Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35720 del 29/04/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35720 Anno 2013
Presidente: BEVERE ANTONIO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PANZECA GIUSEPPE N. IL 18/11/1956
avverso la sentenza n. 3295/2008 CORTE APPELLO di PALERMO,
del 16/05/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 29/04/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FERDINANDO LIGNOLA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 29/04/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Elisabetta Cesqui, ha concluso chiedendo
dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
per il ricorrente è presente l’avv. Luigi Mattei, che insiste per raccoglimento del ricorso e ne
chiede raccoglimento; è presente altresì l’avv. Salvo Mondello, in sostituzione dell’avv.
Raffaele Bonsignore, che contesta le conclusioni del P.G. insiste per l’ammissibilità e
fondatezza del ricorso e in subordine chiede dichiararsi il reato estinto per prescrizione.

1. Con sentenza del 16 maggio 2011 la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della
sentenza del 19 novembre 2007 del Tribunale di Palermo, confermava la pronuncia di penale
responsabilità di Panzeca Giuseppe, in ordine al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale
aggravata, a norma dell’articolo 223 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, commesso quale
dominus effettivo della società cooperativa “Salpancore” (fallimento dichiarato in data 11
febbraio 1999), per aver distratto il patrimonio della società, recante un passivo di oltre
settecento milioni di lire, causando un danno patrimoniale ingente.
2. Contro la decisione della Corte d’appello di Palermo propone ricorso per cassazione
l’imputato, con atto dei propri difensori, avvocati Luigi Mattei e Raffaele Bonsignore, affidato a
tre motivi:
a) violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera B ed E, in relazione agli articoli 261, 219,
217 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, 2639 c.c., 192 e 194 cod. proc. pen.. Secondo il
ricorrente le risultanze accusatorie dei collaboratori di giustizia Giuffrè, Barbagallo e Lanzalaco
non hanno alcuna valenza dimostrativa, poiché si caratterizzano per genericità ed aspecificità e
non forniscono un contributo cognitivo sufficientemente specifico, rispetto all’asserita attività
gestionale dell’imputato; inoltre esse sono contraddette dai testimoni diretti Lindiner, Faraone
e Militello, che escludono qualsiasi ingerenza dell’imputato nella gestione della società. In
particolare le dichiarazioni del collaboratore Lanzalaco, secondo le quali la sorella ed il cognato
dell’imputato cominciarono a gestire la società fin dall’acquisto delle quote, nel 1992, a giudizio
del ricorrente privano di rilievo probatorio le dichiarazioni degli altri due collaboratori; quelle
del collaboratore Giuffrè sono inoltre smentite documentalmente. Sono state poi trascurate le
risultanze dell’esame testimoniale del curatore fallimentare, avv. Passarello, che ha escluso
qualsiasi rapporto, legame o cointeressenza con le società amministrate e/o gestite dal
Panzeca.
b) violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera B e D, in relazione all’art. 192 cod. proc.
pen. e 216, 219 e 223 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267; il ricorrente evidenzia che la Corte
d’appello ha proceduto a nuova trascrizione delle intercettazioni ambientali ed ha ritenuto che
il loro contenuto riscontri le prospettazioni accusatorie, pur mancando l’indicazione degli
interlocutori anche solo con nome di battesimo. Avendo il perito indicato i dichiaranti con la

RITENUTO IN FATTO

locuzione “uomo 1”, “uomo 2”, “uomo 3”, non si comprende come abbia potuto la Corte
territoriale valutare la nuova prova;
c) violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera B ed E, in relazione agli artt. 216, 219 e
223 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, 2639 c.c. e 234 cod. proc. pen., poiché la Corte
territoriale non ha motivato in ordine alla prova dell’esercizio di un’attività gestoria di fatto
svolta dall’imputato in modo non episodico od occasionale, che ne avrebbe consentito
l’estensione della qualifica soggettiva a norma dell’art. 2639 c.c.; per di più in atti vi era la

di escludere l’ipotesi di continuità e significatività gestionale.
3. Con memoria recante motivi nuovi, depositata 1’11 aprile 2013, i difensori presentano un
ulteriore motivo, deducendo violazione dell’articolo 606 cod. proc. pen., lettera B, C ed E, in
relazione agli artt. 216, 219 e 223 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, 2639 c.c., 192 comma 3,
195 e 234 cod. proc. pen., ribadendo i principi giurisprudenziali che consentono di qualificare
come amministratore di fatto un soggetto ed escludendo che si sia raggiunta la prova nel caso
di specie. Irrilevante, in proposito, sono considerate le dichiarazioni del collaboratore Giuffrè,
che riferisce di aver appreso da Di Gesù Lorenzo, zio dell’imputato, l’acquisto delle quote da
parte dell’imputato; l’acquisto avvenne nell’anno 1992 ed il teste di riferimento, Di Gesù
Lorenzo, morì nel 1990. Il collaboratore Lanzalaco, poi, ha parlato genericamente di “gestione”
dell’imputato, senza indicare alcun atto concreto, ed ha anche riferito che la sorella ed il marito
dell’imputato non erano delle “teste di legno”, ma lavoravano effettivamente
nell’amministrazione della società. L’imputato è stato poi detenuto per lunghi periodi, tra il
1995 ed il 2001, ed il fallimento è stato dichiarato 1 1 11 febbraio 1999, per cui mancherebbero
gli indici da cui desumere la qualità di amministratore di fatto del Panzeca.
Infine viene ribadita la censura alla sentenza di appello, laddove utilizza la trascrizione delle
intercettazioni telefoniche del 12, 14, 16 e 18 maggio 1997, nelle quali si riconosce
nell’imputato la persona nominata “Giuseppe”, anche se non si identificano i soggetti che
conversano.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1 Va ricordato che la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito
proponga la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione,
ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia logica e compatibile con il senso
comune. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere, inoltre, percepibile
ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza,
restando ininfluenti le minime incongruenze. Dunque, non è possibile per questa Corte
procedere ad una ricostruzione alternativa dei fatti, sovrapponendo a quella compiuta dai
giudici di merito una diversa valutazione del materiale istruttorio, se, come nel caso di specie,
vi è congrua e logica motivazione nel provvedimento (o, meglio, nei provvedimenti, dato che le

