Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3550 del 25/09/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 3550 Anno 2015
Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: PEZZULLO ROSA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CALIGIURI MAURIZIO N. IL 22/09/1950
avverso la sentenza n. 349/2010 CORTE APPELLO di CATANZARO,
del 10/06/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/09/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. ROSA PEZZULLO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha

a parte civile, l’Avv

Data Udienza: 25/09/2014

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.
Eduardo Vittorio Scardaccione, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10.6.2013 la Corte d’ Appello di Catanzaro, in riforma
della sentenza emessa in data 23.7.2009 dal Tribunale di Lamezia Terme, in
composizione monocratica, dichiarava non doversi procedere nei confronti di
Caligiuri Maurizio in ordine al reato di cui all’art. 4 L. n. 110/75 perché estinto
per maturata prescrizione e, per l’effetto, riduceva la pena inflitta a mesi 4 di

impugnata. Al Caligiuri, in particolare, era stato ascritto il reato di furto,
aggravato dalle ipotesi di cui all’art. 625 n. 2 e 7 c.p., per essersi impossessato,
al fine di profitto, di 300 Kg circa di legna di faggio, sottratta poco prima in zona
demaniale, dopo averla abusivamente tagliata, mediante l’ausilio di una sega,
con violenza sulle cose e su cose esposte alla pubblica fede.
1.1. Il giudice d’appello riteneva sussistente, sia l’aggravante della violenza
sulle cose, essendo emerso che i fusti oggetto di taglio da parte dell’imputato
non erano secchi, ma giovani e con capacità vegetativa ottimale, sia l’aggravante
dell’esposizione alla pubblica fede dei fusti in questione.
2. Avverso tale sentenza l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha
proposto ricorso, lamentando la manifesta illogicità della motivazione e
l’inosservanza, o erronea applicazione della legge penale, per violazione degli
artt. 624-625 n. 2 c.p., in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p.,
atteso che la Corte d’Appello avrebbe dovuto emettere sentenza di non doversi
procedere per difetto di querela per il delitto di furto, previa esclusione delle
contestate aggravanti della violenza sulle cose e dell’esposizione alla pubblica
fede; in particolare, costituisce principio consolidato quello che, in ipotesi di
piante boschive destinate al taglio, il furto è aggravato dalla violenza sulle cose
soltanto prima che la pianta abbia raggiunto quel grado di maturità idonea al
taglio, situazione questa che nella fattispecie non ricorre, non essendo stata
indicata in dibattimento l’altezza delle piante ridotte in tronchetti; inoltre, non
sussiste neppure l’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede quando, come
nel caso in esame, l’esposizione dipende dalla naturale condizione della cosa e
non da una specifica attività umana.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1. Va premesso che la sentenza impugnata ricostruisce il fatto nel senso
che in data 11.3.2007, militari appartenenti al Comando Stazione dei Carabinieri
di Serrastretta, nel corso di un controllo su strada, rinvenivano nel vano
bagagliaio delle vettura condotta dal!’ imputato circa tre quintali di legna da
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reclusione ed euro 200,00 di multa, confermando nel resto la sentenza

ardere ed effettuata con il Comandante della Stazione del Corpo Forestale dello
Stato una perlustrazione dei luoghi per individuare la provenienza di quei fusti
oggetto di taglio, giunti in località “valle cupa” attraverso il confronto con le
ceppaie superstiti rinvenute sul terreno – ed oggetto di copertura con fogliame
per sviare le indagini – rilevavano che

i tronchi ritrovati nella disponibilità

dell’imputato provenivano dal faggeto sito in quel luogo, costituito da piante
giovani con fusto di diametro inferiore ai dieci centimetri. Del resto, all’interno
della vettura dell’imputato era stata ritrovata una “sega muta”, funzionale al

1.1.In base alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito deve
rilevarsi come la deduzione del ricorrente circa la non configurabilità nella
fattispecie in esame della violenza sulle cose, avendo le piante dalle quali è
avvenuta la recisione raggiunto una maturità tale per l’idoneità al taglio
trattandosi di piante destinate a morire, risulta smentita dalle emergenze
compiutamente indicate nella sentenza impugnata.
Giova richiamare in proposito i princìpi enunciati da questa Corte, secondo i
quali, nel caso di piante boschive destinate al taglio, il furto è aggravato dalla
violenza sulle cose, sotto il profilo della mutata destinazione, quando il fatto sia
commesso prima che la pianta abbia raggiunto quel grado di maturità che la
rende idonea al taglio, ovvero quando la recisione non si sia limitata alla
semplice amputazione di rami o di parti, la cui mancanza non impedisce
alla pianta di percorrere egualmente il suo ciclo vegetativo: si verifica, in tal
caso, la mutata destinazione, giacchè, se è vero che la pianta è destinata ad
essere abbattuta, tuttavia la sua eliminazione deve coincidere con il
raggiungimento del suo ciclo vegetativo, il quale, invece, viene interrotto
anzitempo (Sez. 2, n. 6306 del 18/04/1973). Nell’ipotesi specifica di piante di
alto fusto soggette a vincolo forestale, si configura, comunque, l’aggravante di
cui all’art. 625 n. 2 c.p., atteso che il taglio importa un mutamento non soltanto
nella loro destinazione naturale, ma anche nella destinazione giuridica, il quale
integra “violenza sulle cose”, secondo la nozione generale fornita dall’art. 392
c.p., e ciò anche nei casi in cui si tratti di piante non ancora giunte a
maturazione, in quanto costituisce violenza l’aver loro impedito di concludere il
ciclo vegetativo (Sez. IV, 22/04/2004, n. 31331).
1.2. Nel caso di specie il ragionamento della Corte di merito che ha ritenuto
sussistente l’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 c.p. nella fattispecie in esame si
presenta immune da censure, avendo il giudicante fatto corretta applicazione dei
prìncipi innanzi riportati, ritenendo sulla base delle dichiarazioni rese dal teste
del Corpo Forestale- secondo cui dal diametro delle ceppaie osservate sul terreno
e dai tronchi rinvenuti nella disponibilità dell’imputato questi appartenevano a

