in luogo
pubblico di un manufatto esplosivo utilizzato per un attentato estorsivo e di
estorsione,

realizzata

con

il

danneggiamento

mediante esplosione

dell’appartamento e telefonata anonima alla persona offesa, ai danni di Di

l’aggravante dell’essersi avvalso della forza di intimidazione connessa ad un
sodalizio di tipo mafioso e delle condizioni di assoggettamento ed omertà da essa
derivanti.
I delitti erano stati posti in essere in Sciacca dal 29/5/2001 (giorno
dell’attentato) all’ottobre 2001. La Corte, inoltre, dichiarava estinti per
prescrizione í delitti di danneggiamento, di favoreggiamento a favore di un
latitante e di tentato furto aggravato nell’abitazione della stessa persona offesa
dell’estorsione.

La Corte territoriale, dopo aver dichiarato inammissibile l’appello de.k
Procuratore Generale e, al contrario, ammissibile quello del Procuratore della
Repubblica, respingendo specifiche eccezioni sollevate dalla difesa dell’imputato,
dava atto del percorso argomentativo seguito dal Tribunale di Sciacca per
assolvere l’imputato e rivalutava in senso opposto alla sentenza di primo grado
gli elementi probatori acquisiti.

2. 1. Per i reati contestati all’odierno ricorrente era già stato condannato,
con sentenza divenuta irrevocabile, Ragusa Calogero.

L’attentato dinamitardo ai danni dell’abitazione di Giovanna Di Giuseppe era
avvenuto nella notte del 29/5/2001; 1’11/7/2001, in una telefonata anonima,
uno sconosciuto che si era presentato come “Raso” aveva detto all’ing. Di
Giovanna di “cercare la strada”; l’anonimo aveva detto di essere I’ “amico di
tredici anni prima” e il riferimento era risultato chiaro alla persona offesa,
avendo egli subito un grave danneggiamento ad un cantiere nell’ottobre 1988,
quando, appunto, era stato uno sconosciuto di nome “Raso” ad intimare la
consegna di lire 500.000.000.
Dopo aver ricevuto la telefonata, Di Giovanna ne aveva parlato con l’amico e
socio Lorefice Carmine che aveva suggerito di rivolgersi a Ragusa Calogero,
fratello di Salvatore, già condannato per aver fatto parte della famiglia mafiosa
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Giovanna Giuseppe, costretto a pagare la somma di lire 200 milioni; con

locale. Di Giovanna aveva incontrato Ragusa che, però, aveva riferito che il
fratello Salvatore non aveva saputo fornire informazioni.
Successivamente, Lorefice aveva riferito di avere ricevuto più telefonate da
“Raso” che intimava il pagamento di lire 200.000.000; Lorefice si era anche
detto convinto della provenienza mafiosa della richiesta estorsiva. Le successive
telefonate avevano indicato anche il luogo e le modalità del pagamento; Di
Giovanna aveva consegnato due involucri, ciascuno contenente la somma di lire
100.000.000 tra il 6 e il 7 settembre 2001. Lorefice aveva riferito di avere avuto

Come emergeva dalla sentenza di condanna del Ragusa, la voce di questi
era stata riconosciuta dagli inquirenti che stavano intercettando l’utenza del Di
Giovanna in occasione della prima telefonata estorsiva; una perizia aveva
confermato l’appartenenza della voce al Ragusa, il cui alibi, supportato da un
testimone compiacente, si era rivelato falso.

2.2. Decisiva era stata la testimonianza dì Annunziata Vito, già dipendente
di Ragusa Salvatore e Ragusa Calogero; Annunziata, inizialmente, aveva
accusato dell’attentato Marco Maglienti, ma successivamente aveva riferito
circostanze decisive sia per la responsabilità di Ragusa Salvatore, sia per quelle
di Lorefice Giorgio.
Per questa parte, la valutazione della Corte territoriale era opposta a quella
del Tribunale di Sciacca, che aveva ritenuto Annunziata inattendibile, mentre la
Corte lo riteneva pienamente attendibile, sottolineando che le sue dichiarazioni
erano riscontrate da numerosi elementi; la Corte, per ciascuna delle informazioni
fornite da Annunziata, indicava i riscontri, giustificava le inesattezze, spiegava i
motivi delle dichiarazioni, indicava i rapporti tra Ragusa e Lorefice e tra Lorefice
e Annunziata, oggetto di una diversa indagine per una truffa riguardante il
finanziamento dell’acquisto di un’autovettura Mercedes, valorizzava anche il
contenuto delle intercettazioni telefoniche svolte nel separato procedimento.
In particolare, Annunziata aveva riferito di essere stato incaricato da Ragusa
Calogero di appostarsi in un determinato luogo per verificare se Lorefice passava
da quel luogo e non era seguito da alcuno; di avere portato a Lorefice Giorgio
una busta consegnatagli da Ragusa Calogero (che si trovava agli arresti
domiciliari); di avere rinvenuto, su indicazioni di Lorefice, che era venuto
all’impianto di autolavaggio, una busta di plastica al cui interno si trovava una
cassetta per impianti elettrici contenente un timer artigianale e di averla buttata
nella spazzatura; di avere ricevuto in quell’occasione confidenze da Lorefice di
essere stato autore dell’attentato a Di Giovanna insieme a Ragusa e di avere
ottenuto che Di Giovanna, convinto che la richiesta estorsiva provenisse da

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istruzioni dì lasciare il pacco in un punto specifico del Comune di Caltabellotta.

locale capomafia, consegnasse la somma di lire 100.000.000; di avere riferito
Lorefice che il timer era stato realizzato con l’aiuto di tale Sorrentino Ciro,
latitante a Sciacca, ed in precedenza provato nella casa di campagna del padre di
Lorefice; di avere avuto successivamente confidenze dello stesso tenore da
Ragusa Calogero, dopo la revoca degli arresti domiciliari; di essere stato
minacciato di morte dallo stesso Ragusa affinché accusasse Marco Maglienti; di
avere avuto riferito da Ragusa di aver costretto tale Tortorici a confermare il suo
alibi concernente la telefonata minatoria; di avere partecipato, nel corso del

nella villa di Di Giovanna, non portata a termine per la presenza inaspettata del
figlio; di essersi recato, insieme a Ragusa, a casa di Di Giovanna per riferirgli che
autore dell’attentato era stato solo Lorefice; di avere fatto delle confidenze su
queste circostanze a Bellanca Luigi e La Rosa Giuseppe e di avere ricevuto da
loro confidenze su altre condotte del Ragusa; di essersi inoltre confidato con il
maresciallo Sestito.
La Corte osservava che Annunziata, una volta scelta la strada della
collaborazione, si era rivelato costante e leale nel proprio atteggiamento nei
confronti degli inquirenti; aveva, inoltre, fornito informazioni originali che,
secondo la Corte, erano state ingiustamente trascurate dal primo giudice.

2.3. Analoga diversità di valutazione da parte della Corte territoriale rispetto
a quelle del Tribunale di Sciacca concerneva la deposizione della persona offesa
Di Giovanna Giuseppe: il giudice di primo grado lo aveva ritenuto inattendibile
per avere, in una prima fase, ripetutamente negato di avere versato denaro a
seguito dell’attentato del 29/5/2001 e, in una seconda fase, per essersi
dimostrato reticente, svelando poi solo progressivamente gli elementi di prova in
suo possesso, costituiti da un CD contenente l’immagine scannerizzata delle
banconote consegnate a Lorefice Giorgio per il pagamento della somma oggetto
dell’estorsione e dalla registrazione audio di una conversazione risalente al
7/9/2004.
La Corte motivava sullo stato di terrore in cui Di Giovanna si trovava,
condizione che lo aveva indotto ad abbandonare il posto di lavoro, nonché sulla
reazione omertosa che ne era seguita. Egli, in incidente probatorio, aveva
affermato di avere agito in questo modo per tutelare la sua famiglia e di essersi
convinto a collaborare dopo aver saputo che le dichiarazioni di Annunziata erano
divenute di pubblico dominio e che la matrice dell’estorsione non era mafiosa,
come gli aveva fatto credere Lorefice: ciò gli era già stato riferito da Ragusa e
Annunziata, ma egli, in prima battuta, non aveva dato loro credito, anche perché
non riusciva a credere che il suo amico e socio fosse autore della condotta

