Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35659 del 16/05/2014

Penale Sent. Sez. 2 Num. 35659 Anno 2014
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: BELTRANI SERGIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
P.P. N. IL 29/04/1979
avverso la sentenza n. 1004/2012 CORTE APPELLO di BARI, del
28/09/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/05/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. SERGIO BELTRANI

Data Udienza: 16/05/2014

RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Bari ha
confermato la sentenza emessa in data 20 giugno 2011 dal Tribunale di
Foggia – sez. S. Severo, che aveva dichiarato l’imputato colpevole dei delitti di
cui agli artt. 629 e 611 c.p. (fatti commessi in S. Severo tra il 3 ed il 5
maggio 2005), unificati dal vincolo della continuazione, condannandolo, con le
attenuanti generiche, alla pena ritenuta di giustizia.

nell’apposito albo speciale) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i
seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la
motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:
I – violazione degli artt. 191 – 511, comma 4 – 514 c.p.p. (con
riferimento all’acquisizione delle denunzie-querele presentate da E.P.
TERLIZZI PATRIZIA, non escussa in dibattimento);
Il – violazione degli artt. 512 c.p.p. e 111 della Costituzione (con
riferimento all’acquisizione delle s.i.t. della predetta, che non poteva ritenersi
irreperibile, in difetto di congrue ricerche);
III – violazione degli artt. 191 e 500, comma 4, c.p.p. (con riferimento
all’acquisizione delle dichiarazioni extradibattimentali di N.
M., non minacciato né intimidito da chicchessia; la Corte di appello
non avrebbe, inoltre, tenuto conto del fatto che il teste aveva negato
decisamente di essere stato minacciato da R.R.);
IV – violazione dell’art. 500, comma 2, c.p.p. (con riferimento alle
deposizioni di N.M. e N.P., che in dibattimento
hanno integralmente ritrattato le accuse in precedenza mosse nei confronti
dell’imputato: le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni possono essere
valorizzate unicamente per minare l’attendibilità della ritrattazione, non certo
come prova della responsabilità penale dell’imputato);
V – mancata assunzione di una prova decisiva (in riferimento al rigetto
della richiesta di rinnovazione del dibattimento di appello ex art. 603 c.p.p.
quanto alla mancata escussione dei testi RUSSI, R.R. P.e ROTONDO);
VI – violazione dell’art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione in ordine alle
ragioni nel complesso poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità;

Contro tale provvedimento, l’imputato (con l’ausilio di un avvocato iscritto

VII – violazione di legge in ordine alla qualificazione giuridica del reato di
cui al capo A), asseritamente integrante quelli di cui agli artt. 392 e 393 c.p.
All’odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di
rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe, e questa
Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo
in atti, pubblicato mediante lettura in pubblica udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è integralmente inammissibile, per genericità e manifesta
infondatezza dei motivi.

1. Deve premettersi che, secondo consolidato e condivisibile orientamento
di questa Corte Suprema (per tutte, Sez. IV, sentenza n. 15497 del 22 febbraio
– 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. VI, sentenza n. 34521 del 27
giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), è inammissibile per difetto di
specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come
motivi di appello (al più con l’aggiunta di frasi incidentali contenenti
contestazioni, meramente assertive ed apodittiche, della correttezza della
sentenza impugnata) senza prendere in considerazione, per confutarle, le
argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
Si è, infatti, esattamente osservato (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21
gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n. 254584) che «La funzione tipica
dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento
cui si riferisce. Tale critica argomentata si realizza attraverso la presentazione di
motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), debbono indicare
specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni
richiesta. Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è, pertanto,
innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioè con specifica
indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il
dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si
contesta).
Il motivo di ricorso in cassazione è caratterizzato da una “duplice
specificità”: «Deve essere sì anch’esso conforme all’art. 581 c.p.p., lett. C (e
quindi contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che

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sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione); ma quando
“attacca” le ragioni che sorreggono la decisione deve, altresì,
contemporaneamente enudeare in modo specifico il vizio denunciato, in modo
che sia chiaramente sussumibile fra i tre, soli, previsti dall’art. 606

2

,

comma 1, lett. e), deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della
sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per
giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente»
(Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio 2013, CED Cass. n.
254584).
Risulta, pertanto, evidente che,

