Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35676 del 14/05/2015


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 35676 Anno 2015
Presidente: IPPOLITO FRANCESCO
Relatore: MOGINI STEFANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto da

Data Udienza: 14/05/2015

REGISTRO
FUMAGALLI ALDO, nato a Varese il 15.10.1950

GENERALIE

avverso la sentenza emessa nei suoi confronti dalla Corte d’Appello di Milano il 14 febbraio
2014;

N. 49314P14

visti gli atti, la sentenza impugnata, il ricorso e i motivi nuovi depositati il 5 maggio 2015;
udita la relazione del consigliere Dott. Stefano Mogini;
udito il sostituto procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello, che ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso;
udito l’avvocato Diego Brancia, difensore di fiducia del ricorrente, che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Milano ha, in parziale riforma della

sentenza del Tribunale di Varese del 4.4.2013, escluso la continuazione interna al capo A della
rubrica e ridotto la pena inflitta a Aldo Fumagalli per i reati di peculato (capo A) e induzione
indebita a dare o promettere utilità (capi C e D) a tre anni e 10 mesi di reclusione.
All’esito del giudizio di primo grado Fumagalli era stato assolto dall’imputazione di peculato
a lui contestata nella sua qualità di Sindaco del Comune di Varese al capo B della rubrica con
riferimento all’indebita appropriazione di un appartamento di quel Comune ed era stato
ritenuto invece ritenuto responsabile: a) del delitto di peculato di cui all’art. 314 comma 1 c.p.
per essersi, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e nella suddetta qualità

assegnata, con tutte le relative spese a carico dell’ente pubblico, nonché del lavoro dell’autista
che di volta in volta veniva distolto dai suoi compiti d’istituto in relazione a plurimi episodi, del
tutto estranei ad esigenze e motivi d’ufficio, nei quali l’autovettura di servizio veniva usata per
far viaggiare, per suo esclusivo vantaggio personale, cittadine straniere da sole o in sua
compagnia (capo A); b) dei reati di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art.
319 quater c.p., così modificata nel corso del giudizio l’originaria contestazione di concussione
(art. 317 c.p.), per avere indotto, abusando della sua qualità di Sindaco del Comune di Varese,
Augusta Lena, presidente della Cooperativa Sociale Sette Laghi che aveva conseguito dal
Comune un appalto – prossimo alla scadenza – per la pulizia degli immobili comunali e di
servizi ausiliari presso gli asili e scuole comunali, a promettergli l’assunzione di tre cittadine
rumene, due delle quali prive di regolare permesso di soggiorno (capo C), e a concedergli
gratuitamente l’uso di un appartamento per alloggiare una cittadina rumena da lui frequentata
(capo D).

2. Aldo Fumagalli ricorre tramite i suoi difensori di fiducia avverso la richiamata sentenza
d’appello, deducendo con separati ricorsi (in particolare, coi primi tre e l’ottavo motivo del
ricorso datato 28.5.2014, sostanzialmente riprodotto, con diverso ordine delle doglianze, in
quello datato 13.10.2014) e, più di recente, con motivi nuovi depositati il 5 maggio 2015,
erronea applicazione della legge penale e conseguenti vizi di motivazione con riferimento alla
qualificazione giuridica dei fatti di peculato per i quali è intervenuta condanna in relazione al
capo A dell’imputazione. Secondo il ricorrente quelle condotte si riferiscono infatti all’uso
momentaneo dell’autovettura di servizio, di poi immediatamente restituita. Esse, meno
numerose (nella prospettazione del ricorrente quattro in tutto, per totali 207 Km. percorsi)
rispetto a quelle contestate, dovrebbero essere valutate alla stregua del principio di offensività,
con conseguente esclusione della loro rilevanza penale, trattandosi di comportamenti
occasionali, non comportanti alcun pregiudizio patrimoniale o intralcio all’attività funzionale
dell’amministrazione, ovvero, al più, essere qualificate, ai sensi dell’art. 314 comma 2 c.p.,
come peculato d’uso. La reiterazione delle condotte non sarebbe al riguardo ostativa, poiché in
tal caso la temporaneità dell’uso non è esclusa dalla percorrenza globalmente considerata,
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di Sindaco del Comune di Varese, ripetutamente appropriato dell’autovettura di servizio a lui

