Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35497 del 04/06/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 35497 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: NOVIK ADET TONI

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D’AGOSTINO MARIA CARMELA N. IL 31/07/1980
avverso l’ordinanza n. 351/2013 TRIB. LIBERTA’ di REGGIO
CALABRIA, del 13/06/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. ADE ( TONI NOVIK;
p142*c/sentite le conclusioni del PG Dott.
(..)(11,e,fJ o eze

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Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 04/06/2014

RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 14293/2013 della sezione Sa, questa Suprema Corte ha
annullato con rinvio l’ordinanza emessa il 26 luglio 2012 con cui il tribunale del
riesame di Reggio Calabria aveva confermato il provvedimento emesso dal locale
giudice per le indagini preliminari che aveva disposto la misura degli arresti
domiciliari nei confronti di D’Agostino Maria Carmela, quale indagata – in
concorso con Fortugno Domenico, Demetrio Fortugno e Maria Grazia Spataro del delitto di cui all’art. 12-quinquies della L. 7 agosto 1992, n. 356; con
l’aggravante di cui alli art. 7 della L. 12 luglio 1991, n. 203.

La Corte riteneva carente l’esame dell’atteggiamento psicologico della
D’Agostino in quanto la consapevolezza, da parte di costei, della finalità illecita
perseguita, sarebbe stata dimostrata in modo congetturale, perché basata
soltanto sul rapporto di parentela o di coniugio esistente fra Domenico Fortugno
e i restanti intestatari delle quote (non, quindi, la D’Agostino) e l’ordinanza non
spiegava quali ragioni avrebbero potuto consentire all’odierna ricorrente – ma
anche allo stesso Fortugno – di presumere il prossimo inizio di una procedura di
prevenzione, così da configurare il dolo specifico proprio del reato ipotizzato.
Con ordinanza in data 7 gennaio 2014 il Tribunale del riesame di Reggio
Calabria, quale giudice di rinvio, ha nuovamente confermato il provvedimento
coercitivo.
Richiamando la giurisprudenza formatasi sul reato di trasferimento
fraudolento di beni, il tribunale del riesame ha ritenuto sorretta da grave
compendio indiziario l’ipotesi accusatoria, secondo cui la D’Agostino aveva
fittiziamente assunto la formale contitolarità delle quote della società “Medma
Trans s.a.s. di Fortugno Demetrio & C”, di cui era invece, in realtà, unico titolare
Domenico Fortugno; e ciò al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di
misure di prevenzione patrimoniale, agevolando al contempo la cosca mafiosa
Pesce di appartenenza dello stesso Domenico Fortugno attraverso la protezione
del suo patrimonio.
Le fonti indiziarie valorizzate nell’ordinanza sono consistite nelle
conversazioni intercettate, intercorse tra Fabrizio Giuseppe, titolare della
“Calabria trasporti” e Fortugno Domenico, formalmente dipendente, ma
sostanzialmente socio in affari di Fabrizio, cointeressato alla gestione della
società; nelle altre conversazioni intercettate in cui emergeva anche il suo ruolo
di titolare sostanziale anche della società di trasporti “MEDMA TRANS S.A.S. DI
FORTUGNO DEMETRIO & C”, da lui costituita nel 2010 dopo la sua scarcerazione
con il presumibile intento di eludere successiva attività di indagine; nella
circostanza che dopo l’ulteriore arresto di Fortugno Domenico l’amministrazione
della MEDMA TRANS era stata affidata a Apa Antonino, marito della D’Agostino,
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?)

privo di ogni capacità di gestione della società; e gli esiti della perquisizione negli
uffici della MEDMA TRANS che aveva portato al rinvenimento di banconote per
un valore di euro 91.150 e al sequestro di due timbri della MEDMA TRANS e della
CALABRIA TRASPORTI, nonché di titoli di credito emessi dalla prima alla seconda
società; nelle risultanze delle dichiarazioni dei redditi presentate dai soggetti
indagati che avevano esposto redditi esigui di poche centinaia di euro, a fronte
del valore della loro quota di partecipazione nella MEDMA TRANS.
Rilevava il tribunale che lo stesso Fortugno sia nell’interrogatorio, sia nel