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2003, insieme a Ragusa, Lorefice ed “Enzo” di Palermo, ad un tentativo di furto

illecita.
Il CD contenente le immagini delle banconote era stato prodotto nella
seconda occasione in cui Di Giovanna aveva collaborato, vale a dire in occasione
dell’incidente probatorio; un mese prima egli aveva deposto al dibattimento a
carico di Ragusa, senza farne menzione, ma la Corte riteneva attendibile la
giustificazione di un ritrovamento casuale dell’oggetto e sottolineava che il CD
era stato certamente realizzato in occasione del pagamento, perché riproduceva
banconote in lire, sicuramente non più disponibili in quella entità (quasi lire 200

confermato che, dopo aver ricevuto la telefonata estorsiva dell’11/7/2001, Di
Giovanna si era procurato una somma pari a circa 182.000.000 di lire in vari
modi, anche ottenendo un prestito da un parente e facendosi scambiare assegni
dallo stesso Lorefice.
All’udienza dibattimentale del 26/9/2007 e del 17/10/2007, la persona
offesa aveva, poi, prodotto la registrazione di una conversazione ambientale a
suo dire tenuta con Lorefice Giorgio il 7/9/2004: in quel periodo, successivo

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0<" NIA./4. all'arresto di Ragusa, su suggerimento della moglie(Lortse)portava con sé un registratore digitale acceso, a causa del grave stato di tensione in cui si trovava. La Corte, alla luce della perizia svolta dal perito Luciano e delle considerazioni svolte dal consulente della parte civile, giudicava errate, opinabili e prive di fondamento scientifico le conclusioni del Tribunale di Sciacca, che aveva affermato l'avvenuta manipolazione del contenuto della conversazione registrata, ritenendo, al contrario, attendibili le circostanze riferite da Di Giovanna sulle modalità di registrazione e di riversamento del file audio sul computer. Di Giovanna aveva anche spiegato che egli aveva prodotto tardivamente il file perché riteneva di avere compiuto una condotta illecita registrando la conversazione all'insaputa di Lorefice. Il contenuto del file, in realtà, è limitato ad alcune frasi dalle quali si poteva comprendere che Lorefice aveva effettivamente ricevuto il denaro dell'estorsione da Di Giovanna; l'imputato, secondo la Corte, di fronte a questa registrazione aveva mutato la strategia difensiva, passando da una sostanziale ammissione (peraltro non riguardante la consegna di denaro da parte del Di Giovanna) alla tesi della manipolazione, sostenendo che gli interlocutori si riferivano al denaro oggetto dell'estorsione del 1988, risultando così inattendibile. La Corte censurava la sentenza di primo grado che, dopo aver sostenuto l'avvenuta manipolazione del file, lo riportava in motivazione, desumendo la verità di quanto affermato da Di Giovanna circa la consegna del denaro a Lorefice. 5 milioni) nel 2004. D'altro canto le indagini bancarie e l'istruttoria avevano In definitiva, secondo la Corte, Di Giovanna Giuseppe era attendibile; le sue dichiarazioni avevano trovato conferma in quelle della moglie Viviano Enza. Secondo la Corte, il Tribunale, nel giungere alla valutazione opposta, aveva illogicamente tralasciato di domandarsi il motivo per cui la persona offesa e il figlio - che pure erano legati da reale amicizia e colleganza con Lorefice avrebbero dovuto mentire deliberatamente ai suoi danni: piuttosto, questo legame giustificava l'atteggiamento omertoso iniziale, venuto meno solo quando la persona offesa si era resa conto che l'estorsione non proveniva dalla mafia 2.4. La testimonianza di Di Giovanna Mario, figlio della persona offesa, aveva per oggetto le telefonate ricevute nell'abitazione in occasione del tentato furto alla villa dei Di Giovanna che, nell'ottobre 2001, si erano recati a Vicenza ad accompagnare una figlia che doveva iscriversi ad un corso di studi. Della loro partenza essi avevano avvisato solo Lorefice Giorgio, chiedendogli addirittura di custodire le chiavi della villa, richiesta cui egli aveva opposto un rifiuto. Di Giovanna Mario era rientrato a Sciacca per partecipare al battesimo di una figlia della cugina e aveva ricevuto alcune telefonate mute, nella prima delle quali aveva distintamente sentito una frase in cui si esprimeva sorpresa per la presenza di qualcuno a casa. Il Tribunale aveva ritenuto inattendibile il teste per l'errata indicazione delle date del suo rientro e della ricezione della prima telefonata anonima e per l'indicazione errata del numero delle telefonate ricevute. La Corte riteneva, al contrario, integralmente riscontrato, sia dai tabulati telefonici, sia dalle testimonianze, il racconto di Di Giovanna Mario, sia pure impreciso sulle date esatte degli eventi, e evidenziava la perfetta corrispondenza a quello di Annunziata Vito sul tentativo di furto posto in essere su indicazione di Lorefice e in concorso con Ragusa. Un dato eclatante che, secondo la Corte, sarebbe stato oggetto di un grossolano errore di valutazione da parte del Tribunale, era costituito dalla circostanza che una delle telefonate mute era partita da un'utenza che, sebbene intestata ad una donna, era in uso a Lorefice. 2.5. Quanto alle deposizione di La Rosa Giuseppe e Bellanca Luigi, che avevano riferito delle confidenze ricevute da Annunziata Vito in ordine all'attentato che Ragusa e Lorefice avevano organizzato ai danni dell'ing. Di Giovanna, rispetto alla valutazione di inattendibilità dei due testi espressa dal Tribunale, la Corte affermava l'inesistenza di una plausibile ragione per la quale essi avrebbero dovuto avallare le accuse di Annunziata contro Lorefice, contro 6 locale, ma dall'amico. cui non avevano alcuna ostilità (mentre essa sussisteva nei confronti di Ragusa Calogero), censurando il giudice di primo grado per avere tralasciato questa considerazione e per non avere considerato la linearità della condotta di Bellanca: egli, dopo aver registrato il colloquio con Annunziata, aveva consegnato la cassetta alle forze dell'ordine. 2.6. La Corte, tirando le fila di queste considerazioni, riteneva il racconto di Di Giovanna Giuseppe pienamente attendibile e ampiamente riscontrato: questi mostrandogli un atto concernente la posizione di Ragusa e dicendogli che egli era stato ingiustamente sospettato dell'attentato e che bisognava scagionarlo; in un primo incontro con Ragusa, questi aveva confermato la circostanza; successivamente Lorefice aveva, invece, suggerito a Di Giovanna, che l'aveva rifiutata, di accusare l'imprenditore Maglienti Marco. Solo nel luglio 2004, Ragusa e Annunziata erano arrivati a casa di Di Giovanna, indicandogli Lorefice come autore della condotta, nei tentativo di Ragusa di escludere da sé ogni responsabilità. La moglie Viviano Enza aveva confermato integralmente il racconto di Di Giovanna e, stranamente, il Tribunale non aveva considerato la sua testimonianza; d'altra parte, la visita di Ragusa e Annunziata all'abitazione di Di Giovanna emergeva anche da un'intercettazione dì una conversazione tenuta dalla figlia della persona offesa. 2.7. Non solo: Lorefice Giorgio, nel suo interrogatorio, aveva ampiamente riscontrato la versione di Di Giovanna sull'incarico ricevuto dopo la telefonata dell'11/7/2001, sui contatti intrapresi con Ragusa Calogero, sull'incontro procurato tra Dì Giovanna e Ragusa, sul cambio degli assegni in favore di Dì Giovanna e anche sul colloquio casuale avuto con Di Giovanna il 7/9/2004, ignorando che l'interlocutore lo aveva registrato. Lorefice, peraltro, aveva negato di avere ricevuto le telefonate dal sedicente "Raso" nonché di avere avuto in consegna dalla persona offesa e portato a destinazione la somma di lire 200 milioni nel luogo stabilito. La versione dell'imputato, secondo la Corte territoriale, era mutata al progredire delle emergenze probatorie: mentre inizialmente aveva sostenuto che, in occasione dell'attentato del 1988, egli non aveva pagato alcuno, dopo la produzione della registrazione del colloquio con Di Giovanna aveva affermato il contrario, per la necessità di giustificare le frasi che facevano riferimento alla ricezione del denaro e alla consegna a terzi. La Corte, riportando il testo del colloquio, sottolineava che il riferimento fatto da Lorefice ai soldi del Di Giovanna portati a qualcuno era evidente. La 7 aveva riferito che, a marzo o aprile 