Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35686 del 30/05/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35686 Anno 2014
Presidente: OLDI PAOLO
Relatore: SETTEMBRE ANTONIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
OLI VIERI GABRIELE N. IL 20/09/1935
avverso la sentenza n. 35/2012 TRIBUNALE di TERAMO, del
08/02/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 30/05/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ANTONIO SETTEMBRE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 30/05/2014

- Udito il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione,
dr. Gianluigi Pratola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
– Udito, per la parte civile De Pascalis Salvatore, l’avv. Massimo Tondi, che si è
associato alle conclusioni del Pubblico Ministero.

RITENUTO IN FATTO

Il Tribunale di Teramo, in funzione di giudice d’appello avverso i

provvedimenti del giudice di pace, con sentenza dell’8/2/2013, a conferma di
quella emessa dal Giudice di Giulianova, ha condannato Olivieri Gabriele per
ingiuria e minaccia in danno di De Pascalis Salvatore, oltre al risarcimento del
danno patito da quest’ultimo.
Il comportamento illecito dell’Olivieri è stato originato, secondo l’accusa, dalla
contestazione dell’esercizio illecito della pesca, elevata dal De Pascalis nella
qualità di Comandante dell’Ufficio Circondariale Marittimo di Tortoreto.

2. Ha presentato ricorso per Cassazione, nell’interesse dell’imputato, l’avv.
Florindo Tribotti per violazione di legge e vizio di motivazione, non essendo stati
correttamente applicati – a suo giudizio – gli artt. 593/bis cod. pen. e 599 cod.
pen. e perché non è stato motivata, dal giudice d’appello, la inoperatività della
causa di non punibilità prevista dalle norme suddette.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato.
Secondo il ricorrente, l’Olivieri non è punibile perché ha reagito ad un atto
arbitrario del pubblico ufficiale, costituito dalla contestazione di una
contravvenzione – per l’imputato non commessa – alla disciplina della pesca.
Nell’occasione, il De Pascalis si sarebbe mostrato sordo alle rimostranze
dell’imputato, che argomentava sulla insussistenza del fatto, poiché solo intento
a tagliare, sulla battigia, una rete che non era di sua proprietà.
Il ricorrente richiama l’art. 393/bis cod. pen., che ha introdotto una causa di
non punibilità già prevista nel codice Zanardelli (artt. 192 e 199) e non
riprodotta nel codice del 1930, ma reintrodotta nell’ordinamento penale con l’art.
4, D.Lgs.Lgt. 14.9.1944, n. 288. Sulla falsariga della giurisprudenza affermatasi
sotto la vigenza della norma da ultimo richiamata, tranquillamente utilizzabile in
considerazione della continuità della normazione, la ragione di fondo della
inapplicabilità degli articoli richiamati dall’art. 393-bis consiste nel fatto che
l’Ordinamento non intende apprestare tutela all’esercizio arbitrario della pubblica
2

1.

autorità. Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte,
l’arbitrarietà dell’atto non si esaurisce nella sua illegittimità, occorrendo altresì la
consapevolezza dell’agente di realizzare e tenere un comportamento che esorbiti
dai limiti delle proprie attribuzioni: l’atto arbitrario sussiste allorquando l’agente,
con esso, abbia inteso espressamente perseguire scopi assolutamente estranei
alle finalità dei poteri riconosciutigli, strumentalizzando il proprio potere (C., Sez.
II, 21.9.2004; C., Sez. VI, 22.10.2002; C., Sez. VI, 3.5.2000). E anche quando è
stato affermato (sulla scia di C. Cost. 23.4.1998, n. 140), in alcune pronunce,

delle modalità di svolgimento di una attività astrattamente legittima possa
giustificare la reazione del privato, è stato sempre precisato che occorre
comunque il consapevole travalicamento da parte del pubblico ufficiale dei limiti
e delle modalità entro cui le pubbliche funzioni devono essere esercitate (Cass.,
n. 36009 del 21/6/2006; nonché C. 4.5.1998; C. 24.11.1998); e che occorre
comunque proporzione nella reazione.
L’applicazione di tali criteri al caso di specie rende evidente che l’arbitrarietà
lamentata dal ricorrente è del tutto insussistente. L’accusa rivolta al De Pascalis
è, infatti, quella di non aver condiviso le giustificazioni dell’imputato e di non
aver creduto che questi stesse tagliando una rete altrui; anzi, di essere rimasto
“sordo” alle sue spiegazioni. Anche rimanendo alla prospettazione difensiva, non
è dato comprendere dove sia non già l’arbitrarietà o la illegittimità dell’atto, ma
anche dove risieda l’offensività o l’inurbanità del comportamento, posto che la
diversa opinione formatasi, sul momento, dall’accertatore lo portava,
necessariamente, a disattendere la spiegazione fornita dall’imputato e ad elevare
la contravvenzione prevista dalla legge. E se l’imputato insisteva nella sua tesi,
era giocoforza per De Pascalis chiudere la discussione e portare a termine
l’attività accertativa, rispetto a cui Olivieri avrebbe potuto esercitare, a tempo
debito, i rimedi apprestati dall’ordinamento. Logica e conforme a diritto è,
pertanto, la conclusione del giudicante, il quale, di fronte alla perorazione di
principi esatti ma irrilevanti in concreto, non ha potuto fare altro che rilevare di
non essere “stato investito di alcuna circostanza di fatto idonea a far insorgere
censura sull’operato del De Pascalis”.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’articolo 616 cod.
proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte
privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del
procedimento, nonché — ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della
causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della
somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
L’imputato va anche condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado
dalla parte civile, che si liquidano in dispositivo.
3

che anche la scorrettezza, la sconvenienza, l’inurbanità, la inutile offensività

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1.000 a favore della Cassa delle ammende,
nonché alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate in complessivi euro
1.200, oltre accessori come per legge.

Così deciso il 30/5/2014

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