costituita al fine di rendersi autonomo rispetto alla Calabria trasporti del cugino.
Passando all’esame del dolo specifico del reato, il tribunale riteneva
accertato che Domenico Fortugno fosse ben consapevole del prossimo inizio nei
suoi confronti della procedura di applicazione di una misura di prevenzione
patrimoniale, senza che potesse avere valore di una guarentigia assoluta la sua
scarcerazione nel 2010, cui aveva fatto seguito la condanna in primo grado. I
suoi collegamenti con la cosca Pesce emergevano anche da un “pizzino” che
Pesce Francesco aveva cercato di far uscire dal carcere ove era detenuto e in cui
era inserito un collegamento con Fortugno Domenico, che si era inteso
ricollegare ad una questione di assicurazioni auto, ma che in realtà riguardava
assegni, e nelle propalazioni della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce.
Considerava quindi necessitato per Fortugno cercare di evitare gli effetti
della misura di prevenzione individuando soggetti fidati cui intestare fittiziamente
le quote della società. Nel caso di specie le quote della MEDMA TRANS erano
state attribuite al padre, alla moglie e alla D’Agostino, persona di fiducia in
quanto coniugata con Antonino Apa, già amministratore di fatto della società e,
del resto, lo stesso Fortugno non aveva mai dato nessuna giustificazione sul
perché fosse stata creata la scissione tra titolarità formale delle quote sociali e
amministrazione della società. Non rilevava che anche i familiari sarebbero stati
oggetto delle indagini patrimoniali nel processo di prevenzione, in quanto per la
sussistenza del dolo specifico di elusione era solo necessario che l’interessato
agisse con tale finalità, rimanendo irrilevante l’idoneità della condotta ad
escludere l’applicazione delle misure.
Per quanto riguardava la posizione della D’Agostino, riteneva il tribunale che
la sua scelta non fosse stata casuale, ma era collegata alla circostanza che era
coniugata con il nominato Antonino Apa, che nelle conversazioni intercettate a
volte si presentava come “il socio” di Domenico. Questa circostanza, che chiariva
l’argomentazione censurata e ritenuta congetturale nella sentenza annullata,
dimostrava come la donna si fosse prestata a rendersi intestataria delle quote,
mettendosi a completa disposizione di Fortugno. Riprova ne era che anche dopo,
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corso dell’udienza davanti al riesame si era attribuito la proprietà della società,

quando la situazione di illiceità era emersa, non si era attivata per porvi rimedio.
Non ritenere sufficiente, quanto meno sul piano giudiziario, una tale prova logica
e pretendere in tema di dolo del reato di trasferimento fraudolento di beni la
confessione giudiziale o stragiudiziale della condivisione dello scopo elusivo
perseguito attraverso l’intestazione fittizia, si sarebbe tradotto in un grave
depotenziamento dell’attività di contrasto della norma.
Il tribunale riteneva corretta anche la sussistenza dell’aggravante
contestata, sia in base alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce, che aveva

denaro contante rinvenuto nel corso della perquisizione, “occultato all’interno di
confezioni di plastica sottovuoto, nascoste nelle scatole di derivazione
dell’impianto di illuminazione e del quadro elettrico principale del garage/
magazzino”, sia in base al “pizzino” sequestrato. Trattandosi di una circostanza
oggettiva, essa si estendeva a tutti i concorrenti del reato. Nel caso di specie,
l’indagata era ben al corrente della caratura criminale di Fortugno e dei suoi
collegamenti con la cosca Pesce.
Ha proposto personalmente ricorso per cassazione la D’Agostino, affidandolo
ad un articolato motivo.
In particolare, la ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione
in relazione all’art. 12 quinquies Legge 356 del 1992 ed in relazione alla
contestata aggravante ex art. 7. In primo luogo, contesta che il tribunale del
riesame abbia rigettato il riesame fornendo una motivazione quasi fotocopia e
identica a quella cassata, fondata su asserzioni congetturali.
La convinzione che essa fosse prestanome consapevole di Fortugno
Domenico non era sorretta da elementi indiziari specifici, avendo il tribunale
ripetuto che non poteva rendersi acquirente della quota sociale perché priva di
redditi sufficienti, omettendo di spiegare per quale ragione sarebbe stata
necessaria l’assunzione delle quote da parte sua e con finalità elusive, se la
società era già composta da altre persone di fiducia di Fortugno.
L’affermazione che essa era persona di fiducia perché coniuge di Apa era
illogica in quanto non spiegava sia perché era necessario l’intervento di una terza
persona, sia perché non vi era la dimostrazione che Apa avrebbe dovuto avere la
consapevolezza della fittizietà del trasferimento. Quanto all’assenza di redditi, il
tribunale aveva limitato la sua indagine al solo anno 2010, ed era onere
dell’accusa dare la prova dell’incapacità economica, tanto più che dalle indagini
sarebbe emerso che “la scrivente non ha versato la quota societaria al momento
della costituzione della società (si tratta poi di circa euro 14.000).
Sotto il profilo soggettivo evidenzia l’apoditticità del ragionamento per cui la
fittizietà dell’intestazione era dimostrata dall’essere ella coniuge di Apa e dalla
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confermato la vicinanza di Fortugno alla cosca Pesce, sia in base al sequestro del