2002, Lorefice si era presentato a casa sua versione secondo cui l'incontro era avvenuto nello studio e non per strada e il nastro era stato manipolato era smentito dal contenuto della conversazione e dalla perizia espletata. Nessun riscontro esisteva della circostanza che, a seguito dell'attentato del 1988, Di Giovanna avesse pagato qualche somma alla mafia locale, né che la persona offesa fosse mai stata sospettata di connivenza con le cosche: se tale connivenza vi fosse stata, egli si sarebbe rivolto alle cosche in occasione del secondo attentato e non all'amico che gli aveva indicato il nome di Ragusa Calogero. presentato l'estorsore del 1988, cosicché Ragusa Calogero, quando aveva effettuato la telefonata dell'11/7/2001, non poteva che avere avuto da lui questa informazione. La Corte sottolineava che anche il Tribunale aveva ritenuto che Lorefice avesse effettivamente ricevuto il denaro da Di Giovanna, dato che era confermato anche da due intercettazioni tra l'imputato e la sorella, del tutto trascurate dal giudice di primo grado; ma, in modo del tutto illogico, il Giudice di primo grado aveva svalutato la circostanza, isolandola da tutto il contesto indiziario, perfettamente coerente e convergente nell'indicare l'imputato quale ideatore e partecipe dei fatti contestati. In definitiva Di Giovanna, la moglie Viviano Enza e Annunziata non avevano affatto mentito nei loro racconti. 2.8. La Corte elencava gli indizi gravi, precisi e concordanti a carico di Lorefice: l'imputato era uno dei pochi soggetti a conoscenza dell'estorsione, patita da lui e da Di Giovanna, e dell'uso del nome "Raso" da parte dell'estorsore; era in rapporti di confidenza e complicità con Ragusa Calogero con cui, nello stesso periodo, aveva organizzato affari illeciti; era una delle pochissime persone a potergli suggerire il nome "Raso" da usare nella telefonata dell'11/7/2001; aveva una conoscenza della villa dei Di Giovanna ed, in particolare, del locale seminterrato dove erano custoditi i computer del capofamiglia, oggetto dell'attentato; aveva dimestichezza con armi, polvere da sparo e munizioni; era a conoscenza che Di Giovanna, in quel periodo, avrebbe ricevuto una ingente somma dalla Provincia di Agrigento per una parcella; aveva rivendicazioni nei confronti del Di Giovanna per l'opera da lui prestata; era in una situazione economica non brillante, con debiti per circa trenta milioni di lire e l'immobile di abitazione pignorato; aveva tenuto un comportamento incomprensibile la notte dell'attentato, transitando per la strada davanti alla casa oggetto dell'esplosione ma non fermandosi, benché chiamato da Di Giovanna, 8 Piuttosto, solo Lorefice era a conoscenza del nome "Raso" con cui si era giustificandosi il giorno successivo con la sua ubriachezza; la condotta era stata incomprensibile anche il giorno successivo, quando solo alle 12'00, dopo avere sbrigato altre faccende, si era recato dai Di Giovanna; era stato lui a mettere in contatto Dì Giovanna Giuseppe con Ragusa Calogero che era proprio colui che aveva effettuato la telefonata estorsiva; aveva riferito a Di Giovanna telefonate inesistenti provenienti dal sedicente "Raso" e aveva preteso da fare da intermediario e consegnatario della somma, così ingannando anche i complici sulla somma ricevuta, indicata in lire 100.000.000 mentre, al contrario, egli all'insaputa dei correi; aveva monitorato l'andamento del pagamento da parte della Provincia di Agrigento, così giungendo ad indicare una somma pretesa dagli estorsori quasi identica a quella che Di Giovanna aveva incassato; aveva percorso effettivamente la strada che, a suo dire, gli estorsori gli avevano indicato per la consegna del denaro, venendo così osservato da Annunziata, incaricato da Ragusa; le vicende processuali del Ragusa lo avevano indotto a distruggere il timer compromettente nascosto nell'impianto di autolavaggio e, successivamente, quando Ragusa era stato indagato per la telefonata, egli si era attivato personalmente, con Di Giovanna e con Ragusa, per sviare le indagini su Marco Maglienti, in pieno accordo con il Ragusa stesso, come dimostrava un'annotazione dei carabinieri, che avevano visto Ragusa e Annunziata salutare Lorefice uscito dalla deposizione con il P.M.; aveva ostinatamente negato di avere ricevuto il denaro da Di Giovanna Giuseppe, benché le conversazioni intercettate lo smentissero. Secondo la Corte, l'errore del Tribunale era stato di operare una valutazione atomistica degli indizi, così giudicandoli in modo erroneo e non aderente al dato probatorio e ritenendoli inattendibili e non significativi; approdando, fra l'altro, ad una conclusione che nemmeno l'imputato aveva mai prospettato. La Corte escludeva l'esistenza di un accordo calunnioso tra Annunziata e Ragusa ai danni di Lorefice e, ancor di più, l'adesione della persona offesa a detto accordo. 2.9. Affermata, pertanto, la responsabilità dell'imputato per i reati sub A) e C), la Corte riteneva sussistente anche l'aggravante del metodo mafioso alla luce delle modalità dell'attentato, del tenore della telefonata estorsiva e dei riferimenti fatti successivamente da Lorefice alla matrice mafiosa del delitto. L'aggravante poteva essere applicata anche nei confronti di chi, come l'imputato, non fa parte di associazioni mafiose. 9 aveva ricevuto il doppio, essendosi fatto confezionare da Di Giovanna due pacchi La Corte dava atto che i delitti di danneggiamento, di favoreggiamento personale e di tentato furto pluriaggravato erano prescritti; li riteneva ampiamente provati sottolineando, con riferimento a quello di tentato furto aggravato, che gli errori del Tribunale erano evidenti, alla luce delle evidenze probatorie ampiamente richiamate, tra le quali l'utilizzo dell'utenza pacificamente in uso a Lorefice Giorgio per l'effettuazione di quattro chiamate tra quelle effettuate per verificare se la villa dei Di Giovanni fosse disabitata e potesse, quindi, essere oggetto del furto programmato, utenza utilizzata anche per tenere emergeva dalle intercettazioni in corso in quei giorni. In esso Lorefice aveva svolto un ruolo essenziale nell'ideazione, preparazione ed esecuzione dell'azione. Secondo la Corte il tentativo era giunto ad una fase punibile. La Corte riteneva i delitti per i quali affermava la responsabilità riuniti per continuazione; riteneva l'imputato non meritevole delle attenuanti generiche per la singolare gravità oggettiva dei fatti, per le modalità particolarmente riprovevoli di commissione, per l'entità dei danni arrecati e per il giudizio altamente negativo sulla sua personalità; la Corte sottolineava anche l'intensità del dolo. La pena veniva determinata in anni otto e mesi sei di reclusione ed euro 1.600,00 di multa. 3. Ricorre per cassazione il difensore di Lorefice Giorgio, deducendo distinti motivi. 3.1. Con un primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1 lett. c) cod. proc. pen. in relazione all'art. 570 cod. proc. pen.. L'atto di appello era stato proposto da un Sostituto procuratore già trasferito dalla Procura di Sciacca a quella di Palermo, senza assegnazione alla locale D.D.A., Ufficio competente di Procura a presentare appello in conseguenza della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991. Al predetto magistrato erano state affidate le funzioni di P.M. in relazione al dibattimento in corso e, dopo il trasferimento a Palermo, egli era stato destinato alla trattazione del procedimento in questione per la fase dibattimentale. La Corte territoriale aveva rigettato l'eccezione sulla base dell'applicazione alla D.D.A. per la trattazione del giudizio ex art. 70 bis ord. giud., con ordine di servizio di cui il C.S.M. aveva preso atto senza formulare alcun rilievo, nonché sulla circostanza che, avendo presentato le conclusioni durante il giudizio di primo grado, ai sensi dell'art. 570, comma 2, cod. proc. pen., era legittimato a 10 contatti con Ragusa e con Piombino Vincenzo. Il tentato furto, fra l'altro, proporre appello in via autonoma. Secondo il ricorrente, il richiamo all'art. 570, comma 2, cod. proc. pen. non è sufficiente perché il magistrato era stato trasferito ad altro Ufficio e quindi non faceva più parte dell'Ufficio del P.M. funzionalmente competente a proporre impugnazione, mentre l'applicazione alla D.D.A. riguardava solo la fase dibattimentale e, non comprendeva, quindi, la proposizione dell'appello. 