Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35492 del 03/07/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35492 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GERVASI DANIELE N. IL 01/03/1976
avverso la sentenza n. 1766/2010 CORTE APPELLO di PERUGIA, del
06/12/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/07/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. che ha concluso per r 1,100

4.

e

Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

,Vt

Data Udienza: 03/07/2013

t

Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione Gervasi Daniele avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia in data
6 dicembre 2011 con la quale, in parziale riforma della sentenza di primo grado, è stata dichiarata la
prescrizione del reato contestato (lesioni personali volontarie gravi, commesso nel gennaio 2002), con
conferma tuttavia delle istituzioni civili ai sensi dell’articolo 578 c.p.p.
Il reato era stato contestato in relazione alla aggressione e alle lesioni subite da Cordella Rossano- fonti di
postumi permanenti-nonché a quelle subite da Sfascia Luciano le quali, tuttavia, essendo non aggravate,

Deduce
1)

il vizio della motivazione.
Tale vizio riguarderebbe in primo luogo la omessa valutazione delle dichiarazioni dei testi Lazzari ed
Borio, rispettivamente titolare della discoteca Fabric ove si sono svolti i fatti e titolare della società
Mission, fornitrice dei servizi di sicurezza: entrambi avevano concordemente sostenuto che
l’imputato non aveva mai lavorato presso la discoteca in qualità di addetto alla sicurezza, non
essendo neppure un dipendente della società Mission;

2)

il vizio della motivazione riguardo alle testimonianze (Pernacchia e Giulietti) che avevano invece
riferito di soggetti assolutamente somiglianti all’imputato e con esso confondibili quasi come sosia,
essendo stati inviati al locale dalla società Mission;

3)

l’inosservanza dell’articolo 213 c.p.p. e la nullità della ricognizione personale eseguita all’udienza
del 20 maggio 2010.
Sostiene il difensore che il giudice dell’appello ha ritenuto effettuato un riconoscimento personale
mentre è stata espletata una semplice ricognizione all’udienza del 20 maggio 2010.
Tale atto è affetto da nullità perché in violazione della norma sopracitata.
La nullità deriverebbe dal fatto che non è stato fedelmente compiuto l’atto descrittivo della
persona ad opera del teste ed inoltre era mancato l’apprezzamento del fatto che i testimoni
conoscevano lo pseudonimo “Napoleone” col quale l’imputato era chiamato, già prima di
effettuare l’atto di riconoscimento. Ma tale circostanza non era stata riferita agli organi di PG né
dalla teste Selvaggio nè da Benedetti Pasqualoni.
Tale omissione doveva valere a rendere inattendibile la testimonianza e soprattutto nulla, la stessa,
ai sensi del comma quattro dell’articolo 213 c.p. p.: una nullità fatta valere con l’impugnazione della
sentenza di primo grado.
La difesa inoltre evidenzia che la descrizione fisica dell’imputato data dai testimoni non
coinciderebbe con le sue reali fattezze;

4)

il vizio della motivazione a proposito della ricostruzione della vicenda ad opera dei testi, ritenuta
dai giudici convergente mentre tale non era. Al riguardo il difensore cita i brani delle deposizioni
stesse.
Sulla base di tali elementi il difensore chiede che sia pronunciata sentenza dichiarativa della
insufficienza della prova nel merito, essendo stata, la prescrizione, dichiarata quando l’istruttoria
dibattimentale era completa ed utile ai fini delle statuizione civili;

5)

Il vizio della motivazione riguardo all’entità del danno liquidato.

Formula altresì richiesta di sospensione dell’esecutività della condanna civile.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

erano state dichiarate prescritte già in primo grado, in assenza, pertanto, di statuizioni civili al riguardo.