mancata fuoriuscita dalla compagine sociale quando erano state rese note le
accuse a carico di Domenico Fortugno. Ragionamento viziato da circolarità
perché partiva da un presupposto non dimostrato per giungere al punto di
partenza ed affermare che è dimostrato il dolo specifico.
Nel caso di specie non si trattava di un intestazione fittizia di beni ma di
una normale operazione societaria in cui le quote erano trasferite ad alcuni
soggetti mentre la gestione operativa sarebbe rimasta in capo al Fortugno, già
dipendente della società e dotato dell’esperienza necessaria. Nell’ordinanza

portato all’annullamento della precedente ordinanza.
Nessuna dimostrazione era stata data circa il fine perseguito dall’istante di
avvantaggiare la cosca Pesce, dal momento che la costituzione della società era
avvenuta dopo la scarcerazione e che solo al momento dell’esecuzione
dell’ordinanza cautelare si era appreso della scoperta del “pizzino”. Inoltre,
Domenico Fortugno nelle altre operazioni giudiziarie non era stato destinatario di
provvedimenti di sequestro di beni.
Mancava quindi la prova della consapevolezza della provenienza illecita dei
beni e la finalità di consentire al soggetto attivo di eludere l’applicazione di una
misura di prevenzione patrimoniale.
L’ordinanza era censurabile anche sotto il profilo della ritenuta aggravante di
cui all’art. 7, erroneamente considerata di natura oggettiva, mancando ogni
elemento, anche solo indiziario, dimostrativo della volontà della ricorrente di
agevolare la cosca Pesce.
Le considerazioni sopra svolte in merito all’assenza del dolo specifico
vengono riprese anche sotto il profilo della violazione di legge, ribadendosi
l’assenza della specifica volontà e consapevolezza di Fortugno Domenico di
eludere provvedimenti di prevenzione dell’autorità giudiziaria mediante
l’intestazione di beni alla D’Agostino e come non fossero stati compiuti
accertamenti sull’attualità della sua capacità di reddito.
Rileva infine che la motivazione era carente per non aver considerato che
era ben possibile che esso terzo non fosse consapevole della finalità di eludere
l’applicazione delle disposizioni in materia di prevenzione patrimoniale e addebita
all’ordinanza di non aver considerato, quanto alla capacità reddituale, che i
numerosi mezzi di cui si serviva la società erano stati acquistati con lo strumento
del leasing ed erano pagati con i profitti dell’attività lavorativa.
Conclude chiedendo l’annullamento dell’ordinanza.

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impugnata il tribunale del riesame era incorso nello stesso errore che aveva

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.
Occorre premettere che il delitto di cui al primo comma all’art. 12-quinquies
del d.l. n. 306 del 1992 (trasferimento fraudolento di valori) è una fattispecie a
forma libera, che si concretizza nell’attribuzione fittizia della titolarità o
disponibilità di denaro o di qualsiasi altro bene o utilità, realizzata con qualunque
modalità al fine di eludere specifiche disposizioni di legge. La condotta vietata
consiste nella creazione di una situazione di apparenza formale della titolarità di