3.2. In un secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 606, 597 cod. proc. pen., all'art. 10 della Costituzione e all'art. 533 cod. proc. pen. La Corte aveva dato grande rilevanza alle fonti dichiarative nonostante la loro incompatibilità con i dati cronologici e tecnici, cosicché la motivazione è manifestamente contraddittoria rispetto ad altri atti del processo. Il contrasto con l'art. 6 della C.E.D.U. deriva dalla valutazione di attendibilità dei testimoni, ritenuti inattendibili dal Tribunale, senza che i testimoni fossero stati escussi direttamente dalla Corte, prassi censurata da una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. La sentenza, quindi, tramite una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 597 cod. proc. pen., deve essere ritenuta illegittima in assenza di una rinnovazione dibattimentale avente ad oggetto l'esame delle fonti dichiarative ritenute false dal Tribunale. 3.3. In un terzo motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 178, 191, 192, 220 e 546 cod. proc. pen., 110, 61 n. 2 cod. pen., 4 legge 895 del 1967, 424, 425, comma 2, 629 cod. pen., 533, 238 bis cod. proc. pen. e 157 cod. pen.. Con riferimento al file audio registrato il 7/9/2004 e depositato il 26/9/2007, il Tribunale ne aveva ritenuto la manipolazione. La Corte, in assenza della rinnovazione parziale dell'istruttoria, pure richiesta dalle parti civili, aveva ribaltato il giudizio formulato dai primi giudici, escludendo la manipolazione. Ciò era conseguenza di violazioni di legge: la Corte aveva utilizzato una memoria a firma di tale dott. Zonaro, che non era stato nominato consulente di parte, né era stato escusso in dibattimento, contrapponendola alla perizia del prof. Luciano; inoltre era incorsa in un travisamento della prova, richiamando alcuni frammenti della deposizione dibattimentale del perito che, al contrario, aveva ripetutamente affermato che la manipolazione era avvenuta. La motivazione della Corte, in violazione dell'art. 546, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., non forniva adeguata contezza delle ragioni per cui il giudizio di inattendibilità espresso dal Tribunale non dovesse ritenersi conforme al dato processuale. In ogni caso, trattandosi di registrazione non originale, essa non 11 comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 6 C.E.D.U., all'art. poteva essere in alcun modo utilizzata in termini probatori: del resto, l'imputato aveva denunciato la manipolazione della registrazione ancor prima che venisse eseguita la perizia, che l'aveva poi confermata. La Corte non aveva quindi superato le conclusioni del Tribunale circa la falsità dell'elemento di prova e la falsità di entrambe le testimonianze di Di Giovanna Giuseppe e Di Giovanna Mario. Ciò si riverbera sull'applicazione dell'art. 238 bis cod. proc. pen., che impone forniti, venendo, al contrario acquisiti elementi nuovi e diversi che compromettono l'attendibilità della persona offesa, principale fonte di prova a carico del Lorefice. La difesa aveva evidenziato una serie di elementi di prova contrastanti con la ricostruzione operata da Di Giovanna Giuseppe in ordine al reperimento e alla consegna all'imputato di una somma di lire 200 milioni con memoria del 15/2/2012: tali elementi erano stati omessi e travisati dalla Corte territoriale. Il ricorrente, in particolare, sottolinea che la vicenda dell'estorsione da parte di tale "Raso" risalente al 1988 era conosciuta anche dagli esponenti dell'allora famiglia mafiosa di Sciacca, come emergeva da una nota informativa acquisita al fascicolo per il dibattimento. Alcuni di essi erano ritenuti gli autori del danneggiamento ai danni della società A.RE.TU.SA.. Ragusa Salvatore, fratello di Calogero, aveva commentato la vicenda e, quindi, Ragusa Calogero poteva avere conosciuto dettagli del primo attentato. Di Giovanna Giuseppe aveva rapporti con Di Gangi Salvatore e questo lo rendeva inattendibile quando affermava di avere pagato la somma di lire 200 milioni senza conoscere in alcun modo il destinatario della somma. L'osservazione della Corte che i predetti soggetti mafiosi non erano stati chiamati a rispondere dell'attentato del 1988 era priva di rilevanza, perché il dato serviva a dimostrare che la vicenda non era conosciuta solo dal Lorefice, ma anche da altri soggetti. L'informativa di polizia, per di più, conteneva una conversazione in cui gli interlocutori parlavano di una telefonata fatta a Di Giovanna, circostanza che smentiva l'affermazione della Corte secondo cui detto atto non conteneva alcun riferimento al soggetto di nome "Raso". Si tratta, in definitiva, di motivazione omessa e manifestamente illogica. Analogo vizio emerge dall'attendibilità attribuita a Di Giovanna, che sosteneva di essere intimorito, benché, al contrario di Lorefice, affermasse di non avere mai pagato alcunché per l'estorsione del 1988. La Corte, poi, aveva fatto riferimento alla possibilità per Di Giovanna di 12 riscontri esterni individualizzanti che, nel presente processo, non sono stati rivolgersi ai suoi contatti e all'ex socio Dimino per risolvere la questione, senza tenere conto che egli, all'epoca, era detenuto. In ogni caso Di Giovanna era inattendibile e la Corte aveva omesso di spiegare per quale motivo la sua versione di non aver pagato nel 1988 e di ignorare il beneficiario della somma versata nel 2001 non costituissero elementi sintomatici dell'inattendibilità del dichiarante. L'epoca in cui la persona offesa aveva provveduto a reperire il denaro secondo le stesse parole di Di Giovanna, cosicché l'indicazione del 17/7/2001 da parte della Corte come data dell'inizio dei prelievi era arbitraria. Le prove smentivano la versione della persona offesa del reperimento della somma tra la prima settimana di agosto e la prima settimana di settembre. In particolare, la testimonianza di Genna Antonino indicava che il prestito fatto a Di Giovanna di 60 - 70 milioni di lire era antecedente alla telefonata estorsiva: la Corte aveva arbitrariamente parcellizzato la dichiarazione, ritenendo imprecisi i riferimenti temporali, piegando il contenuto della dichiarazione testimoniale in senso indiziario, nonostante il contenuto della testimonianza fosse diverso. La motivazione era carente, perché non veniva fornita adeguata motivazione per non valutare una prova a discarico. La nota, comunque, aveva dimostrato che i prelievi dai conti correnti da parte del Di Giovanna non superavano la somma di lire 45 milioni e ciò dimostrava l'inattendibilità della persona offesa. Ma la Corte, smentendo le stesse dichiarazioni di Di Giovanna, aveva fatto riferimento a prelievi svolti nel periodo 17 - 31 luglio 2001: in questo modo aveva adottato una decisione contrastante con i dati probatori oggettivi e cronologici. Il vizio sussisteva anche con riferimento al CD contenente le copie scannerizzate delle banconote asseritamente consegnate da Di Giovanna: la Corte, al contrario del Tribunale, aveva disatteso la prova tecnica costituita dalla perizia, che indicava come assolutamente incerta la data di creazione dei files; ma l'assenza di certezza della data rendeva il supporto informatico processualmente irrilevante. Illogico era anche il riferimento alla data di entrata in vigore dell'euro, poiché l'ultimo giorno utile per la conversione in euro delle lire era stato il 3/12/2011. La Corte aveva omesso di valutare la prova a discarico costituita dalla mancanza di qualunque prova dell'incasso di denaro contante da parte di 13 destinato agli estorsori non poteva essere anteriore al 6 - 7 agosto 2001, Lorefice; questi, nel gennaio 2002, aveva acquistato un'autovettura pagandola con assegni di conto corrente e con un finanziamento. Manifestamente illogica era la motivazione della Corte con riferimento alle condizioni economiche di Lorefice, che godeva di un reddito notevole e aveva sottoscritto un titolo finanziario per lire 50 milioni con bonifico bancario pochi giorni dopo avere ricevuto una ingente somma di denaro da parte di Di Giovanna come corrispettivo di una prestazione professionale. la mancata costituzione di parte civile nei confronti di Ragusa, Annunziata e Piombino sulla base della loro solvibilità. Il ricorrente richiama la motivazione