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taglio, oltre ad un coltello a serramanico.

piante giovani, “belle sfilate”, caratterizzate “capacità vegetativa ottimale” e da
altezza variabile tra i quattro ed i cinque metri, come era ricavabile e dei
corrispondenti tronchi – che le piante dalle quali erano stati tagliati i rami e i
tronchi non avevano raggiunto quel grado di maturità che le rendeva idonee al
taglio.
2. Del pari infondato si presenta l’ulteriore deduzione di cui al ricorso circa la
non configurabilità nel caso in esame dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 7 c.p..
Non ignora questa Corte un indirizzo giurisprudenziale formatosi anche

l’esposizione alla pubblica fede allorquando tale esposizione derivi non da una
condizione naturale della cosa, ma da una specifica attività umana,
sicchè l’aggravante di cui all’art. 625 n. 7 c.p. è da ritenersi integrata solo
nell’ipotesi in cui l’esposizione dipenda dall’azione o dall’omissione del
possessore, pur in presenza di una decisione assunta in forza di una situazione
necessitata, ovvero dalla consuetudine, seppur valutata in base ad una prassi
generale costante, anche se ispirata a criteri di comodità e non imposta da
esigenze da cui non si possa prescindere (cfr. da ultimo Sez. 2, n.35956
del 08/06/2012 che richiama Sez. 5, 29 settembre 1993, Violante, C.E.D. cass.,
n. 195554)
Questo Collegio, tuttavia, ritiene più aderente alla ragione giustificativa di
tale aggravante- che si fonda sulla necessità di garantire una più idonea tutela
ad un bene che non può essere adeguatamente protetto -l’interpretazione che
afferma essere un elemento estraneo alla previsione di cui all’art. 625 n. 7 c.p.
la “volontà”, atteso che la necessità di una più significativa protezione può
derivare anche da una condizione originaria della cosa (Sez. IV, n. 16894 del
22 gennaio 2004; Sez. IV, n. 26678 del 26/05/2009) e non dipendere dall’opera
dell’uomo. Invero, l’uso della parola “esposte” è di carattere neutro per la
soluzione del problema perché il participio passato di esporre può essere usato
anche come aggettivo e, quindi, con il riferimento ad uno stato e non ad
un’azione. È “esposto” anche ciò che si trova alla mercè del pubblico o in uno
stato di abbandono, ovvero per una condotta passiva od a seguito di caso
fortuito, od ancora in altro modo sottoposto ad un maggior pericolo di
sottrazione, anche se questo stato – che giustifica la tutela rafforzata – non è
stato creato dall’uomo.
L’aggravante in questione, dunque, può dirsi ricorrente nel caso di cose
“esposte -per fatto umano o per condizione naturale- alla pubblica fede” ed il
fatto che l’esposizione alla pubblica fede sia ricollegata a fonti quali la necessità o
la consuetudine o la destinazione, nessuna estranea all’opera dell’uomo, non
appare decisivo, atteso che, salvo forse la consuetudine che presuppone

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nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale è ipotizzabile

un’abitualità di condotte dell’uomo perduranti nel tempo, la necessità e la
destinazione possono ben essere compatibili con una condizione originaria, o
acquisita, della cosa eventualmente utilizzata dall’uomo (Sez. IV, n. 16894 del
22 gennaio 2004).
2.1. Alla stregua di tale interpretazione, dunque, deve dedursi che, nel caso
in esame, i rami ed i tronchi asportati dagli alberi di faggio ubicati in zona
demaniale dovevano ritenersi esposti alla pubblica fede, in ragione delle loro
qualità e, quindi, principalmente per destinazione, oltre che per necessità

dell’aggravante di cui all’art. 625 n.7 c.p..
3. Il ricorso, pertanto, va rigettato ed il ricorrente va condannato al
pagamento delle spese processuali.
p.q.m.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso il 25.9.2014

naturale, con la conseguente configurabilità nei confronti dell’imputato

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