Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35667 del 07/04/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35667 Anno 2014
Presidente: OLDI PAOLO
Relatore: PEZZULLO ROSA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DI CARLO WALTER N. IL 26/10/1963
avverso la sentenza n. 1855/2011 CORTE APPELLO di L’AQUILA,
del 14/01/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
e • per
che

Udit i difenso

Data Udienza: 07/04/2014

udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Pietro Gaeta, che
ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza del 14.1.2013 la Corte d’Appello di L’Aquila,

confermava la sentenza del locale Tribunale con la quale Di Carlo
Walter era stato condannato alla pena di anni tre di reclusione, oltre
alle sanzioni accessorie, per il reato di bancarotta fraudolenta di cui
all’art. 216 R.D. n. 267/42 , perché, nella sua qualità di amministratore

commercializzazione di veicoli, dichiarata fallita con sentenza del
18.1.2007), ometteva la tenuta delle scritture contabili per gli esercizi
2005 – 2006 e parte del 2007, in guisa da non rendere possibile la
ricostruzione del patrimonio e dei movimenti della società, impedendo
di fatto al curatore la compilazione dell’elenco dei creditori e titolari dei
diritti immobiliari (ai sensi dell’art. 89 L. Fall.) e la ricostruzione dei
bilanci mancanti, nonché per aver sottratto alle garanzie creditorie
beni acquisiti nell’anno 2002 e risultanti nell’ultimo inventario 2004 dal
libro mastro e registro beni ammortizzabili, ma non rinvenuti dal
curatore e sforniti di prova contabile relativa alla loro eventuale
alienazione e segnatamente attrezzature varie per euro 14.202.,56;
macchine d’ufficio elettromeccaniche per euro 7.230,40; mobili per
ufficio per euro 17.103,00; rimanenze finali di merci per euro
250.347,00.
2. Avverso tale sentenza il Di Carlo, con il ministero del suo difensore
ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a due motivi, lamentando:
-con il primo motivo la mancanza, contraddittorietà o manifesta
illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, primo comma, lett. e)
c.p.p., atteso che la Corte d’Appello di L’Aquila non ha tenuto in alcun
conto il fatto che, nel periodo in cui l’imputato è stato amministratore
della società fallita CAR FIVE (dal mese di settembre 2005,
all’intervenuta dichiarazione di fallimento del gennaio 2007), non è
stata compiuta alcuna operazione di natura contabile, essendo la stessa
inattiva, tanto è vero che non fu emessa alcuna fattura, né fu effettuata
nessun’altra operazione e, pertanto, andava riconosciuta l’ipotesi meno
grave di bancarotta semplice di cui all’art. 217 L.Fall.; inoltre, difetta il
requisito di corrispondenza tra il capo di accusa e la sentenza, atteso
che mentre nel capo di imputazione viene contestata la distrazione di
autovetture, in sentenza viene censurata la distrazione dei relativi
corrispettivi; in particolare, nel corso del giudizio di primo grado, il

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unico della CAR FIVE s.r.l. (società unipersonale avente ad oggetto la

ricorrente è riuscito a dimostrare che, contrariamente a quanto
sostenuto dall’accusa, le autovetture non erano state da lui sottratte,
ma regolarmente cedute a terzi, in epoca antecedente al momento in
cui l’imputato divenne amministratore della società, poi dichiarata
fallita, ma il giudice di primo grado, pur prendendo atto dell’avvenuta
vendita, ha evidenziato che ugualmente sussisterebbe il reato ascritto,
in relazione al controvalore di tali autovetture, incorrendo nella
violazione dell’art. 521 c.p.p., per il difetto di corrispondenza tra il capo

