Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35512 del 21/05/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 35512 Anno 2013
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: CARCANO DOMENICO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
RAIMONDO RAFFAELE N. IL 14/08/1966
avverso la sentenza n. 11646/2011 CORTE APPELLO di NAPOLI, del
20/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/05/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. DOMENICO CARCANO
Udito il Procuratore Generale in persona, del ott.
che ha concluso per
LusauAvt

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

Data Udienza: 21/05/2013

1

Ritenuto in fatto
1.Raffaele Raimondo impugna la sentenza della Corte d’appello di Napoli,
che quale giudice di rinvio – disposto per la verifica della sussistenza della “prova
di resistenza” a seguito della declaratoria di inutilizzabilità delle conversazioni
intercettate – ha confermato la sentenza del giudice di primo grado
limitatamente al delitto di peculato, commesso dal settembre 1998 all’aprile

avendo la disponibilità, per ragioni del proprio servizio 1 ~peMbiii4 di pacchi
contro assegni, si appropriava dei relativi bollettini di spedizione e dei rispettivi
importi, spettanti ai legittimi creditori, per una somma complessiva di £
3.545.700.
Ad avviso del giudice d’appello, la prova di tali reati è nella relazione
ispettiva redatta dal dr. Giannelli nel maggio 2000, nella quale sono specificate
con chiarezza le modalità di appropriazione degli assegni e la segnalazione del
direttore dell’ufficio relativa alle ripetute richieste di consegna dei circa
quarantacinque plichi non ricevuti dai destinatari e egli incassi delle somme; in
tale relazione il direttore sottolineava che, dopo molteplici inviti e ripetuti
avvertimenti di provvedimenti disciplinari, il portalettere Raimondo ammetteva di
essersi appropriato delle somme e restituiva in data 5 maggio 2000 le somme
indebitamente trattenute.
A differenza di quantQ. sostenuto dalla difesa, il giudice d’appello ha
e U4441 C42O
ribadito la qualità idi pubblico servizio rivestita dal portalettere anche dopo la
trasformazione dell’ente poste in società per azioni, come più volte confermato
dalla giurisprudenza di legittimità.
Ritenuto legittimo l’utilizzo della relazione ispettiva acquisita nel corso
delle indagini, in ragione del rito abbreviato richiesto dall’imputato, il giudice
d’appello, richiamati i parametri stabiliti dall’art.133 c.p., rideterminava la pena,
con la riduzione delle attenuanti generiche, ad anni due di reclusione, applicando
per pari durata l’interdizione dai pubblici uffici.
2.La difesa del ricorrente deduce:
– violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 314 c.p.,
poiché non ricorre la qualità di incaricato di pubblico servizio, anche se la
giurisprudenza di legittimità abbia più volte affermato che il portalettere rivesta
tale qualità. Per il ricorrente, l’art. 358 c.p.rp ridotto l’ambito di operatività dello
statuto speciale della pubblica amministrazione, distinguendo le mansioni
P

d’ordine da quelle materiali non correttamente considerata dalla giurisprudenza.
Indipendentemente da tali rilievi, la difesa pone in risalto che
l’appropriazione, nel caso di specie, ha a oggetto danaro di privati sebbene

1999, perché, quale portalettere in servizio all’ufficio postale di Cancello Arnnone,

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nell’esercizio di una attività delegata.
Per la difesa, oggetto di appropriazione sarebbero stati i soli pagamenti in
contrassegno che dovevano essere contestualmente girati ai creditori.
Manca in tal caso il dolo, al pari della condotta materiale di peculato non
avendo l’imputato riscosso i bollettini di versamento contestualmente alla
consegna dei plichi.
Potrebbe, pertanto, configurarsi il peculato d’uso, poiché le somme

Su tale circostanza, specificamente dedotta, la sentenza impugnata non
fornisce alcuna spiegazione.
-violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione al diniego
dell’attenuante dell’art.323 bis c.p. poiché il fatto e da ritenere di lieve entità,
trattandosi di somm74
f e it? oco più dii3.500.000, pari oggi a circa 1.700. In
relazione a tale(i a sentenza non si esprime nella parte relativa alla
determinazione della pena.
-violazione degli artt.314, 157 c.p., poiché i fatti risalgono al 1999 e, là
dove penalmente rilevanti, sarebbero comunque prescritti, tenuto anche conto
che si tratta di peculato d’uso.
Considerato in diritto
1.11 ricorso è inammissibile per manifestamente infondatezza e per
genericità perché diretto a riproporre le medesime questioni già correttamente
valutate dalla Corte d’appello relative alla sussistenza dei fatti e alla loro
qualificazione giuridica, già oggetto di corrette ed esaurienti risposte da parte del
giudice d’appello.
Elemento imprescindibile è l’esercizio, anche di fatto, di una pubblica
funzione o di un pubblico servizio, poiché tale oggettiva situazione vale a
riconoscere, in ogni caso, la relativa qualifica al soggetto agente nell’ambito delle
figure funzionali previste dagli artt.357 o 358 c.p..
Il principio di diritto in questione va ricondotto al consolidato indirizzo
espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui la qualifica di pubblico
ufficiale – ai sensi dell’art. 357 c. p., come novellato dalle leggi n. 86 del 1990
e n. 181 del 1992 deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici
dipendenti o “semplici privati”, quale che sia la loro posizione soggettiva,
possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico,
esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi,
deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati
(Sez. un., 27 marzo 1992, Delogu, rv.191171).
Principio che non può che essere riferito anche all’incaricato di pubblico
servizio, come più volte ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità e affermato in

trattenute da Raimondo sono state poi consegnate ai destinatari.