volontario di tale situazione.
L’interpretazione letterale e logico-sistematica della norma rendono evidente
che il suo ambito di applicabilità non è limitato alle ipotesi riconducibili a precisi
schemi civilistici, ma comprende tutte quelle situazioni in cui il soggetto viene a
trovarsi in un rapporto di signoria con il bene e, inoltre, che essa prescinde da un
trasferimento in senso tecnico-giuridico, rimandando non a negozi giuridici
tipicamente definiti ovvero a precise forme negoziali, ma piuttosto ad una
indeterminata casistica, individuabile soltanto attraverso la comune caratteristica
del mantenimento dell’effettivo potere sul bene attribuito in capo al soggetto che
effettua l’attribuzione ovvero per conto o nell’interesse del quale l’attribuzione
medesima viene compiuta.
Tenuto conto della ratio, delle finalità e della struttura della disposizione, è
possibile affermare che colui che si rende fittiziamente titolare di denaro, beni o
utilità, al fine di eludere le norme in materia di misure di prevenzione
patrimoniale o di contrabbando, o di agevolare la commissione dei reati di
ricettazione, riciclaggio o impiego di beni di provenienza illecita, risponde, a titolo
di concorso, del medesimo reato ascritto a colui che ha operato la fittizia
attribuzione in presenza di un consapevole e volontario contributo causalmente
rilevante alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice. (Sez. II, 9
luglio 2004, n. 38733; Sez. I, 10 febbraio 2005, n. 14626; Sez. I, 26 aprile
2007, n. 30165).
Il disvalore della condotta è dato, poi, dalle finalità che costituiscono il
profilo soggettivo (dolo specifico) della figura delittuosa, intesa ad eludere come già sopra detto – le misure di prevenzione patrimoniale o di contrabbando
ovvero ad agevolare la commissione di reati che reprimono fatti connessi alla
circolazione di mezzi economici di illecita provenienza.
Il giudice di merito è libero di procedere a tutti gli accertamenti del caso al
fine di pervenire ad un giudizio non vincolato necessariamente da criteri giuncoformali, ma soltanto rispettoso dei parametri normativi di valutazione delle prove
o degli indizi emergenti da elementi fattuali o logici.
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un bene, difforme dalla realtà sostanziale, e nel mantenimento consapevole e

L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi in
precedenza illustrati.
Il Tribunale ha attentamente analizzato, con motivazione esauriente ed
immune da vizi logici e giuridici, le risultanze probatorie disponibili e ha desunto
la gravità degli indizi di colpevolezza in ordine ai reati di cui agli artt. 12quinquies I. n. 356 del 1992, aggravato ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991 dai
seguenti elementi: a) dichiarazione di Giuseppina Pesce (collaboratore di
giustizia); b) contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali; c)

in ordine alle condizioni economiche dei soggetti titolari delle due ditte; e)
contenuto del foglietto scritto da Francesco Pesce (classe 1978), arrestato dopo
una lunga latitanza, destinato ad essere veicolato all’esterno grazie all’aiuto dei
familiari di un altro detenuto, autorizzato ai colloqui; f) dichiarazioni rese
dall’indagato in sede d’interrogatorio.
Ha, infine, evidenziato, con puntuali riferimenti alle emergenze processuali
sin qui acquisite, il consapevole contributo materiale fornito dalla ricorrente alla
vita associativa in vista della sua espansione economica e del sostentamento
degli associati del sodalizio, accettando di rendersi intestataria di parte delle
quote della società (e creando per ciò solo una cortina atta a rendere più difficile
l’accertamento della fittizietà del trasferimento).
I giudici del riesame, in sede di rinvio, hanno attentamente ricostruito, sulla
base delle risultanze probatorie in precedenza richiamate, la genesi della
“Calabria Trasporti” e della “Medma trans”, la loro successione cronologica, la
titolarità delle quote sociali, i legami familiari o amicali intercorrenti tra i diversi
titolari delle stesse, le condizioni economiche e patrimoniali dei singoli apparenti
titolari, il volume d’affari gestito dalle due società, le modalità di
contabilizzazione delle singole operazioni, i rapporti con la clientela, nonché le
relazioni esistenti tra l’indagato e Francesco Pesce (classe 1978), capo
dell’omonima consorteria di stampo mafioso.

risultanze delle attività di perquisizione e sequestro; d) esito delle indagini svolte

