Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35719 del 09/06/2015


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35719 Anno 2015
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: DE MARZO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MANFRE’ TINDARO CARMELO N. IL 28/04/1959
avverso la sentenza n. 1401/2011 CORTE APPELLO di MESSINA, del
26/09/2014
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 09/06/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO
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– Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
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Data Udienza: 09/06/2015

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26/09/2014 la Corte d’appello di Messina ha confermato la
decisione di primo grado, che aveva condannato alla pena di giustizia Tindaro
Carmelo Manfrè, avendolo ritenuto responsabile del reato di cui agli artt. 624 e
625, comma primo, n. 4, cod. pen., per essersi impossessato con destrezza,
approfittando di un momento di distrazione dell’addetta al banco di un esercizio
Bar Tabacchi, di un salvadanaio adibito alla raccolta di mance, contenente la
somma di euro 50,00, sottraendolo alla titolare del medesimo esercizio, Muta

2. Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai
seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo, si lamenta violazione degli art. 546 e 125, comma 3,
cod. proc. pen., per mancanza o insufficienza della motivazione della sentenza
impugnata, dal momento che la Corte d’appello di Messina non avrebbe
affrontato tutti le doglianze e le richieste espresse durante la discussione orale,
con conseguente violazione del diritto di difesa.
2.2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione dell’art. 56 cod. pen. per non
avere la Corte territoriale considerato la sussistenza dei presupposti della
desistenza. Va aggiunto che, nel corpo di tale motivo, il ricorrente prospetta la
sussistenza del furto d’uso.
2.3. Con un terzo motivo, si prospetta l’assenza dell’elemento soggettivo, per
essere la volontà dell’agente viziata dall’errore cui lo stesso aveva cercato di
rimediare con la restituzione del bene sottratto: ciò che, per altro verso,
comunque integrerebbe la meno grave fattispecie del furto d’uso, improcedibile
per difetto di querela. Il ricorrente invoca altresì gli artt. 69 e 70 cod. proc. pen.
2.4. Con un quarto motivo, il ricorrente si duole della ritenuta sussistenza della
circostanza aggravante della destrezza, perché il bene era oggetto di
videosorveglianza e posto sotto l’occhio vigile del proprietario e di quanti
lavoravano nel locale e, in ogni caso, perché non può escludersi che costoro si
siano potuti allontanare per servire i clienti. Si aggiunge che il Manfrè può essere
stato indotto in errore ex art. 47 cod. pen., dato che il salvadanaio era vicino ad
un giornale che l’imputato aveva con sé, ma soprattutto era vicino all’ingresso,
per cui la banconista spesso si allontanava per lavoro.
Con ulteriore articolazione si deduce l’assenza di prove certe del reato, con
riferimento al profilo della sottrazione e del profitto.
2.5. Con un quinto motivo, si rileva che la sentenza impugnata si fonda su prove
illegalmente acquisite e quindi non utilizzabili, dal momento che le dichiarazioni
della Scaffidi non

erano riscontrate e il maresciallo Cannetti non

aveva

confermato la presenza del cartello che avrebbe dovuto avvertire ogni utente di
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Pina Scaffidi.

trovarsi in zona video-sorvegliata. Si osserva, altresì, che la videoregistrazione è
stata sviluppata e prodotta dalla parte e non da un tecnico nominato dalla
Procura, all’interno di operazioni alle quali avrebbe potuto partecipare la difesa.
In ogni caso, si lamenta l’erronea valutazione delle prove, carenti, insufficienti e
contraddittorie.
2.6. Con il sesto motivo, si rileva che il reato si è estinto per prescrizione.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità, dal momento che il