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relazione ai dipendenti di enti trasformati in società commerciali. A tale principio
di diritti) si è correttamente attenuta la sentenza impugnata che richiamato
specificamente la giurisprudenza relativa al portalettere, da qualificare incaricato
di pubblico servizio.
2.Quanto all’ulteriore profilo relativo all’appropriazione di danaro di privati,
anche qui la questione posta è manifestamente infondata. Nel delitto di peculato,
nella fattispecie riformulata con la legge 26 aprile del 1990, l’appropriazione ha a

del suo ufficio o servizio” ha la “disponibilità” o il “possesso” e non soltanto la res
o la pecunia pubblica.
3. Ulteriore aspetto, anch’esso manifestamente infondato, è quello della
configurabilità del peculato d’uso. La ricostruzione dei fatti – come
specificamente descritta – è di tale chiarezza da escludere ogni incertezza
“Raffaele Raimondo, avendo la disponibilità di pacchi contro assegni, si
appropriava dei relativi bollettini di spedizione e dei rispettivi importi, spettanti ai
legittimi creditori, per una somma complessiva di £ 3.545.700”.
La ragione – oltre che la logica giuridica sottesa alla specifica e residuale
fattispecie di peculato d’uso, diretta a tutelare diversamente il bene prospetto da
condotte concretizzatesi in un mero indebito e “momentaneo” uso della “cosa
altrui” – non consente di giungere alla conclusione voluta dal ricorrente di avere
fatto “uso momentaneo” di quanto fatto proprio in ragione del servizio esercitato.
,
Del resto, Raffaele Raimondoha tenuto per sérbollettini di spedizione e i
rispettivi importi” di numerosi destinatari, all’incirca quarantacinque, restituendo
il tutto dopo gli accertamenti effettuati dal direttore dell’ufficio postale nonché
provvedendo, solo dopo i reiterati inviti e preavvertimenti di azione disciplinare a
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restituire il mal tolto.
4. Manifestamente infondata la richiesta di applicazione dell’attenuante
speciale di cui all’art.322 bis c.p., sulla quale – mediante la descrizione dei fatti
volti a dare contezza della reiterazione delle condotte di “appropriazione”
reiteratamente commesse da Raffaele Raimondo – il giudice d’appello si è
chiaramente espresso sulla anzidetta circostanza attenuante speciale prevista per
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i fatti di particolare tenuità•ticorre , quando il reato, valutato nella sua globalità,
presenti una gravità contenuta, dovendosi a tal fine considerare ogni
caratteristica della condotta, dell’atteggiamento soggettivo dell’agente e
dell’evento da questi determinato. Del resto, nei motivi d’appello non vi è alcun
esplicito riferimento alla richiesta di applicazione dell’attenuante in parola e nel
motivo di ricorso non si fa riferimento alla mancata risposta, bensì al mero
diniego.

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oggetto “denaro o altra cosa mobile altrui” di cui l’agente pubblico “per ragione

4

5.Manifestamente infondata la censura relativa all’estinzione del reato per
prescrizione.
I tempo “necessario a prescrivere” il reato è quello previsto dall’art.157
c.p.p., nel testo anteriore alla novella 2005 – poiché la condanna in primo grado
è intervenuta il 7 Ottobre 2005, in epoca anteriore all’entrata in vigore delle
nuove regole ex lege n.251 del 2005.
E’ ormai diritto vivente, riaffermato anche dalle Sezioni unite, che Ai fini

prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente
dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d’appello
del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli(
Sez. un. 24 novembre 2011, dep. 24 aprile 2012, n. 15933).
Ciò comporta che il delitto di peculato si estingue per prescrizione in dieci
anni ex art. 157 c.p. (ante novella), poiché per esso la legge stabilisce la pena
massima di dieci anni di reclusione diminuita di un giorno per l’applicazione delle
attenuanti generiche.
Il primo delitto di peculato è stato commesso nel settembre 1998 e tale è il
dies a quo di decorrenza del “tempo di prescrizione” che, per effetto di
intervenuti atti interruttivi, da dieci anni è aumentato a quindici anni ex art. 161
c.p, (ante novella); in tal modo, il “tempo di estinzione del reato per
prescrizione”, senza tenere conto di eventuali sospensioni del processo, sarebbe
decorso nel settembre 2013, epoca non solo successiva alla sentenza d’appello,
ma anche alla presente decisione.
3.11 ricorso è, dunque, inammissibile e, a norma dell’art.616 c.p.p., il
ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, a
versare una somma, che si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore
della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza
della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n.186.
P.Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e a quello di € 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2013.

dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della

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