sicché sarebbe configurabile una pluralità di reati di peculato d’uso, eventualmente avvinti dal
vincolo della continuazione e comunque ampiamente prescritti. Inoltre, le condotte contestate
non consistono in una appropriazione, ne’ dal punto di vista oggettivo che da quello oggettivo,
anche per quanto concerne l’utilizzo delle prestazioni lavorative di personale dipendente dal
Comune di Varese, non essendo concepibile l’appropriarsi di una persona o della sua energia
lavorativa. Inoltre, il pubblico ministero non ha mai contestato al ricorrente di essersi
appropriato dell’auto di servizio in via definitiva per tutta la durata del mandato, sicché
mancherebbe la dovuta correlazione tra i fatti descritti al capo A (plurime appropriazioni

del Fumagalli per un’unica appropriazione definitiva della medesima autovettura. L’impugnata
sentenza avrebbe dunque dovuto dichiarare per tale ragione la nullità di quella di primo grado
e non già limitarsi a ridurre la pena escludendo la continuazione interna al capo A.

2.1 Col quarto motivo di ricorso viene invece dedotta violazione di legge processuale per
genericità dei capi C e D dell’imputazione risultanti a seguito della modifica operata dal p.m.
all’udienza del 29.1.2013, a causa dell’omessa descrizione della condotta costrittiva posta in
essere, nella prospettiva accusatoria, dall’imputato. Condotta non desumibile dal mero
riferimento effettuato nei capi di imputazione al contesto temporale di fatti diversi e ai rapporti
tra il ricorrente e la persona offesa Augusta Lena.

2.3 Ulteriori doglianze lamentano: a) vizi di motivazione attinenti alla valutazione della
credibilità della citata persona offesa – ritenuta nella sentenza impugnata in maniera incongrua
rispetto ai molteplici elementi contrari pure evidenziati in sentenza – in ordine alla telefonata
“costrittiva” che il ricorrente le avrebbe fatto per indurla ad ottenere indebitamente le utilità
descritte ai capi C e D dell’imputazione; b) vizi di motivazione e erronea applicazione della
legge penale in riferimento all’art. 317 c.p., in quanto la sentenza impugnata non colloca
temporalmente con precisione la telefonata di cui sopra in rapporto alla promessa della
persona offesa di procedere alle assunzioni di cui al capo C e alla richiesta del Sindaco di
ottenere l’uso dell’appartamento di cui al capo D, lasciando così priva di prova concludente
l’efficacia costrittiva delle condotte contestate, le quali, se successive alla promessa o alla
concessione delle indebite utilità, sarebbero state ininfluenti rispetto alle determinazioni della
Lena, la quale aveva peraltro dimostrato di non essere soggetta a pressioni poiché era stata in
grado di riottenere con fare battagliero la disponibilità dell’appartamento in questione.

2.4 La Corte territoriale avrebbe inoltre violato gli artt. 234 e 519 c.p.p., con conseguenti
vizi di motivazione, allorché ha rigettato il motivo d’appello relativo alla eccepita nullità delle
ordinanze con le quali il Tribunale aveva respinto le istanze difensive volte ad ottenere
l’autorizzazione all’esame del consulente tecnico di parte sulla genuinità e il contenuto di
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temporanee dell’auto di servizio) e le sentenze di merito che hanno ritenuto la responsabilità

conversazione tra il ricorrente e la persona offesa captata tra presenti il 20.7.2011 presso un
ufficio investigativo e l’acquisizione della relativa trascrizione. Tale istanza era stata tra l’altro
reiterata ex art. 519 c.p.p. (come modificato da Corte Cost. n. 241/1992) a seguito della
modifica dei capi C e D dell’imputazione intervenuta nel corso del dibattimento di primo grado,
sicché il Tribunale prima e la Corte territoriale poi avrebbero illegittimamente precluso al
ricorrente di fornire la prova documentale decisiva della mancanza di qualsivoglia sua condotta
induttiva.

