Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35464 del 01/04/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 35464 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: MAZZEI ANTONELLA PATRIZIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
CUFFARO Salvatore, nato a Raffadali il 21/02/1958,
avverso l’ordinanza della Corte di appello di Palermo in data 13 marzo 2013 nel
proc. n. 160/2012.

Visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;
udita, nella camera di consiglio del

10 aprile 2014, la relazione svolta dal

consigliere Antonella Patrizia Mazzei;
lette le conclusioni del pubblico ministero presso questa corte di cassazione, in
persona del sostituto procuratore generale, Pietro Gaeta, il quale ha chiesto la
declaratoria di inammissibilità del ricorso.

RILEVATO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo, giudice dell’esecuzione, con ordinanza
deliberata il 13 marzo 2013 e depositata 1’11 aprile 2013, ha dichiarato
l’inammissibilità dell’istanza di correzione del preteso errore materiale nel calcolo
della pena, che avrebbe inficiato la sentenza emessa dalla stessa Corte il 23
gennaio 2010, divenuta irrevocabile il 21 febbraio 2011, nei confronti di Cuffaro

Data Udienza: 01/04/2014

Salvatore, condannato alla pena di anni sette di reclusione per concorso nei
delitti, unificati nella continuazione, di favoreggiamento personale (capi O e Q) e
rivelazione di segreti di ufficio (capi N e P).
Il giudice dell’esecuzione ha ritenuto palesemente insussistente l’errore
materiale dedotto dal Cuffaro sul presupposto che la Corte di appello, dopo aver
riconosciuto, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, la

riguardo ai reati ascrittigli nei capi Q) e P), perché commessi al fine di agevolare
l’attività dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, aveva aumentato la pena
base per il reato di cui al capo Q) (favoreggiamento personale aggravato e
continuato), stimato più grave, ad anni cinque di reclusione senza superare, con
tale aumento, la metà della pena di anni tre e mesi sei inflittagli in primo grado
dal Tribunale di Palermo con sentenza del 18 gennaio 2009, integrante, ad
avviso del ricorrente, la misura massima di incremento sanzionatorio consentito
dal riconoscimento, in appello, della circostanza aggravante ad effetto speciale di
cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991; la Corte di appello, invece, avrebbe errato nel
rideterminare l’aumento per il reato in

continuazione di cui al capo P)

(rivelazione di segreti di ufficio continuata), anch’esso riconosciuto aggravato ai
sensi del suddetto art. 7, nella misura di un anno di reclusione rispetto
all’aumento di soli sei mesi, già applicato in primo grado per lo stesso reato, in
tal modo eccedendo, in proporzione, sia l’entità dell’incremento statuito con
riguardo alla pena base per il più grave delitto di cui al capo Q), sia la misura
massima di aumento, fino alla metà, del segmento di pena pertinente alla detta
violazione sub P), che avrebbe giustificato un incremento massimo di tre mesi,
pari alla metà della quota di pena di sei mesi già applicata in primo grado, e,
quindi, un aumento complessivo, ex art. 81, comma secondo, cod. pen., di mesi
nove per la medesima violazione satellite di cui al capo P), a causa della
circostanza aggravante, ad effetto speciale, riconosciuta in appello.
A ragione della dichiarata inammissibilità dell’istanza, la Corte territoriale,
giudice dell’esecuzione, ha addotto che sulle quote di pena determinate dal
giudice di primo grado non si era formato alcun giudicato, poiché l’appello del
pubblico ministero non si era limitato a richiedere il mero aumento delle pene già
irrogate, previo riconoscimento della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l.
n. 152 del 1991, ma aveva chiesto la rideterminazione del trattamento
sanzionatorio in misura congrua alla maggiore gravità dei fatti di cui ai capi Q) e
P), commessi al fine di agevolare l’associazione mafiosa “Cosa Nostra”.
Più radicalmente era manifestamente inesistente, secondo il giudice
dell’esecuzione, il denunciato errore materiale, definito, all’esito di diffusa analisi
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ricorrenza della circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 con

giurisprudenziale della nozione di errore emendabile ai sensi dell’art. 130 cod.
proc. pen., con pertinente casistica, come disarmonia tra l’estrinsecazione
formale della decisione e il suo reale intangibile contenuto, o come difformità tra
la manifestazione esteriore costituita dal documento-sentenza e quanto avrebbe
dovuto essere statuito ex lege, fattispecie di errore ed omissione materiali,