«se il motivo di ricorso si limita a

riprodurre il motivo d’appello, per ciò solo si destina all’inammissibilità, venendo
meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica

provvedimento ora formalmente ‘attaccato’, lungi dall’essere destinatario di
specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato. Nè tale forma di
redazione del motivo di ricorso (la riproduzione grafica del motivo d’appello)
potrebbe essere invocata come implicita denuncia del vizio di omessa
motivazione da parte del giudice d’appello in ordine a quanto devolutogli
nell’atto di impugnazione. Infatti, quand’anche effettivamente il giudice
d’appello abbia omesso una risposta, comunque la mera riproduzione grafica del
motivo d’appello condanna il motivo di ricorso all’inammissibilità. E ciò per
almeno due ragioni. È censura di merito. Ma soprattutto (il che vale anche per
l’ipotesi delle censure in diritto contenute nei motivi d’appello) non è mediata
dalla necessaria specifica e argomentata denuncia del vizio di omessa
motivazione (e tanto più nel caso della motivazione cosiddetta apparente che, a
differenza della mancanza “grafica”, pretende la dimostrazione della sua mera
“apparenza” rispetto ai temi tempestivamente e specificamente dedotti);
denuncia che, come detto, è pure onerata dell’obbligo di argomentare la
decisività del vizio, tale da imporre diversa conclusione del caso».
Può, pertanto, concludersi che «la riproduzione, totale o parziale, del
motivo d’appello ben può essere presente nel motivo di ricorso (ed in alcune
circostanze costituisce incombente essenziale dell’adempimento dell’onere di
autosufficienza del ricorso), ma solo quando ciò serva a “documentare” il vizio
enunciato e dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, che,
ancora indefettibilmente, si riferisce al provvedimento impugnato con il ricorso e
con la sua integrale motivazione si confronta. A ben vedere, si tratta dei principi
consolidati in materia di “motivazione per relazione” nei provvedimenti
giurisdizionali e che, con la mera sostituzione dei parametri della prima
sentenza con i motivi d’appello e della seconda sentenza con i motivi di ricorso
per cassazione, trovano piena applicazione anche in ordine agli atti di
impugnazione» (Sez. VI, sentenza n. 8700 del 21 gennaio – 21 febbraio
2013, CED Cass. n. 254584).

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argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il

1.1.

Ciò premesso, il primo motivo è generico perché più o meno

pedissequamente reiterativo di analogo motivo compiutamente esaminato dalla
Corte di appello (f. 4 ss.), con argomentazioni giuridicamente corrette, con le
quali il ricorrente in concreto non si confronta, limitandosi a reiterare la
doglianza.
Il motivo è generico anche perché il ricorrente non ha indicato i segmenti
delle dichiarazioni che asserisce non acquisibili, in ipotesi risultati decisivi ai fini
dell’affermazione di responsabilità.

1.1.
E’, inoltre, generico poiché lo stesso ricorrente non indica i diversi luoghi,
desumibili ex actis, dove sarebbe in ipotesi stato possibile effettuare le ricerche
asseritamente inadeguate.

1.3. Il terzo motivo è generico perché più o meno pedissequamente
reiterativo di analogo motivo compiutamente esaminato dalla Corte di appello
(f. 7 ss.), con argomentazioni giuridicamente corrette, con le quali il ricorrente
in concreto non si confronta, limitandosi a reiterare la doglianza.

1.4. Il quarto motivo è generico per le medesime ragioni indicate nel § 1.3.
Il ricorrente insiste ad invocare la disciplina di cui all’art. 500, comma 2,
c.p.p., ma la contestata acquisizione è avvenuta ai sensi del successivo comma
4, in presenza di pressioni indebite sul dichiarante, la cui esistenza è stata
motivatamente ed incensurabilmente ritenuta dalla Corte di appello.

1.4.1.

Con riguardo a questo primo fascio di doglianze può

complessivamente rilevarsi che la Corte di appello, con ampie e precise
argomentazioni, senz’altro incensurabili in questa sede sotto ogni profilo, ha
evidenziato che nessun concreto elemento dimostrava che la futura irreperibilità
della teste E.P. fosse ex ante prevedibile (non ne
indica neppure il ricorrente), e che ricorrevano i presupposti di cui all’art. 500,
comma 4, c.p.p. per l’utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali di
N.M. (le sole sulla cui utilizzabilità si controverteva: cfr. f.
7 ss.), essendo stato motivatamente accertato che il teste era stato intimidito
nell’interesse dell’imputato affinché non ribadisse in dibattimento le
dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari: in tali casi, il vulnus al
principio del contraddittorio, insistentemente invocato dal ricorrente, è, a ben
vedere, attribuibile a fatti che si assume riconducibili allo stesso imputato.

4

1.2. Il secondo motivo è generico per le medesime ragioni indicate nel §

D’altro canto, nel pieno rispetto dei principi affermati dalla Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo, pure insistentemente richiamati, alla condanna
dell’imputato non si è giunti soltanto sulla base di dichiarazioni
predibattimentali, ma anche utilizzando dichiarazioni acquisite in dibattimento
(f. 9 ss.).