1. Il motivi di ricorso relativi al delitto di peculato descritto al capo A dell’imputazione sono
infondati, sotto diversi profili, taluni dei quali autonomamente idonei a far ritenere precluse in
questa sede le relative doglianze.
In primo luogo, è manifestamente infondata la prospettazione secondo la quale le condotte
contestate al capo A della rubrica sarebbero diverse da quelle ritenute in sentenza, penalmente
irrilevanti ovvero interamente sussumibili nell’ambito della fattispecie di peculato d’uso.
Nel caso in esame, sono state contestate all’imputato nell’ambito del capo A) ipotesi di
peculato (art. 314, comma 1, c.p.) concernenti: 1) l’indebito e ripetuto impiego ad uso
personale dell’autovettura di servizio nel corso dell’intero periodo dall’agosto 2002 all’aprile
2004; 2) tutte le spese connesse a tale indebito impiego sopportate dal Comune di Varese, in
tali spese dovendosi ricomprendere, tra l’altro, il consumo del carburante fornito
dall’amministrazione per l’uso di tale mezzo di trasporto; 3) l’impiego a fini privati di personale
dell’amministrazione utilizzato come autista per condurre l’automezzo in questione in luoghi e
per ragioni del tutto inconferenti rispetto all’attività istituzionale del ricorrente, anche per
accompagnare, su sua disposizione ed in sua assenza, le prostitute che egli era solito
frequentare.
La Corte territoriale ha ritenuto, con riferimento all’imputazione di peculato, di non poter
accogliere la richiesta di assoluzione per inoffensività penale del fatto, ovvero di derubricazione
di tutte le condotte contestate dall’ipotesi di peculato prevista all’art. 314 comma 1 c.p. a
quella di peculato d’uso (art. 314 comma 2 c.p.). L’impugnata sentenza evidenzia al proposito
che i viaggi abusivi effettuati dal ricorrente e a lui contestati non possono essere considerati in
modo parcellizzato, ma vanno invece valutati come un complessivo ed abituale abuso,
protrattosi per l’intero periodo in contestazione, produttivo di negativi effetti sul corretto
utilizzo delle risorse pubbliche e sul funzionamento dell’ente. La sentenza d’appello, in ciò
coerente con quella di primo grado, rileva inoltre, con percorso argomentativo del tutto
adeguato e immune da vizi logici e giuridici, che è stata raggiunta piena prova degli episodi
contestati, ben più numerosi di quelli riconosciuti dallo stesso ricorrente come riscontrati dalle
testimonianze acquisite nel corso del giudizio. La Corte territoriale ne trae conferma di un
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Considerato in diritto

impiego abusivo della vettura di servizio tutt’altro che irrilevante, certamente integrante la
condotta appropriativa di cui all’art. 314, comma 1, c.p. per tutte le voci in contestazione
(vetture di servizio; spese relative al loro utilizzo per una apprezzabile distanza chilometrica,
con conseguente consumo di benzina e ingiustificata usura delle medesime vetture;
sottrazione dell’autista dai compiti d’istituto). Secondo la Corte di merito, siffatti aspetti
appropriativi sono nel caso in esame, contrariamente agli assunti fatti valere con l’atto
d’appello, di portata certamente eccedente l’ambito dell’inoffensività e tali da non poter essere
obliterati.