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il
Cuffaro tramite il difensore, avvocato Antonino Mormino del foro di Palermo, il
quale, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., deduce
l’erronea applicazione dell’art. 130 cod. proc. pen. e la manifesta illogicità e
contraddittorietà della motivazione emergente dal testo del provvedimento
impugnato.
Secondo il ricorrente, il pubblico ministero, con l’atto di appello avverso la
sentenza di primo grado, avrebbe richiesto il solo riconoscimento della
circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e
non anche la rideterminazione della pena già statuita per il reato base e per
quello satellite, con la conseguenza che l’applicazione, per il reato di cui al capo
P), ritenuto in continuazione col più grave delitto di cui al capo Q), di un
aumento di pena pari ad un anno di reclusione integrava l’errore materiale
denunciato ed erroneamente disconosciuto dal giudice dell’esecuzione,
trattandosi di incremento superiore alla metà della quota di sei mesi, già irrogata
in primo grado per la stessa violazione in continuazione, la quale avrebbe
imposto un aumento massimo di nove mesi ossia l’aggiunta ai sei mesi già inflitti
della metà di essi, pari a tre mesi, per la riconosciuta circostanza aggravante ad
effetto speciale.

3. Il Procuratore generale presso questa Corte, ritenuta la manifesta
infondatezza del ricorso, ne ha chiesto la declaratoria di inammissibilità.

4. Il 14 gennaio 2014 è pervenuta memoria difensiva del ricorrente, il quale
insiste nella denuncia dell’errore materiale e per raccoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

3

entrambe, palesemente non ricorrenti nel caso in esame.

Va premessa una breve ricognizione dell’invocato rimedio di cui all’art. 130
cod. proc. pen. in tema di correzione di errori materiali.
Tale istituto pone riparo alle deviazioni non gravi dell’atto dal suo schema
tipico e la sua operatività è subordinata alla contestuale ricorrenza di tre
presupposti.
Il primo investe gli atti suscettibili di correzione che sono esclusivamente le

cui al primo comma dell’art. 130; dalla sua collocazione all’interno del titolo
secondo del codice di procedura, intitolato “atti e provvedimenti del giudice”; e
dall’espressa previsione di competenza del giudice che ha emesso il
provvedimento o, in caso di impugnazione non dichiarata inammissibile, del
giudice competente a conoscere l’impugnazione.
Il secondo presupposto esclude l’autocorrezione del provvedimento nel caso
di errori od omissioni che determinano la nullità del provvedimento. Emerge, al
riguardo, un rapporto complementare ma, al tempo stesso, di esclusione tra
autocorrezione e strumenti per porre riparo alle nullità: l’esperibilità dei secondi
preclude l’operatività della prima e viceversa.
All’interno dell’area delle imperfezioni che non comportano nullità si colloca il
terzo presupposto che individua gli errori od omissioni correggibili come quelli “la
cui eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto”, secondo
la testuale definizione contenuta nel primo comma dell’art. 130.
E’, dunque, legittima la cosiddetta correzione epurativa nel caso di difformità
tra il contenuto dell’atto e la sua estrinsecazione, determinata dalla manifesta
inadeguatezza delle espressioni usate dal giudice rispetto al pensiero o al
comando effettivamente voluto; e la cosiddetta correzione integrativa nel caso di
mancanza di disposizioni discendenti, in maniera pressoché automatica, dalla
legge, come tali non supponenti alcuna attività interpretativa e valutativa.
Il punto di discrimine, come chiarito dalle sezioni unite di questa Corte, non
investe tanto la natura dell’errore, ma il momento in cui interviene, poiché, se
l’errore fa parte del processo formativo della volontà del giudice, esso si risolve
in un errore di giudizio sostanziale ricollegabile ad una determinata, anche se
errata, interpretazione giuridica, non emendabile con l’autocorrezione che
importerebbe una modifica sostanziale ovvero una sostituzione della decisione
assunta.
Viceversa sono sempre ammissibili interventi correttivi imposti dalla
necessità di armonizzare l’estrinsecazione formale della decisione con il suo reale
intangibile contenuto o di porre rimedio ad omissioni con un’operazione
meramente meccanica di aggiunta di elementi che necessariamente dovevano
4

sentenze, le ordinanze e i decreti, come si evince dal chiaro dettato normativo di

far parte del provvedimento, restando esclusa qualsiasi modifica che introduca
elementi estranei alla ratio decidendi e che comporti l’esercizio di un potere
discrezionale (Sez. U, n. 8 del 18/05/1994, dep. 29/09/1994, Armati, Rv.
198543; Sez. U, n. 19 del 09/10/1996, dep. 06/12/1996, Armati, Rv. 206176;
conformi: n. 124 del 1997, n. 2076 del 1998, n. 2284 del 1999, n. 93 del 2000,
n. 3401 del 2002, n. 18326 del 2003, n. 29749 del 2003, n. 11763 del 2008, n.