successivi motivi – e che, invece, hanno ricevuto idonea confutazione -, siano
stati trascurati dal giudice di secondo grado.
2. Il secondo motivo è inammissibile per l’assoluta genericità delle doglianze, in
quanto: a) innanzi tutto, il ricorrente prospetta due qualificazioni del fatto tra
loro incompatibili, giacché il furto d’uso presuppone la sottrazione del bene, sia
pure allo scopo di farne uso momentaneo e di restituirlo immediatamente dopo,
laddove la desistenza richiede una volontaria scelta di non proseguire nell’azione
tipica (al punto, che, in tal caso, l’art. 56, comma terzo, cod. pen., prevede la
punizione degli atti compiuti, solo se questi costituiscano un reato diverso); in
secondo luogo, la desistenza non è correlata in ricorso ad alcuna ricostruzione
dell’episodio che veda l’imputato volontariamente interrompere l’azione
criminosa, ma al fatto che egli abbia “cercato di rimediare alle conseguenze del
reato” (pag. 6 del ricorso), che quindi si assume consumato; c) in terzo luogo,
per la configurabilità del furto d’uso, occorrono due elementi essenziali: il primo
caratterizzato dal fine esclusivo di fare uso momentaneo della res sottratta;
l’altro individuato nella restituzione che, dopo l’uso, deve essere effettuata. Tale
restituzione deve essere volontaria, ossia deve presentarsi come libera
attuazione dell’iniziale intenzione di restituire. Tutte le cause, pertanto, che
determinano una coazione alla restituzione, rendono applicabile il titolo comune
di furto, e così pure tutte le cause, anche indipendenti dalla volontà del
colpevole, che impediscono la restituzione (Sez. 2, n. 9090 del 07/03/1989 dep. 22/06/1990, Nicosia, Rv. 184695; sulla necessaria spontaneità della
restituzione, v. anche Sez. 5, n. 6431 del 29/12/2014 – dep. 13/02/2015,
Belprati, Rv. 262664); d) nel caso di specie, al contrario, come si esplicita
nell’atto di appello e come viene implicitamente ribadito nel ricorso per
cassazione, l’imputato avrebbe offerto la restituzione della somma pretesa dalla
persona offesa “al solo fine di evitare il presente giudizio”.
3. Il terzo motivo è inammissibile.
A tacer del fatto che non si intende il significato del richiamo agli artt. 69 e 70

cod. proc. pen., va considerato che il ricorrente deduce l’esistenza di un errore
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ricorrente neppure indica in questa sede quali punti, rispetto agli altri dedotti nei

senza specificarne il contenuto, con il che priva di ogni fondamento l’asserita
assenza dell’elemento soggettivo che avrebbe dovuto sorreggere la condotta
contestata. Per completezza, può aggiungersi che, nel prosieguo dell’atto di
impugnazione, trattando dell’insussistenza della circostanza aggravante della
destrezza, il ricorrente prospetta un errore nel quale sarebbe stato indotto, dal
momento che il salvadanaio era vicino all’ingresso.
Al riguardo, va però ribadito che, ai fini dell’applicazione dell’art. 47 cod. pen.,
non è sufficiente che l’imputato affermi di non avere avuto la consapevolezza su

su chi invoca l’errore l’onere di provare – o almeno di allegare elementi specifici
che consentano una verifica dell’assunto – di aver agito presupponendo una
realtà diversa da quella effettiva (Sez. 3, n. 949 del 07/10/2014 – dep.
13/01/2015, D, Rv. 261782), laddove, nel caso di specie, nella prospettiva
dell’accertamento sia del dolo del delitto contestato, sia della sussistenza della
circostanza aggravante della destrezza, non è razionalmente immaginabile alcun
errore che possa avere indotto il Manfrè a prelevare unitamente al proprio
giornale anche un salvadanaio a forma di porcellino.
Né le superiori conclusioni in punto di ricorrenza dell’elemento psicologico sono
contrastate logicamente dalla riconsegna del denaro sottratto, che rappresenta
una scelta evidentemente successiva alla consumazione del reato ed operata,
come lo stesso ricorrente ammette nell’atto di appello, al fine di evitare il
giudizio.
Per quanto concerne le doglianze che tornano a prospettare la qualificazione
della condotta in termini di furto d’uso, si rinvia alle considerazioni svolte supra