del Tribunale sulla inattendibilità intrinseca di Dì Giovanna e censura per omessa motivazione l'argomentazione della Corte, che non avrebbe enunciato alcuna plausibile ragione per cui superare il giudizio di inattendibilità intrinseca. Anche la motivazione sui riscontri esterni individualizzanti era illegittima. In particolare, la Mercedes classe A, a bordo della quale l'imputato aveva collocato il denaro oggetto dell'estorsione secondo il racconto di Dì Giovanna, era entrata nella disponibilità di Lorefice solo il 27/9/2001 e, quindi, non era nel suo possesso nei primi giorni dello stesso mese. La Corte non aveva rilevato che il mendacio su questo aspetto era da attribuire ad entrambi i coniugi e non solo a Di Giovanna e aveva ignorato il principio secondo cui le dichiarazioni provenienti da due soggetti conviventi non possono essere di reciproco riscontro, a meno che non risulti che le fonti di conoscenza siano autonome. L'articolo del giornale locale che aveva provocato l'intercettazione tra Lorefice e la sorella non era mai stato acquisito. La conversazione intercettata, comunque, non aveva significato univoco; per di più era congetturale la considerazione secondo cui Lorefice aveva temuto di essere intercettato nel corso della prima conversazione. La conversazione non poteva, quindi, costituire un indizio certo, anche perché i rapporti economici tra Lorefice e Di Giovanna erano diversi e contestuali proprio all'epoca del presunto pagamento della somma di denaro per l'estorsione. Con riferimento alle dichiarazioni di Annunziata Vito, le risultanze processuali dimostravano l'esistenza di un accordo calunniatorio tra lui e Ragusa 14 I debiti menzionati dalla Corte erano inesistenti; e la Corte aveva giustificato ai danni di Lorefice, che Ragusa cercava di far confessare. Il ricorrente sottolinea che Ragusa e Lorefice non potevano ritenersi concorrenti nel reato perché, in quel caso, il primo non poteva avere interesse a ricevere dichiarazioni da Lorefice, che avrebbe fatto riferimento alla sua corresponsabilità. La Corte aveva superato questa osservazione evidenziando i diversi ruoli dei due complici ed escludendo Ragusa dalla fase esecutiva dell'attentato. Si trattava di argomentazioni illegittime e irricevibili, mentre la vicenda La motivazione della Corte è manifestamente illogica quando, pur ammettendo che Annunziata aveva reso dichiarazioni false fino al 2004, nega la sua tendenza a mentire per effetto della struttura della sua personalità. Il Tribunale aveva evidenziato la falsità e inattendibilità delle dichiarazioni di Annunziata, ma la Corte aveva svalorizzato gli errori nell'ordine cronologico degli avvenimenti, dato che il Tribunale aveva ritenuto sintomo di inattendibilità del teste, giudizio in alcun modo contrastato nella sentenza impugnata. Il ricorrente sottolinea che l'errore riguarda proprio il momento in cui Annunziata avrebbe avuto da Lorefice notizie sulla sua partecipazione all'estorsione; altra falsità riguardava l'utilizzo della cassetta fatta prelevare dal Lorefice nell'attentato al Di Giovanna, dato che aveva indotto la Corte ad una congettura concernente una prova eseguita in precedenza. Ulteriore difetto di motivazione riguardava la conoscenza tra Lorefice e Annunziata: il Tribunale, rilevando che il primo era un semplice cliente dell'autolavaggio dove il secondo lavorava, aveva espresso perplessità sulla confidenza relativa a condotte così gravi; la Corte aveva superato questo dato, senza fornire motivazione contraria, facendo riferimento alla truffa ordita per il finanziamento della Mercedes Classe A intestata all'Annunziata, elemento già preso in considerazione dal Tribunale per dimostrare che, poiché Lorefice aveva subito dalla condotta di Annunziata un danno di lire 10.000.000, i rapporti tra i due non erano certo tali da indurre Lorefice alla confidenza. I pessimi rapporti tra Ragusa e Annunziata da una parte e Lorefice dall'altra emergevano anche dallo smarrimento degli assegni denunciati dal secondo di cui Ragusa era ritenuto responsabile. Sul punto la motivazione era del tutto illogica. Quanto alle dichiarazioni di Bellanca e La Rosa, essi erano stati ritenuti inattendibili dal Tribunale con adeguata motivazione; la Corte aveva ribaltato questo giudizio senza nemmeno prendere in considerazione le argomentazioni del Tribunale. 15 dimostrava l'assenza di correità tra i due soggetti. 3.4. In un quarto motivo, si denuncia la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod. proc. pen. in relazione all'art. 7 di. 152 del 1991, 517 e 522 cod. proc. pen.. L'aggravante era stata contestata dal P.M. ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen. all'udienza del 17/10/2007; la difesa aveva eccepito l'inammissibilità della contestazione suppletiva, in quanto i fatti su cui il P.M. fondava la contestazione erano già acquisiti al fascicolo del P.M. anteriormente alla richiesta di rinvio a giudizio. Il Tribunale aveva, al contrario, ammesso la contestazione suppletiva. ricorrente, cosicché la relativa eccezione può essere motivo di ricorso per cassazione. Il ricorrente chiede che la sentenza venga dichiarata nulla nella parte in cui ha applicato l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991, in assenza di elementi nuovi emersi per la prima volta in dibattimento. La sentenza, secondo il ricorrente, è comunque censurabile laddove ha riconosciuto la configurabilità dell'aggravante in esame in assenza palese dei presupposti di legge, in mancanza di qualsivoglia collegamento dell'imputato con un'associazione mafiosa. Fra l'altro, secondo l'imputazione, Lorefice aveva ingannato la persona offesa sulla riconducibilità della richiesta estorsiva al gruppo mafioso. Il ricorrente sottolinea, infine, che il metodo mafioso non è stato contestato a Ragusa Calogero, separatamente giudicato. 3.5. In un quinto motivo il ricorrente deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all'affermazione di responsabilità per il delitto di tentato furto di cui al capo G. La motivazione della Corte non riusciva a superare la stringente motivazione del Tribunale, che era giunto a ritenere la falsità della testimonianza di Di Giovanna Mario: la Corte non contrastava il crollo del costrutto accusatorio sul punto fondamentale della consapevolezza da parte di Lorefice dell'assenza dall'abitazione di tutti i componenti la famiglia Di Giovanna, tenuto conto, fra l'altro, che la fidanzata di Mario Di Giovanna aveva affermato che il giovane era rimasto a casa. Su questo punto emergeva l'accordo fraudolento tra Di Giovanna Giuseppe, Di Giovanna Mario e Annunziata Vito per accusare Lorefice del tentativo di furto. La Corte non spiegava adeguatamente perché Mario Di Giovanna avesse indicato una data errata del suo arrivo a Sciacca e aveva addirittura disatteso la testimonianza circa il giorno in cui era giunta la prima telefonata sospetta, limitandosi a rilevare che le telefonate non risultavano dai tabulati. La Corte aveva sostenuto ripetutamente che il teste aveva sbagliato ma era credibile, ciò 16 In conseguenza dell'assoluzione, l'ordinanza non era stata impugnata dal costituendo un palese vizio di manifesta illogicità della motivazione. Altrettanto palese era la forzatura della data della festa tenuta da Mario De Giovanna nella sua abitazione, spostata al 30/10/2001, quando egli aveva riferito di averla tenuta il 29, mentre la fidanzata l'aveva addirittura anticipata di diversi giorni. Lo spostamento della data della festa mirava a collegare detta festa con la presenza di Piombino, correo del tentato furto, a Sciacca. Sul punto della festa si riscontrava la palese inattendibilità di Annunziata, che dava per tenuta una festa che, invece, si era tenuta il giorno prima. 30/10/2001 dimostrano che quel giorno non vi era stata alcuna festa: e, sul punto, la Corte era ricorso alle congetture, ipotizzando telefonate dei familiari da nessuno riferite. Sempre con riferimento al tentato furto, il ricorrente sottolinea che l'ubicazione della cassaforte era noto anche a sconosciuti, e non solo a Lorefice, poiché, nel 1999, il Di Giovanna aveva denunciato un furto di preziosi: dato del tutto pretermesso dalla Corte. Ancora, con riferimento alla telefonata proveniente dal telefono in uso a Lorefice, il Tribunale aveva argomentato sull'irrilevanza del dato, con una motivazione del tutto tralasciata dalla Corte. In definitiva, con riferimento al capo G, la ricostruzione operata dalla Corte era frutto di una totale demolizione del quadro probatorio arbitrariamente ricostruito al fine di giustificare un pregiudizio ai danni dell'imputato. 