Tanto premesso, è agevole osservare come nel caso di specie siano carenti i
presupposti che legittimano la correzione del preteso errore materiale nella
determinazione dell’aumento di pena per il delitto di cui al capo P), e ciò con
riguardo a tutte le prospettazioni difensive.
E, invero, se si ritiene che il giudice d’appello abbia valicato i limiti del
devolutum, poiché l’impugnazione del pubblico ministero sarebbe stata mirata al
mero riconoscimento della circostanza aggravante dell’agevolazione delle attività
dell’associazione di tipo mafioso, ai sensi dell’art. 7 d.l. 13/05/1991, convertito
nella legge 12/07/1991, n. 203, con i conseguenti incrementi sanzionatori, fermi
la non contestata pena base per il delitto ritenuto più grave (capo Q) e gli
aumenti di sei mesi per ciascuno dei tre reati satelliti (capi N, O e P), nei termini
già quantificati dal giudice di primo grado, si denuncia, con ogni evidenza, un
vizio della sentenza di appello, per violazione dell’art. 597, comma 1, cod. proc.
pen., che avrebbe dovuto costituire oggetto di impugnazione attraverso il pur
proposto ricorso per cassazione.
Se, invece, si ritiene che il giudice di appello sia incorso in un errore nel
rideterminare l’aumento di pena per il reato satellite di cui al capo P), unica
violazione -tra quelle meno gravi poste in continuazione col più grave delitto di
cui al capo Q)- riconosciuta aggravata ai sensi dell’art. 7 cit., il preteso errore
non sussiste, poiché la maggiore gravità di tale reato rispetto alle altre violazioni
satelliti è coerente con il maggiore incremento per esso statuito; né vale la tesi,
perorata dal ricorrente, secondo la quale l’omessa motivazione dello specifico
aumento applicato per il delitto sub P) e l’innalzamento dell’originario segmento
di pena oltre la metà consentita dalla riconosciuta aggravante ad effetto speciale,
di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, rivelerebbero, di per sé, l’errore di calcolo
emendabile in cui sarebbe incorso il giudice di appello.
Nel calcolo della pena inflitta per un reato continuato, invero, deve
necessariamente essere indicata l’entità della pena base comminata per la
violazione più grave, mentre la specificazione della frazione di pena inerente ad
ogni singolo reato satellite non è necessaria, potendo questa essere indicata
globalmente (Sez. 5, n. 1413 del 05/10/1984, dep. 11/02/1985, Ottonello, Rv.
5

2632 del 2013, n. 3936 del 2013, n. 25861 del 2013, n. 42897 del 2013).

167832); e le circostanze inerenti alle violazioni meno gravi dei cosiddetti reati
satelliti rimangono prive di efficacia in quanto, considerata la inscindibilità
dell’aumento di pena sino al triplo, non è possibile stabilire, in rapporto ai reati
meno gravi, le frazioni di pena che ad essi si riferiscono e sulle quali dovrebbero
operare gli aumenti o le diminuzioni delle relative circostanze, delle quali si potrà
tenere conto discrezionalmente soltanto nella determinazione dell’aumento da

24/06/1998, dep. 24/07/1998, Ferlan, Rv. 211462; Sez. 6, n. 6942 del
17/12/2002, dep. 12/02/2003, Bonifati, Rv. 223; Sez. 5, n. 8674 del
21/01/2004, dep. 26/02/2004, Lillini, Rv. 227529).
Ne discende che l’aumento di pena per il reato satellite di cui al capo P),
denunciato come materialmente erroneo, non postulava una specifica
motivazione, tenuto anche conto della sua modesta entità (conformi: Sez. 6, n.
2613 del 05/12/1986, dep. 25/02/1987, Corradini, Rv. 175239; Sez. 1, n. 32870
del 10/06/2013, dep. 29/07/2013, Sardo, Rv. 257000), e non era vincolato alla
riconosciuta aggravante ad effetto speciale dell’avere agito per agevolare le
attività dell’associazione di tipo mafioso; esso costituisce espressione del potere
discrezionale del giudice nella determinazione della pena, non suscettibile di
correzione senza un’inammissibile modifica sostanziale della decisione in punto di
trattamento sanzionatorio.
Per completezza, va aggiunto che esula dal caso in esame la pur evocata
illegalità della pena parziale e finale, posto che la sanzione di anni cinque di
reclusione, determinata per il delitto più grave di cui al capo Q), è stata
aumentata di un anno per il reato sub P) e complessivamente, per i tre reati in
continuazione, di anni due donde la pena definitiva di anni sette, con un
incremento, quindi, ben al di sotto del massimo del triplo consentito dall’art. 81,
commi primo e secondo, cod. pen.

2. Sulla base dei rilievi che precedono, il ricorso deve essere, pertanto,
respinto con la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 606, comma 1, cod.
proc. pen., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

6

apportare alla pena stabilita per la violazione più grave (Sez. 6, n. 8625 del

Così deciso, in Roma, il 1° aprile 2014.

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