corretta loro qualificazione giuridica, sul piano fattuale: diverse naturalisticamente e separate
sono difatti le condotte di appropriazione dei mezzi di trasporto, di appropriazione del
carburante, di impiego del personale che deve condurlo. La loro connessione dipende nelle
fattispecie concrete da necessità occasionali o contingenti e comunque di puro fatto; non già
dalla configurazione delle fattispecie astratte ne’ dalla esistenza di un rapporto tipico da mezzo
a fine, assolutamente o relativamente necessario, tra le condotte e dipendente dalla loro
fisionomia strutturale. Sicché non è possibile parlare di progressione criminosa necessaria o di
antefatto o post-fatto non punibile, ne’, tantomeno, come sostiene il ricorrente, di
assorbimento o di consunzione dell’un comportamento illecito nell’altro (Sez. 1, n. 603
dell’11.5.2011, Speciale e altro; Sez. 6, n. 18465 del 17.2.2015, De Paola).
Non è da dubitare che, stando alla stessa imputazione e a quanto ritenuto assodato dai
giudici di merito, l’automezzo di servizio indicato al capo A) subito dopo l’uso di esso
sistematicamente fatto dal Fumagalli a proprio servizio privato nell’arco di circa un anno e nove
mesi, sia stato “restituito” all’amministrazione, per il reimpiego ai fini istituzionali cui era
destinato. L’appropriazione del mezzo di trasporto, seppur ripetuta e “sistematica”, e’ predicata
nella stessa contestazione come temporalmente delimitata. Può perciò considerarsi destinata
ad un uso “momentaneo”, secondo il significato assegnato dalla giurisprudenza al termine
adoperato dal legislatore nel secondo comma dell’art. 314 cod. pen..
Consolidato è difatti l’orientamento secondo il quale l’aggettivo “momentaneo” che distingue
l’uso della cosa oggetto d’appropriazione nella fattispecie del peculato d’uso, non sta a
significare istantaneo, bensì temporaneo. Perché possa configurarsi la minore ipotesi del
peculato d’uso occorre, ed è sufficiente, che, appropriandosi il bene – comportandosi cioè come
se ne fosse proprietario e contemporaneamente escludendo così la signoria del vero
proprietario – l’agente intendesse farne, e ne abbia fatto, uso uti dominus per un tempo
limitato, subito dopo restituendola (tra molte: Sez. 6, sent. 10/03/1997, Federighi; Sez. 6,
sent. n. 9216 del 01/02/2005, Triolo; Sez. 6, sent. n. 25541 del 21/05/2009, Cenname; Sez.
6, n. 39770 del 27.5.2014, Giordano, in un caso di uso ripetuto dell’auto di servizio per brevi
tragitti).
Insomma, ove la condotta appropriativa, idonea a compromettere, anche se in misura più
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Il Collegio ritiene che l’autonomia dei fatti-reato emerga, prima ancora che ai fini della

contenuta, la funzionalità della pubblica amministrazione, non sia tale da comportare ne’ la
definitiva apprensione del bene, ne’ la definitiva sottrazione dello stesso alla sua destinazione
istituzionale, il fatto è da qualificare ai sensi del capoverso dell’art. 314 cod. pen..
Inoltre, la categoria della “appropriazione” – cui esclusivamente si riferisce la fattispecie di
cui all’art. 314 comma 1 c.p. – non può attagliarsi all’utilizzazione a fini privati del pubblico
ufficiale delle attività lavorative dei dipendenti dell’amministrazione a lui gerarchicamente
sottoposti. Secondo principi condivisi, la condotta d’appropriazione si realizza quando colui che
ha il possesso o detiene il bene esercita su di esso un potere di fatto incompatibile ed