-con il secondo motivo, l’erronea applicazione della legge penale o di
altre norme, di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge
penale, ai sensi dell’art. art. 606, primo comma, lett. b) c.p.p., atteso
che la Corte d’Appello di L’Aquila, confermando la sentenza del giudice
di prime cure, ha erroneamente condannato l’odierno ricorrente per il
reato di cui agli artt. 216 R.D. 267/42 (bancarotta fraudolenta), anziché
per l’ipotesi di cui all’art. 217 R.D. 267/42 (bancarotta semplice) e, pur
avendo il CTU rilevato l’omessa tenuta delle scritture contabili, è vero
anche che tale condotta è riferibile appunto all’ipotesi meno grave
prevista dall’art. 217 R.D. 267/42.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1. La preliminare deduzione del primo motivo di ricorso, secondo la
quale la società fallita, nel periodo in cui l’imputato è stato
amministratore- dal settembre 2005 al fallimento- non avrebbe svolto
operazioni di natura contabile, sicchè non può essere ascritta al
ricorrente l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 216 L. Fall., bensì quella di
cui all’art. 217 L.Fall., si presenta generica, oltre che manifestamente
infondata.
Ed invero, premesso che i “dati dell’istruttoria” dai quali emergerebbe
che la società, poi fallita, nel periodo in questione non ha svolto attività
non sono indicati ed allegati e che in ogni caso anche nell’ipotesi di
inattività dell’impresa, l’imprenditore non è esonerato dall’obbligo di
tenere libri e scritture contabili fino all’eventuale dichiarazione di
fallimento, venendo meno l’obbligo, penalmente sanzionato, solo
quando la cessazione della attività commerciale sia formalizzata con la
cancellazione dal registro delle imprese (Sez. V, n. 44454 del
18/05/2012), sì configura nella fattispecie in esame, comunque, il
delitto di cui all’art. 216 L. Fall..
Le sentenze di merito, infatti, con motivazioni immuni da vizi logici,

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di accusa e la sentenza;

hanno messo in risalto come la mancata tenuta delle scritture contabili
è stata finalizzata a rendere impossibile la ricostruzione del movimento
degli affari sociali e, quindi, a permettere la distrazione ad opera
dell’imputato dei beni descritti nel capo di imputazione, sicchè risulta
evidente che, ricostruito in siffatti termini l’elemento psicologico, non
possa configurarsi, anche per quanto si dirà innanzi il reato di cui all’ad.
217 L.Fall..
Va, poi, evidenziato che anche per quanto concerne la questione

prezzo di esse, la sentenza impugnata con argomentazioni corrette
immuni da vizi logici ha messo in risalto come il primo giudice non sia
incorso nella violazione di cui all’ad. 521/2 c.p.p.. Ed invero, per aversi
mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi
elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume
l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri
un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad
accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel
pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e
sentenza perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter
del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di
difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. IV, 24/09/2013,
n. 43991). L’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza è violato
non da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto
nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità
di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di “fatto” va coniugata con
quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive
lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria
correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico
ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice)
risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un
fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia
potuto difendersi. (Sez. I, 18/06/2013, n. 35574).
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violazione del diritto di difesa si
Nel caso di specie, invero, 11i1ii
configura nell’avere il giudice di primo grado, a fronte delle visure PRA
prodotte dall’imputato, attestanti la cessione a terzi delle auto non
rinvenute, preso atto del fatto che non essendo state indicate in
contabilità tali auto e non essendovi, comunque, traccia del prezzo di

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relativa alla distrazione delle auto, ovvero del denaro costituente il

esse, risulterebbe confermato il fatto che l’imputato si sia appropriato
delle predette auto, o quanto meno abbia distratto il controvalore di tali
autovetture. La condotta distrattiva, infatti, sia che venga riferita alle
autovetture, sia che venga riferita al prezzo di esse non altera il dato
essenziale dell’accusa, né configura un fatto diverso.
2.

Manifestamente infondato, oltre che generico, si presenta il

secondo motivo di ricorso, con il quale l’imputato si duole della
mancata configurazione, nel caso di specie, del delitto di cui all’art. 217

sentenze di merito, come accennato, hanno correttamente motivato,
senza incorrere nel vizio di violazione di legge, che nella fattispecie in
esame, stante le distrazioni di beni ascritte all’imputato, l’omessa
tenuta delle scritture contabili aveva evidentemente lo scopo di rendere
impossibile la ricostruzione della contabilità, com’è in concreto
avvenuto.

La differenza tra la bancarotta fraudolenta documentale,

prevista dall’art. 216, comma 1 n. 2, I. fall., e quella semplice, prevista
dall’art. 217, comma 2, della stessa legge, consiste appunto
nell’elemento psicologico che, nel primo caso, viene individuato nel dolo
generico, costituito dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle
scritture con la consapevolezza che ciò renderà o potrà rendere
impossibile

la

ricostruzione

delle

vicende

del

patrimonio

dell’imprenditore e, nel secondo caso, dal dolo o indifferentemente dalla
colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta, rispettivamente,
con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture
(Sez. V, 23/05/2012, n. 30337).
3. Il ricorso, pertanto, per le ragioni dette va dichiarato inammissibile Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di
causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente, al
versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si
ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00
p.q.m.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in
favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 7.4.2014

L.Fall., invece che di quello di cui all’art. 216 L.Fall. Sul punto le

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