3.6. In un sesto motivo, il ricorrente contesta la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento al reato sub D) di favoreggiamento personale rispetto al latitante Sorrentino Ciro. Il Tribunale aveva ampiamente motivato l'assoluzione sulla mancanza dell'elemento soggettivo del reato, accreditando la versione del ricorrente di avere ignorato che Sorrentíno, che egli ospitava, fosse latitante, tanto da uscire con lui negli esercizi pubblici e presentarlo ad altre persone. La Corte, per superare tale motivazione, ipotizzava in via congetturale che Sorrentino fosse in possesso di documenti falsi, così cadendo nel difetto assoluto di motivazione. 3.7. In un settimo motivo, il ricorrente denuncia violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche, non avendo la Corte evidenziato gli elementi positivi quali l'incensuratezza e l'intervento posto 17 Anche le telefonate all'utenza della fidanzata, avvenute nel giorno del in essere dopo la richiesta di aiuto da parte di Di Giovanna. Il ricorrente conclude per l'annullamento della sentenza impugnata. 4. La difesa delle parti civili Di Giovanna Giuseppe e altri ha depositato memoria. In essa si sostiene l'infondatezza del primo motivo di gravame per i motivi Quanto alla violazione dell'art. 6 della C.E.D.U. lamentata nel secondo motivo di ricorso, le parti civili sottolineano che la Corte è arrivata all'affermazione di responsabilità dell'imputato non per una smisurata valorizzazione delle prove dichiarative, ma in virtù di una corretta analisi dei dati tecnici e cronologici. La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo riguardava i casi in cui la prova testimoniale è decisiva, requisito che non ricorre nel caso di specie, attesa l'abbondanza dei dati oggettivi: la sentenza irrevocabile nei confronti di Ragusa Calogero, le acquisizioni documentali concernenti l'eseguito pagamento di 200 milioni di lire da parte di Giuseppe De Giovanna, la registrazione audio del colloquio del 7/9/2004, le conversazioni telefoniche intrattenute dall'imputato, le dichiarazioni dello stesso imputato, le annotazioni di P.G., i tabulati e le intercettazioni telefoniche, le ulteriori sentenze acquisite. Quanto al terzo motivo di gravame, le parti civili sottolineano che, con il ricorso, si tenta di indurre questa Corte ad esprimere valutazioni di merito, mentre il giudizio sulla motivazione ha un ambito circoscritto, in quanto il vizio di manifesta illogicità deve risultare ictu oculi dal testo della motivazione. Si tratta, quindi, di motivo di ricorso inammissibile. Nel merito delle contestazioni, le parti civili argomentano sulla esatta valutazione della registrazione audio senza alcun travisamento della perizia redatta dall'ing. Luciano; negano, poi, recisamente che la Corte abbia omesso l'esame della memoria difensiva del 15/2/2012, avendo, al contrario, esaminato tutte le obiezioni presentate in tale memoria, citandola nei passi rilevanti riguardanti la conoscenza da parte di altri soggetti dell'uso del nome "Raso" da parte dell'anonimo estorsore del 1988, il pagamento della tangente nel 1988 da parte di Lorefice (che aveva sempre negato tale pagamento, cambiando versione solo all'udienza dibattimentale del 17/10/2007 per contrastare la registrazione del colloquio prodotto dalle parti civili), la conoscenza di soggetti mafiosi da parte di Di Giovanna, il reperimento della somma di lire 200 milioni dopo la 18 esposti dalla Corte territoriale. telefonata dell'11/7/2001, il CD contenente l'immagine delle banconote scannerizzate, le condizioni economiche di Lorefice, l'acquisto del titolo finanziario del valore di lire 50 milioni. La Corte aveva ampiamente valutato l'attendibilità dell'ing. Giuseppe Di Giovanna, in modo meticoloso e convincente. Quanto all'autovettura in uso al Lorefice, la Viviano non aveva affatto sostenuto che l'imputato usasse la Mercedes, mentre Di Giovanna aveva espresso incertezza: ciò dimostrava l'assenza di qualsiasi accordo sul punto tra i Lorefice. L'analisi delle intercettazioni tra Lorefice e la sorella era ampia e logica; l'articolo del giornale "Otto e mezzo" era stato ritualmente acquisito al fascicolo per il dibattimento. La parte civile sottolinea che Annunziata Vito era stato dichiarato attendibile dal Tribunale di Sciacca che aveva condannato Ragusa Calogero; il giudizio opposto formulato nel presente processo dal Tribunale è frutto di errori ed omissioni, sanati dalla valutazione della Corte d'appello che li esamina con estrema cura e attendibilità, motivando, in particolare, sulle incongruenze temporale in maniera del tutto logica. Travisata dal ricorso è la valutazione della lettera con cui Ragusa avrebbe ordinato di disfarsi della cassetta nascosta nell'impianto. Ampia e convincente è la motivazione concernente la conoscenza tra Annunziata e Lorefice, soprattutto con riferimento all'esito degli accertamenti eseguiti nella separata indagine concernente la truffa avente ad oggetto il finanziamento ottenuto per l'acquisto di una autovettura. Con riferimento alla vicenda degli assegni rubati - che avrebbe giustificato la rottura dei rapporti tra Lorefice e Ragusa - la motivazione della Corte è convincente quando accredita la versione, sostenuta dallo stesso imputato, circa la mancanza di sospetti sul Ragusa come autore della sottrazione al momento della denuncia di smarrimento; il ricorso nega l'esistenza di assegni firmati in bianco che, al contrario, sono menzionati nel decreto di citazione a giudizio nei confronti di Di Leo Gaspare, che aveva ricevuto uno dei titoli. Quanto all'attendibilità di Bellanca e De Rosa, il ricorso svolge considerazioni in fatto, e perciò inammissibili; emergeva, comunque, il travisamento della testimonianza di Bellanca da parte del Tribunale di Sciacca. La Corte aveva limitato la portata probatoria delle testimonianze e aveva, comunque, logicamente considerato che il coinvolgimento di Lorefice non poteva spiegarsi con un malanimo nei suoi confronti da parte dei due soggetti che, al contrario, avevano come obbiettivo solo Ragusa. 19 due coniugi ed era giustificato dai frequenti cambi di autovetture da parte del La Corte aveva dimostrato ampiamente che la tesi, sostenuta dal ricorrente, della "circolarità" delle dichiarazioni mendaci dell'Annunziata è infondata, elencando tutti i dati di conoscenza originali forniti dallo stesso e i riscontri ottenuti; quasi tutte le informazioni erano sconosciute a Di Giovanna. Le parti civili sostengono l'infondatezza del quarto motivo di ricorso (contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991) alla luce della giurisprudenza delle Sezioni unite richiamata dal Tribunale e della giurisprudenza del 1999. Come osservato dal Tribunale, nessuna lesione del diritto di difesa dell'imputato si era, comunque, prodotta. In ogni caso, la contestazione era stata effettuata solo dopo che l'istruttoria dibattimentale aveva fatto emergere la circostanza del pagamento dell'ingente somma a causa della forza di intimidazione contenuta nella telefonata dell'11/7/2001, con il riferimento al sedicente "Raso", che lasciava intendere il coinvolgimento della cosca locale. Nel merito, la mancata partecipazione dell'imputato ad una associazione mafiosa non impediva il riconoscimento dell'aggravante. Con riferimento al quinto motivo di ricorso, le parti civili, analizzando l'intero compendio probatorio, sostengono che era stato il Tribunale, e non la Corte, a piegare i dati oggettivi probatori emergenti dagli atti, proponendo una motivazione infedele rispetto al testo del processo. Comunque il ricorso è da considerarsi inammissibile, in quanto propone censure in fatto e chiede a questa Corte di rivalutare gli elementi di prova. In conclusione, le parti civili, chiedono la conferma della sentenza impugnata, anche con riferimento alla valutazione concernente il favoreggiamento a favore di Sorrentino e alla mancata concessione delle attenuanti generiche. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. L'art. 570, comma 2, cod. proc. pen. dispone che l'impugnazione possa essere proposta anche dal rappresentante del P.M. che ha presentato le conclusioni. Si tratta di disposizione che accresce i poteri del rappresentante del P.M. che 20 costante formatasi anche successivamente all'approvazione della legge n. 479 ha presentato le conclusioni, conferendogli una propria legittimazione all'impugnazione (Sez. 1, n. 11353 del 12/10/1992 - dep. 25/11/1992, P.M. in proc. D'Orazio, Rv. 192894) e che, quindi, si applica per ogni caso di presentazione delle conclusioni (Sez. 1, n. 27549 del 23/06/2010 - dep. 15/07/2010, P.M. in proc. Costanzo e altro, Rv. 247672, per il ricorso proposto dal magistrato del pubblico ministero organicamente incardinato nella Procura della Repubblica presso il Tribunale, qualora abbia presentato le conclusioni nel giudizio di secondo grado cui abbia partecipato previo provvedimento quest'ultimo). La norma trova, quindi, applicazione anche al caso di specie, nel quale il magistrato, applicato alla D.D.A. di Palermo, era stato designato, ai sensi dell'art. 70 bis ord. giud., alla trattazione del presente giudizio: infatti, in base alla norma summenzionata, la legittimazione ad appellare la sentenza di primo grado deve essere riconosciuta al Procuratore distrettuale e, nel caso in cui quest'ultimo si sia avvalso della facoltà prevista dal comma 3 ter del citato art. 51 cod. proc. pen., anche al rappresentante del pubblico ministero presso il giudice competente che ha presentato le conclusioni nel dibattimento di primo grado. Né si può sostenere che la delega, essendo prevista solo per il dibattimento, non sarebbe stata idonea a conferire al pubblico ministero delegato per l'udienza alcun autonomo potere di impugnazione: la legittimazione ad impugnare deriva direttamente dal secondo comma dell'art. 570 cod. proc. pen. che non prevede deroghe (Sez. 1, n. 8777 del 05/05/1999 - dep. 08/07/1999, Belforte, Rv. 214885). Se, quindi, come ampiamente argomentato nella sentenza impugnata sulla base della documentazione acquisita, l'applicazione alla trattazione del dibattimento era stata ritualmente emessa, l'aver presentato le conclusioni conferiva a quel magistrato la legittimazione a proporre appello avverso la sentenza di impugnazione. 2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Secondo il ricorrente, una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 597 cod. proc. pen., conforme all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, impone al giudice di appello, che intenda ribaltare la decisione di primo grado valutando diversamente l'attendibilità dei testimoni, di sentire nuovamente detti testimoni. 21 autorizzativo del Procuratore Generale della Repubblica, in qualità di sostituto di Questa Corte ha, invece, ritenuto manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 603 cod. proc. pen. - la norma processuale che permetterebbe la nuova escussione dei testimoni in appello - per contrasto con l'art. 117 della Costituzione e l'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di Appello intenda riformare in peius una sentenza di assoluzione dell'imputato. europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria solo in presenza di due presupposti: la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012 - dep. 02/10/2012, Luperi e altri, Rv. 253541). Si deve, comunque, negare che il giudice d'appello, per procedere alla reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado, sia tenuto in linea generale a procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. In effetti, se, come più volte affermato, in assenza di mutamenti del materiale probatorio acquisito al processo, la riforma della sentenza assolutoria di primo grado, una volta compiuto il confronto puntuale con la motivazione della decisione di assoluzione, impone al giudice di argomentare circa la configurabilità del diverso apprezzamento come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano minato la permanente sostenibilità del primo giudizio (da ultimo, Sez. 6, n. 8705 del 24/01/2013 - dep. 21/02/2013, Farre e altro, Rv. 254113), l'onere imposto non può spingersi oltre, se il giudice di appello ha fornito una lettura corretta e logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice (Sez. 4, n. 4100 del 06/12/2012 - dep. 25/01/2013, Bifulco, Rv. 254950). Il principio di diritto che si può desumere dalla decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo già menzionata è, in realtà, il seguente: laddove la prova essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali, ma è tenuto a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sé per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità, salvo possibili casi particolari (quale può essere un evidente errore del primo giudice che, per esempio, ritenga la testimonianza 22 In effetti, l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte falsa perché nega una circostanza che il giudice erroneamente ritenga vera o viceversa) (cfr., per l'analisi della pronuncia, Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013 dep. 12/04/2013, Caboni ed altro, Rv. 254623). La fattispecie che si presenta nell'odierno processo è del tutto differente: come sottolineato dalle parti civili e come emerge con chiarezza dall'esposizione fatta nella prima parte della presente sentenza, il compendio probatorio che ha dato origine alle due sentenze di segno opposto è amplissimo e variegato, identificata nell'affermazione che un teste, ritenuto inattendibile dal giudice di primo grado, è stato, al contrario, ritenuto attendibile da quello di appello. La Corte territoriale ha, piuttosto, ritenuto di fornire una lettura corretta e logica degli elementi probatori palesemente travisati dal primo giudice e, in questa complessiva rivalutazione del materiale probatorio ha inserito anche la valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni: ha preteso, comunque, di non lasciare alcun ragionevole dubbio sulla fondatezza dell'imputazione, quindi assolvendo appieno l'onere motivazionale. 3. Il terzo motivo di ricorso riguarda, appunto, la valutazione complessiva del materiale probatorio. Come anticipato, la Corte territoriale mostra di seguire il principio giurisprudenziale ormai pacifico di un onere motivazionale rafforzato che grava sul giudice di appello che riforma una sentenza di assoluzione di primo grado. Evidente è il tentativo del ricorrente di sollecitare, mediante la denuncia di violazioni di legge e di vizio motivazionale, una valutazione del fatto da parte di questa Corte, che, invece, è preclusa in questa sede. Occorre ribadire che, perché sussista il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., occorre che esso risulti "dal testo del provvedimento" e che l'illogicità sia "manifesta", così da ritenere la motivazione viziata da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica. La lettura della sentenza impugnata e la memoria della parte civile, comunque, dimostrano ampiamente che i vizi denunciati non sussistono. Con riferimento al file audio riportante la conversazione tra Di Giovanna Giuseppe e Lorefice Giorgio, la mera lettura della sentenza smentisce il ricorrente quando sostiene che la opposta valutazione datane dalla sentenza di appello si basa principalmente sulla consulenza tecnica del consulente delle parti civili; si trattava di memoria tecnica, firmata anche dal difensore che indicava 23 cosicché l'essenza della decisione in appello non può, in alcun modo, essere determinate circostanze che, comunque, non risultano centrali nella lettura della perizia del prof. Luciano, i cui risultati sono attentamente e logicamente esaminati, fino a giungere ad una conclusione importante: che il colloquio non era stato manipolato quanto al contenuto della registrazione, ma sotto altri profili, l'amplificazione del rumore ("evidenziazione del parlato") e l' "aggiustamento di guadagno". Il ricorso non dimostra affatto il travisamento della perizia, riportando, non a caso, un passo dell'esame del perito in cui si fa riferimento all'amplificazione del La eccezione di ìnutilizzabilità del file è infondata: la Corte territoriale, con motivazione attenta e logica, dà credito alla versione offerta dalla persona offesa con riguardo alle circostanze della registrazione e alle