sub 2.
4. Il quarto motivo è inammissibile, in parte per manifesta infondatezza e in
parte per genericità.
Con riferimento alla ritenuta assenza di prove della sottrazione e del profitto
conseguito, è appena il caso di rilevare che il riconoscimento dell’imputato come
la persona che aveva sottratto il salvadanaio provenga dalla medesima persona
offesa e dai militari della locale stazione dei carabinieri, alla luce delle risultanze
del sistema di videosorveglianza del locale (e sulla utilizzabilità di tali elementi di
prova si rinvia infra sub 5).
Ne discende che del tutto assertiva è la doglianza indicata, che non si confronta
con tale apparato argonnentativo della sentenza del giudice di primo grado, quale
evidentemente recepita dalla decisione impugnata, a fronte delle generiche
censure dell’imputato.
Quanto alla circostanza aggravante della destrezza, va ribadito che è sufficiente
che l’agente approfitti di uno stato di tempo e di luogo tali da attenuare la
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un elemento costitutivo del reato che caratterizza il fatto tipico, in quanto ricade

normale attenzione della parte lesa nel mantenere il controllo ovvero la vigilanza
sulla cosa, rientrando nel concetto di destrezza qualsiasi modalità della azione
furtiva idonea a non destare la suddetta attenzione (Sez. 5, n. 640 del
30/10/2013 – dep. 10/01/2014, Rainart, Rv. 257948).
Nella specie, ancora una volta con prospettazioni logicamente incompatibili, il
ricorrente, per un verso, ammette che il bene era situato sotto l’occhio vigile del
proprietario e di quanti lavoravano nel locale (il che confermerebbe proprio che
solo con particolare scaltrezza operativa egli potrebbe aver portato a

potuti allontanare per servire i clienti del locale, trascurando di considerare che
sussiste l’aggravante della destrezza anche quando l’agente approfitti di una
condizione contingentemente favorevole o di una frazione di tempo in cui la
parte offesa ha momentaneamente sospesa la vigilanza sul bene perché
impegnata, nello stesso luogo di detenzione della cosa o in luogo
immediatamente prossimo, a curare attività di vita o di lavoro (Sez. 6, n. 23108
del 07/06/2012, Antenucci, Rv. 252886).
Della non pertinenza del richiamo all’errore sul fatto, anche ai fini dedotti nel
presente motivo, si è già detto supra sub 3.
5. Il quinto motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, dal momento che
la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che l’art. 234 cod. proc.
pen. consente l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti,
persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi
altro mezzo. In tale contesto è del tutto irrilevante che le registrazioni siano
state effettuate in conformità o non delle istruzioni del Garante per la Protezione
dei dati personali, non costituendo la disciplina sulla

privacy sbarramento

all’esercizio dell’azione penale (Sez. 2, n. 6812 del 31/01/2013, Villa, non
massimata; Sez. 5, n. del 05/12/2013 – dep. 23/01/2014, Romano, non
massimata).
Tale soluzione scaturisce dalla considerazione che la protezione della
riservatezza, espressa dalla disciplina in materia di protezione dei dati è
“subvalente” rispetto alle esigenze di accertamento proprie del processo penale
(Sez. 2, n. 22169 del 08/03/2013, Gai, Rv. 256069, che, infatti ha ritenuto
utilizzabile il filmato del sistema di sorveglianza conservato per un tempo
superiore a quello previsto dall’art. 11 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196).
Il ricorrente peraltro lamenta una violazione di garanzie difensive che, invece, è
palesemente insussistente, in quanto, una volta acquisito il documento
rappresentato dalla registrazione, nulla impediva alla difesa di articolare tutte le
richieste occorrenti a dimostrarne l’inefficacia dimostrativa.

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compimento la sottrazione) e, per altro verso, ipotizza che costoro si0 siano

6. Il sesto motivo è inammissibile per manifesta infondatezza, dal momento che,
considerata la data di consumazione del reato (13/07/2008), il termine di
prescrizione ordinario di sette anni e mezzo sarebbe decorso solo il 13/01/2016.
7. Alla pronuncia di inammissibilità consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al
versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione
delle questioni dedotte, appare equo determinare in euro 1.000,00.

P.Q.M.

spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle
Ammende.
Così deciso in Roma il 09/06/2015

Il Componente estensore

Il Presidente

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

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