proprietario. Codesta assunzione unilaterale di una signoria di fatto, nella quale consiste la
interversione del possesso, è integrata dunque da due aspetti: l’uno positivo, l’altro negativo.
Il primo, l’appropriazione, si concreta nella creazione di un rapporto di fatto con la cosa e
comporta un trasferimento di elementi patrimoniali ed una locupletazione dell’agente a
detrimento del soggetto passivo; il secondo consiste nella “espropriazione”, vale a dire
nell’esclusione del vero proprietario dal rapporto con la cosa (Sez. 6, sent. n. 10543 del
07/06/2000, Baldassarre). Sicché, come questa Corte ha più volte riconosciuto, “non è …
ipotizzatile l’appropriazione di energia umana, essendo incontestabile che questa e, quindi,
l’uomo che la produce, non è una “cosa mobile” e non se ne può perciò immaginare il possesso
o la disponibilità da parte dell’agente” (cfr. tra molte, Sez. 6, n. 35150 del 09/06/2010,
Fantino). Inoltre, quale che sia il potere gerarchico esercitato sul lavoratore per costringerlo ad
asservirsi al volere del superiore anziché ad agire nell’interesse dell’amministrazione, deve
quantomeno escludersi che possa di norma in relazione ad esso determinarsi quell’effetto
“espropriativo” che parimenti è richiesto per la realizzazione dell’appropriazione (Sez. 1, n. 603
dell’11.5.2011, Speciale e altro; Sez. 6, n. 18465 del 17.2.2015, De Paola).
Mediante l’utilizzo a proprio vantaggio delle prestazioni lavorative di dipendenti
dell’amministrazione a lui subordinati, il pubblico ufficiale realizza invece senz’altro una
destinazione indebita di risorse pubbliche al di fuori dei fini istituzionali dell’ente. Questa è
un’ipotesi di “distrazione” che, pur dopo l’abolizione della figura del peculato per distrazione,
non è in radice decriminalizzata, perché laddove comporta un’illecita utilizzazione dei poteri di
ufficio (e quindi un abuso) e procura all’agente o a terzi un vantaggio patrimoniale (o un
danno) qualificabile come ingiusto, è idonea ad integrare il delitto configurato dall’art. 323 c. p.
(Sez. 1, n. 603 dell’11.5.2011, Speciale e altro; Sez. 6, n. 18465 del 17.2.2015, De Paola; si
vedano altresì le considerazioni sviluppate in C. Cost. n. 448 del 1991).
Non è possibile invece dare qualificazione diversa da quella ex art. 314 comma 1 c.p. al
consumo, durante l’abusiva utilizzazione del mezzo di servizio, del carburante erogato
dall’amministrazione. Va ribadito al riguardo che il danno patrimoniale arrecato
all’Amministrazione, derivante da codesto consumo, è stato oggetto di specifica contestazione
ed è stato plausibilmente – attesi i dati di fatto posti a base di tale valutazione – considerato
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eccedente il suo titolo, comportandosi come se ne fosse proprietario ed escludendo il vero

cospicuo e penalmente rilevante, oltre la soglia dell’inoffensività, nelle sentenze di merito (Sez.
6, n. 5006 del 12.1.2102, Rv. 251785).
L’autonoma rilevanza di codeste appropriazioni e la circostanza, pacifica, che il carburante è
stato “consumato”, impediscono dunque di ritenere le condotte che si riferiscono alla sua
utilizzazione assorbite nel peculato d’uso, o altrimenti qualificabili a diverso titolo.
Tutto quanto precede evidenzia un diverso profilo di inammissibilità dei motivi di ricorso in
esame. L’impossibilita’ di configurare, come implicitamente sostiene il ricorrente,
l’assorbimento o la consunzione dell’appropriazione – rilevante e ad effetto irreversibile – del

ripetuto) a fini personali dell’autovettura di servizio e/o nella distrazione dell’energia umana
dispiegata da dipendenti dell’amministrazione gerarchicamente subordinati all’agente, impone
infatti inevitabilmente di considerare partitamente anche tali diverse condotte. Con altrettanto
inevitabile moltiplicazione delle imputazioni e, attesa la maggiore gravità delle condotte
comunque integranti i reati di peculato di cui all’art. 314 comma 1 c.p., con sicuro risultato di
sfavore per l’imputato. Egli e’ stato infatti condannato per il delitto di peculato a lui contestato
al capo A) al minimo della pena edittale prevista al momento dei fatti e senza alcun aumento
per la continuazione interna con i reati in relazione ai quali si configurerebbe un concorso
materiale; l’aumento di pena ex art. 81 comma 2 c.p. essendo stato applicato unicamente in
relazione ai meno gravi reati contestati ai capi C) e D). La diversa qualificazione giuridica
invocata dal ricorrente comporterebbe dunque per lui un risultato sanzionatorio deteriore,
sicché egli difetta al riguardo di concreto interesse.
Privo di pregio è altresì il motivo col quale il ricorrente lamenta una pretesa divergenza tra
l’accusa veicolata col primo capo di imputazione e il fatto ritenuto nella sentenza impugnata.
Come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, le decisioni di merito hanno ad
oggetto gli stessi elementi di fatto chiaramente descritti nel capo di imputazione, valutati con
riferimento alla fattispecie astratta di peculato originariamente contestata e ritenuta integrata
dalla sentenza di condanna, sicché al ricorrente è stato consentito il pieno dispiegarsi del diritto
di difesa, del resto puntualmente esercitato su tutte le rilevanti questioni di fatto e di diritto.