modalità del riversamento e del riascolto della stessa e, quindi, afferma che la registrazione è utilizzabile, pur essendo frutto di operazioni tecniche successive ad essa, essendo possibile affermare che il colloquio tra i due soggetti era avvenuto nei termini da essa riportata. Si deve ricordare che la giurisprudenza costante di questa Corte afferma che la copia di un documento, quando sia idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti, ha valore probatorio anche al di fuori del caso di impossibilità di recupero dell'originale (da ultimo Sez. 2, n. 36721 del 21/02/2008 - dep. 25/09/2008, Buraschi e altro, Rv. 242083), purché essa sia idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti (Sez. 3, n. 2065 del 22/01/1997 - dep. 05/03/1997, Winkler, Rv. 207104): si tratta di applicazione del principio di non tassatività dei mezzi di prova stabilito dall'art. 189 cod. proc. pen.; occorreva, ovviamente, accertare la provenienza del documento (art. 239 cod. proc. pen.), verifica ampiamente eseguita dalla Corte territoriale. Con riferimento al contenuto della memoria difensiva con cui la difesa dell'imputato sosteneva l'inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e del figlio Mario, si deve condividere l'affermazione della difesa della parte civile secondo cui la Corte ha tenuto conto della memoria, più volte esplicitamente menzionata, senza eludere alcuna questione. Ciò vale per quanto riguarda la conoscenza da parte di una pluralità di soggetti dell'uso del nome "Raso" da parte dell'estorsore del 1988 (motivazione amplissima, pagg. 62 - 65, il cui contenuto non è affatto riducibile a quanto esposto nel ricorso che sostiene un travisamento della prova senza specificamente indicarla e riportarla); sull'avvenuto pagamento della tangente del 1988, negato da Di Giovanna e affermato da Lorefice (la circostanza è richiamata per sostenere la diversa interpretazione del colloquio registrato tra i 24 rumore. due soggetti); sul reperimento della somma di lire 200 milioni successivamente all'11/7/2001; sulla valenza del CD ronn che riproduceva le banconote utilizzate per il pagamento. Nessuna manifesta illogicità della motivazione si ricava quanto alla valutazione delle condizioni economiche di Lorefice. La motivazione sulla attendibilità intrinseca di Di Giovanna Giuseppe è ampia, attenta e niente affatto manifestamente illogica; il presunto accordo calunniatorio tra Di Giovanna e la moglie non è affatto svelato dall'errore in ordine all'autovettura che Lorefice aveva quando Di Giovanna gli consegnò i incertezza sul dato e, del resto, il cambio dell'autovettura risaliva proprio a quell'epoca; d'altro canto, il tipo e il colore dell'autovettura è un dato palesemente secondario, mentre la consegna del denaro è attestata dalla sentenza irrevocabile di condanna a carico di Calogero Ragusa. L'intercettazione tra Lorefice e la sorella faceva riferimento ad un articolo di giornale che - come dimostra la parte civile con puntuali indicazioni - era stato acquisito al fascicolo per il dibattimento; l'interpretazione del colloquio adottata dalla Corte è motivata logicamente, cosicché questa Corte non può rivalutare il dato; né il ricorrente si riferisce ad un vero e proprio travisamento della prova. Ampiamente motivata, in maniera niente affatto illogica, è l'attribuita attendibilità ad Annunziata Vito che il ricorrente, con ogni evidenza, vuole far rivalutare a questa Corte, così come quella di Bellanca e La Rosa. Si deve sottolineare che la Corte non si limita ad analizzare i singoli elementi di prova, ma giunge ad una valutazione conclusiva e sintetica della vicenda che si mostra niente affatto illogica o contraddittoria con gli atti del processo accuratamente esaminati. Il motivo di ricorso deve, in definitiva, essere rigettato. 4. Anche il quarto motivo di ricorso è infondato, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale. Quanto alla legittimità della contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152 del 1991, si deve ricordare l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 c.p.p. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 c.p.p. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle 25 pacchi contenenti il denaro, atteso che entrambi i coniugi hanno mostrato indagini preliminari (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998 - dep. 11/03/1999, Barbagallo, Rv. 212757); la giurisprudenza successiva è costante in senso conforme al detto insegnamento (da ultimo Sez. 6, n. 44501 del 29/10/2009 - dep. 19/11/2009, Cardella, Rv. 245006), mentre la pronuncia invocata dal ricorrente è rimasta del tutto isolata. Quanto al merito dell'aggravante, si è costantemente affermato che per la configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso", prevista necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 1, n. 5881 del 04/11/2011 - dep. 15/02/2012, Giampa', Rv. 251830; Sez. 1, n. 16883 del 13/04/2010 - dep. 04/05/2010, Stellato e altri, Rv. 246753); quindi si applica anche alla condotta di un soggetto non appartenente ad associazioni mafiose, se è fondata sulla loro esistenza in una data zona (Sez. 1, n. 4898 del 26/11/2008 - dep. 04/02/2009, Cutolo, Rv. 243346). Si è, ad esempio, affermato che integra la circostanza aggravante dell'uso del metodo mafioso la condotta di colui che ottenga somme destinate alla distribuzione ai sodali in occasione delle festività pasquali e natalizie, ponendosi al cospetto delle persone offese come emissario di un gruppo criminale organizzato e rappresentando loro l'incontrastabilità e l'ineluttabilità degli scopi dell'associazione (Sez. 1, n. 17532 del 02/04/2012 - dep. 10/05/2012, Dolce, Rv. 252649). La fattispecie in esame corrisponde esattamente a questa ipotesi, poiché la persona offesa era stata indotta a ritenere che l'estorsione provenisse da appartenenti ad associazioni mafiose, in grado di porre in essere gravissimi atti di violenza come quello subito da Di Giovanna. 5. Il quinto e sesto motivo di ricorso sono manifestamente infondati. La motivazione della Corte territoriale è ampia e convincente e, d'altro canto, in presenza della avvenuta prescrizione dei reati, la pronuncia di assoluzione era possibile soltanto in presenza dell'evidenza dell'innocenza dell'imputato, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. art. 531, comma 1, cod. proc. pen.). Si tenga presente che né il tentato furto (capo G) né, tanto meno, il favoreggiamento personale a favore di Sorrentino Ciro (capo D) erano condotte produttive di danno nei confronti della parte civile costituita Di Giovanna Giuseppe, cosicché non ricorreva la necessità per la Corte di una motivazione 26 dall'art. 7 D.L. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in I. 12 luglio 1991, n. 203), non è approfondita con riferimento ai possibili effetti civilistici della stessa. La motivazione, comunque, è stata assai ampia anche per detti reati, dimostrando la Corte ampiamente l'impossibilità di ritenere evidente l'innocenza dell'imputato. 6. L'ultimo motivo di ricorso è altrettanto infondato. La sentenza impugnata fornisce una motivazione di oltre due pagine per segnalando la gravità oggettiva dei fatti, le modalità riprovevoli della loro commissione, l'entità dei danni arrecati, le negative e spregevoli caratteristiche della personalità dell'imputato. Questa Corte ha ritenuto ammissibili e legittime motivazioni ben più sintetiche, affermando che la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell'ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010 - dep. 23/11/2010, Straface, Rv. 248737) e sottolineando che, nel motivare il diniego, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 - dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv. 248244). Il ricorso deve, in definitiva, essere rigettato, con conseguente condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali e alla refusione delle spese sostenute nel presente grado dalle parti civili. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese del grado, che liquida nella complessiva somma di euro 7.200, oltre spese generali, IVA e CAP come per legge. Così deciso il 27 marzo 2013 gliMOSITATA giustificare la mancata concessione delle attenuanti generiche all'imputato,

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