prova contraria, poiché l’imputato è stato detenuto per lunghi periodi e questo già consentiva

motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda,
confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento
per giudicare della congruità della motivazione; cfr. Sez. 2, Sentenza n. 5606 del 10/1/2007,
Conversa, Rv. 236181).
2. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso, unitamente ai motivi nuovi dell’Il aprile 2013,
sono da ritenersi inammissibili, sia perché le censure proposte ripropongono quelle proposte in
sede di appello e rispetto alle quali la sentenza impugnata ha ampiamento dato risposta in

l’apparente denuncia di vizi della motivazione, si traducono nella sollecitazione di un riesame
del merito – non consentito in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli
elementi probatori acquisiti.
2.1 La Corte territoriale ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno indotta a ritenere
provato il delitto di bancarotta fraudolenta, ritenendo le dichiarazioni dei tre collaboratori di
giustizia in ordine al ruolo ricoperto dall’imputato nelle società Salpancore ed Immobiliare San
Nicola Uno “precise, coerenti e convergenti” (pagina 15 della sentenza d’appello), riscontrate
dalle attività di osservazione svolte dalla Guardia di Finanza presso la sede della Salpancore e
dalle deposizioni dei testi Canale, Iacono, Militello e Faraone; dalle fideiussioni prestate per la
società cooperativa fallita; dalla verifica sui tabulati attestanti i periodi di detenzione del
Panzeca, dai quali risulta che egli era libero all’epoca della vendita dei moduli di pontile ai due
dipendenti.
Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente non segnala alcuna caduta di
consequenzialità, che emerga ictu ()cui/ dal testo stesso del provvedimento; mentre il suo
tentativo di rivalutare le ragioni di inattendibilità dei collaboratori di giustizia e dei tesi di
accusa, già considerate dai giudici di merito e non ritenute decisive, si risolve nella
prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di
merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di Cassazione.
3. Anche il terzo motivo di ricorso (anche questo ripreso nei motivi nuovi), relativo al ruolo di
amministratore di fatto del Panzeca, con riferimento alla prova dell’esercizio di un’attività
gestoria di fatto svolta dall’imputato in modo non episodico od occasionale, rappresenta una
non consentita sollecitazione di un riesame del merito, poiché la Corte territoriale è pervenuta
all’individuazione del ruolo dell’imputato nella società all’esito dell’esame degli elementi di
prova, non ultimo le stesse ammissioni dell’imputato (pagina 17 della sentenza d’appello), il
quale nell’escludere un suo ruolo di amministratore della società, aveva tuttavia ammesso di
avere avuto una “particolare attenzione” per la situazione economica della società, fino ad
intromettersi in delicate questioni finanziarie. Ulteriori elementi che indicano nel Panzeca
l’amministratore di fatto della Salpancore, che operava in concorso con gli amministratori di
diritto, sono indicati nel collegamento tra le due società gestite dall’imputato: nella
predisposizione di una officina per la riparazione delle imbarcazioni della Salpancore all’interno
della struttura che l’imputato stava realizzando con la società immobiliare San Nicola Uno; nel

maniera logica e congrua, sia perché versati in fatto, poiché le censure elevate, dietro

contratto di locazione tra le due società; nel deposito dei libri contabili della Salpancore in un
locale dell’altra società (pagina 38).
4. Il secondo motivo di ricorso (anche questo ripreso nei motivi nuovi), con il quale si deduce
illogicità della motivazione, in relazione alle trascrizioni delle intercettazioni ambientali eseguite
in esito alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, è manifestamente infondato. La Corte
territoriale ha fornito adeguata e logica risposta al motivo di appello sul punto, perchè
l’imputato è l’unica persona che si chiama Giuseppe tra i vari soggetti interessati alla vicenda

colloqui emerge chiaramente che “Giuseppe” impartisce direttive ed ordini relativi alla vita
della società (pagine 41-43 della sentenza d’appello).
5.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; alla declaratoria di

inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a
colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al
versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo
determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 29 aprile 2013

oggetto del procedimento (identificabile anche grazie ai riferimenti allo zio ed a Calò) e dai

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