Non apprezzabile è invero il primo motivo di ricorso posto che la difesa, lamentando la mancata valutazione
di dichiarazioni di due soggetti a conoscenza delle modalità del servizio di sicurezza presso il locale
interessato, tralascia però di considerare la motivazione del giudice del merito il quale , sia pure non
citando il nome dei testimoni indicati dalla difesa nel motivo di ricorso, tuttavia ha motivatamente escluso
che le testimonianze raccolte, a proposito della esistenza o meno di un formale rapporto di lavoro tra
l’imputato e la società che assicurava servizi di sicurezza, potessero valere ad inficiare l’impianto
accusatorio.
Il giudice dell’appello ha infatti ritenuto provato, al contrario, sulla base di una pluralità di testimonianze,
che i servizi di sicurezza riguardanti le discoteche dell’ambiente considerato, non era rigidamente delegato
La motivazione è in sé esaustiva e non manchevole su punti decisivi sicché non si espone ad ulteriori
censure da parte di questa Corte, dovendosi considerare che in tema di vizi della motivazione, il controllo
di legittimità operato dalla Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente
la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ne’ deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a
verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile
opinabilità di apprezzamento (rv 215745).
Ugualmente versata in fatto e quindi inammissibile è la considerazione della difesa a proposito del fatto che
altri testi possano avere riferito della presenza, presso il locale, di soggetti addetti alla sicurezza,
confondibili, per fattezze, con l’imputato.
Il giudice del merito ha escluso tale conclusione e, tenuto conto che la qualificabilità di un soggetto come
sosia di un altro costituisce tipico giudizio di fatto, è inammissibile la doglianza della difesa che sollecita alla
cassazione la rivisitazione di tal genere di giudizio.
Il terzo motivo costituisce la riproposizione di una questione già sottoposto al giudice dell’appello e da
questi adeguatamente risolta.
Correttamente è stato posto in evidenza che il riconoscimento dell’imputato operato in udienza, nel corso
dell’esame testimoniale, va tenuto distinto dalla ricognizione vera e propria, dalla quale non mutua il
dovere di osservanza delle formalità.
Il giudice di merito può, infatti, trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali, potendo
attribuire concreto valore indiziante all’identificazione dell’autore del reato mediante – persino riconoscimento fotografico, che costituisce, al pari del primo, accertamento di fatto utilizzabile in virtù dei
principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice(v. Rv. 242029) .
L’individuazione di un soggetto – sia personale sia fotografica — è, invero, una manifestazione riproduttiva di
una percezione visiva e rappresenta, perciò, una specie del più generale concetto di dichiarazione; di modo
che la sua forza probatoria non discende dalle modalità formali del riconoscimento, bensì dal valore della
dichiarazione confermativa, alla stessa stregua della deposizione testimoniale (Rv. 227079).
In punto di attendibilità, d’altra parte, le dichiarazioni di coloro che hanno operato il riconoscimento hanno
subito una valutazione adeguata da parte del giudice del merito che ha anche, razionalmente, posto in
risalto come la pregressa conoscenza del Gervasi da parte di chi, successivamente, ha operato la
ricognizione, a consentito di escludere che essi possano avere confuso l’imputato con altro soggetto.
Il quarto motivo è palesemente inammissibile essendo fondato sulla trascrizione, nel ricorso, di brani delle
deposizioni testimoniali che questo giudice della legittimità dovrebbe direttamente valutare.
Ed invece una simile operazione è preclusa nella sede della legittimità, anche soltanto nella forma
dell’apprezzamento del travisamento della prova dal momento che quest’ultimo, per essere deducibile in
Cassazione, deve avere un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non
controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne

a una specifica impresa ma veniva affidato a singoli soggetti dell’ambiente della sicurezza.


abbia inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto vizio un presunto errore
nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione testimoniale( Rv. 255087).
Infine è infondato l’ultimo motivo di ricorso, posto che i giudici dell’appello avevano già dato atto della
genericità del corrispondente motivo di gravame.
A fondamento della liquidazione equitativa si rinviene, nella sentenza di merito, una motivazione che
attiene alla tipologia di gravità delle lesioni subite dalla persona offesa, con postumi temporanei e
permanenti esattamente accertate dal perito medico legale, secondo criteri tecnici immuni da specifiche
censure.
Ma, quel che rileva e che è decisivo, è che non era stata dedotta in appello una doglianza sul punto,
solo la sproporzione della somma rispetto alle lesioni subite.
Per tale ragione, la motivazione adottata dal giudice di secondo grado non può essere censurata come
mancante o manchevole in relazione a specifiche questioni poste dall’allora appellante.
Infine anche l’ultima richiesta è inammissibile, atteso il carattere definitivo della sentenza a seguito del
presente rigetto.
PQM
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma 3 luglio 2013
nte

il Consigliere estensore
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specifica nei termini poi rappresentati in ricorso. Piuttosto nel punto 5 dei motivi di appello si era segnalata

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