1.5. Il quinto motivo è generico perché più o meno pedissequamente
reiterativo di analogo motivo compiutamente esaminato dalla Corte di appello

concreto non si confronta, limitandosi a reiterare la doglianza.

1.5.1. Il motivo è, comunque, manifestamente infondato, poiché il vizio
evocato di mancata assunzione di una prova decisiva può essere dedotto solo in
relazione a specifici mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma
dell’art. 495, comma 2, c.p.p., ed assume, peraltro, rilievo solo quando la
presunta prova decisiva, confrontata con le argomentazioni addotte in
motivazione a sostegno della decisione, risulti determinante per un esito
diverso del processo e non si limiti ad incidere su aspetti secondari della
motivazione.
Nel caso di specie, al contrario, le richieste non accolte erano state
formulate unicamente

ex art. 507 c.p.p., ed erano state motivatamente

rigettate, perché le indicate testimonianze non risultavano assolutamente
necessarie ai fini della decisione.

1.6. Il sesto motivo è generico perché più o meno pedissequamente
reiterativo delle doglianze inerenti, nel merito, all’affermazione di
responsabilità, già esaminate dalla Corte di appello (f. 8 ss.), con
argomentazioni giuridicamente corrette, con le quali il ricorrente in concreto
non si confronta, limitandosi a reiterare la doglianza.
Il motivo è, comunque, assolutamente privo di specificità in tutte le sue
articolazioni, del tutto assertivo e, comunque, manifestamente infondato, a
fronte dei rilievi con i quali la Corte di appello ha motivato l’affermazione di
responsabilità, valorizzando essenzialmente le acquisite dichiarazioni
testimoniali, motivatamente ritenute attendibili.
Con tali argomentazioni (esaurienti, logiche, non contraddittorie, e pertanto
non sindacabili in sede di legittimità) il ricorrente in concreto non si confronta
adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa “lettura” delle risultanze
probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, e senza
documentare nei modi di rito eventuali travisamenti.

5

(f. 11), con argomentazioni giuridicamente corrette, con le quali il ricorrente in

1.6.1. E’ comunque non consentito il motivo in cui si deduca la violazione
dell’art. 192 c.p.p., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett.
e), c.p.p., per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di
prova acquisito o acquisibile, in una prospettiva atomistica ed
indipendentemente da un raffronto con il complessivo quadro istruttorio, in
quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati
specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., non possono essere
superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., nella

stabilite a pena di nullità (Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 45249 dell’8
novembre 2012, CED Cass. n. 254274).

1.7. Il settimo motivo è generico perché più o meno pedissequamente
reiterativo delle doglianze inerenti alla qualificazione giuridica dei fatti accertati,
già esaminate dalla Corte di appello (f. 12 s.), con argomentazioni
giuridicamente corrette, con le quali il ricorrente in concreto non si confronta,
limitandosi a reiterare la doglianza.
La Corte di appello ha correttamente valorizzato, in proposito, una pluralità
di elementi (f. 12 s.), ed in particolare il fatto che la pretesa esercitata
dall’imputato ha riguardato anche beni non appartenenti al debitore, ed era
quindi all’evidenza giuridicamente non azionabile, a riprova dell’esistenza del
ritenuto dolo di estorsione.

2. Non può porsi in questa sede la questione della declaratoria della
prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza d’appello, in
considerazione della totale inammissibilità del ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte chiarito che
l’inammissibilità del ricorso per cassaPone <> (Cass. pen.,
Sez. un., sentenza n. 32 del 22 novembre 2000, CED Cass. n. 217266: nella
specie, l’inammissibilità del ricorso era dovuta alla manifesta infondatezza dei
motivi, e la pre4orittorie, del reato era maturata successivamente alla data della
sentenza impugnata con il rocorso; conformi, Sez. un., sentenza n. 23428 del 2
marzo 2005, CED Cass. n. 231164, e Sez. un., sentenza n. 19601 del 28
febbraio 2008, CED Cass. n. 239400).

6

parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali

3. La declaratoria di inammissibilità totale del ricorso comporta, ai sensi
dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché – apparendo evidente dal contenuto dei motivi che egli ha
proposto il ricorso determinando le cause di inammissibilità per colpa (Corte
cost., sentenza 13 giugno 2000, n. 186) e tenuto conto dell’entità di detta colpa
– della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende a titolo di
sanzione pecuniaria.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, udienza pubblica 16 maggio 2014

Il Consiglie e estensore

Il Presidente

P.Q.M.

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