2. Fondati sono invece i motivi di ricorso attinenti i contestati reati di induzione indebita,
coi quali si lamentano vizi di motivazione attinenti alla non definita collocazione temporale della
telefonata con la quale il ricorrente avrebbe indotto la persona offesa alla promessa di
procedere alle assunzioni di cui al capo C e alla concessione dell’uso dell’appartamento di cui al
capo D. A tale riguardo la motivazione della sentenza impugnata appare contraddittoria e
fondata su una ricostruzione dei fatti puramente congetturale, laddove, pur in presenza di un
poco preciso ricordo della persona offesa, valorizza il legame da quest’ultima stabilito tra il
messaggio concernente il rinnovo dell’appalto e le richieste del sindaco concernenti le sue
ospiti per addivenire, con giudizio meramente ipotetico e probabilistico, alla ricostruzione del
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carburante (e delle altre voci di costo di analoga natura) nell’uso momentaneo (seppure

fatto (la telefonata del ricorrente interviene dopo che le sue amiche avevano occupato
l’appartamento della cooperativa, ma prima che esse venissero infine mandate via per
necessità della persona offesa) sulla quale si basa la condanna per entrambe le condotte di cui
ai capi C) e D) della rubrica. In realtà, una volta individuata la condotta induttiva (descritta in
modo ellittico nelle imputazioni) nella telefonata riferita dalla persona offesa, la sentenza
impugnata offre una ricostruzione degli avvenimenti congetturale, perché sfornita di concreto
collegamento con le risultanze probatorie evidenziate nello stesso provvedimento (la
testimonianza della persona offesa) sul punto – decisivo per la dimostrazione della concreta

rispetto all’indebita promessa di procedere alle assunzioni di cui al capo C e alla concessione
dell’uso dell’appartamento di cui al capo D. La sentenza impugnata omette inoltre ogni
giustificazione circa l’efficacia costrittiva della telefonata rispetto alla promessa della Lena
(precedente quella conversazione telefonica) di assumere le amiche del ricorrente ed appare
contraddittoria ed illogica laddove non considera che l’appartamento concesso in uso sarà
reclamato con successo in restituzione dalla stessa persona offesa solo pochi giorni dopo la
pretesa, allusiva costrizione telefonica. L’accoglimento di queste doglianze determina
l’assorbimento degli altri motivi di ricorso relativi ai reati di cui ai capi C e D.

3. In definitiva si impone, per quanto precede, l’annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata limitatamente ai reati di cui all’art. 319-quater cod. pen. contestati ai capi C) e D)
dell’imputazione, perché i fatti non sussistono. Per l’effetto, deve essere eliminata la relativa
pena di dieci mesi di reclusione, rimanendo così determinata la pena per il residuo reato di
peculato, come stabilito dalla sentenza impugnata, in tre anni di reclusione, minimo edittale
vigente al momento della commissione dei fatti.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui all’art. 319-quater cod.
pen. contestati ai capi C) e D) dell’imputazione, perché i fatti non sussistono e, per l’effetto,
elimina la relativa pena di dieci mesi di reclusione, così determinando la pena per il residuo
reato di peculato in tre anni di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso il 14 maggio 2015.

efficacia costrittiva della condotta – della collocazione temporale della medesima condotta

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