Sulla base di questi elementi, con motivazione rispettosa dell’ambito del
devolutum e fondata sull’attenta lettura dei dati acquisiti, oltre che delle
prospettazioni difensive, ha illustrato le ragioni per le quali Domenico Fortugno
doveva ritenersi il reale proprietario delle due società, formalmente intestate a
familiari o, comunque, a persone di sua assoluta fiducia e la causale di tali
intestazioni fittizie, finalizzate alla sottrazione dei suddetti beni a misure ablative
nell’ambito di procedure di prevenzione, la cui instaurazione – pure alla luce della
intervenuta scarcerazione – era altamente prevedibile, alla luce degli sviluppi del
processo “All inside” (nell’ambito del quale Fortugno, all’esito del rinvio a giudizio
e della celebrazione del giudizio di primo grado è stato condannato alla pena di
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i

sedici anni di reclusione), dei plurimi precedenti penali, degli stretti rapporti
mantenuti con personaggi di vertice della criminalità organizzata.
In questo contesto, ha trovato adeguata valutazione anche la posizione di
D’Agostino Maria Carmela. Il tribunale ha adeguatamente posto in risalto come il
trasferimento di beni fosse privo di una giustificazione causale e non rispondesse
ai normali criteri economici. Avendo il solo Fortugno Domenico le capacità
gestionali e le conoscenze dei meccanismi di funzionamento dell’azienda, di cui
aveva sempre continuato ad occuparsi, come emergeva dalle intercettazioni
telefoniche, diventava incomprensibile nell’ottica di una sana conduzione

aziendale la ragione della cessione delle quote sociali. La constatazione che
durante il suo stato detentivo, l’amministrazione della società fu di fatto affidata
al marito dell’odierna indagata, Apa, è elemento che diventa significativo, al fine
di evidenziare il fine fraudolento dell’intestazione delle quote, e spiega la
circostanza che per essa non fu corrisposta nessuna somma, atteso che la
D’Agostino non aveva, né, come era suo onere, ha provato di avere redditi per
compiere l’acquisto. Non è significativa sul punto, la mera affermazione che i
beni ceduti erano in leasing, in quanto anche questi beni entrano a far parte del
patrimonio sociale e devono essere valutati in sede di determinazione del valore
delle quote cedute.
Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una
coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un
organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata
plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della
gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato
grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la responsabilità di
D’Agostino Maria Carmela in ordine ai reati di cui agli art. 12 quinquies. L. n. 356
del 1992, aggravati ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991, a lei contestati.
Di talché, considerato che la valutazione compiuta dal Tribunale verte sul
grado di inferenza degli indizi e, quindi, sull’attitudine più o meno dimostrativa
degli stessi in termini di qualificata probabilità di colpevolezza anche se non di
certezza, deve porsi in risalto che la motivazione dell’ordinanza impugnata
supera il vaglio di legittimità demandato a questa Corte, il cui sindacato non può
non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità
ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza,
prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della
libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni
riservate al giudice di merito. Né, d’altra parte, possono trovare ingresso in
questa sede le ulteriori prospettazioni difensive che, lungi dal censurare la
struttura logico-argomentativa del provvedimento impugnato, sollecitano, in
7

A

realtà, una lettura alternativa delle emergenze processuali, non consentita
quando la motivazione sia sorretta, come nel caso in esame, da una solida e
coerente motivazione, fondata sull’attenta analisi dei singoli elementi indizianti e
sulla loro organica valutazione complessiva.
L’ordinanza impugnata è esente da censure anche nella parte in cui ha
ritenuto sussistente l’aggravante di cui all’art. 7 I. n. 203 del 1991,
argomentando, sulla base di tutto il materiale probatorio acquisito, la
strumentalità delle due società di cui era reale

dominus

Fortugno al

attività gestite e, quindi, al complessivo rafforzamento del sodalizio di stampo
mafioso. Peraltro l’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista
dall’art. 7 cit. può essere applicata ai concorrenti nel delitto, secondo il disposto
dell’art. 59 c.p., anche quando essi non siano consapevoli della finalizzazione
dell’azione delittuosa a vantaggio di un’associazione di stampo mafioso, ma
versino in una situazione di ignoranza colpevole. La situazione personale di
Fortugno, arrestato per fatti di criminalità organizzata, non poteva essere
ignorata dalla D’Agostino.
In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso
deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, 4 giugno 2014
Il Consigliere estensore

reinvestimento di ingenti profitti conseguiti dalla cosca Pesce grazie alle illecite

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