Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35455 del 07/06/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 35455 Anno 2013
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Simone Marchese, quale difensore di
Roccuzzo Mariano (n. il 24/10/1980), avverso la sentenza della Corte
d’appello di Catania, III Sezione penale, in data 03/02/2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottoressa Elisabetta
Cesqui, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
OSSERVA:

Data Udienza: 07/06/2013

Con sentenza del 15/12/2009, il Tribunale di Catania dichiarò Roccuzzo
Mariano responsabile dei reati di danneggiamento continuato (capo B), di
molestia e disturbo telefonico (capo C) e di minaccia (capo D) e — concesse
le attenuanti generiche e ritenuta la continuazione – lo condannò alla pena di
anni 1 di reclusione.
Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame. La Corte di appello

qualificò il fatto sub D ai sensi dell’art. 612, I comma, del c.p. e ritenuto più
grave il reato di cui al capo B determinò la pena per i reati di cui ai capi B e D
della rubrica in € 1.200,00 di multa. Dichiarò non doversi procedere nei
confronti del Roccuzzo per il reato di cui al capo C per intervenuta
prescrizione. Confermò, nel resto, la decisione di primo grado.
Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo che
erroneamente la Corte di appello ha ritenuto la diversità tra l’ipotesi di cui al
capo C e quella contestata al capo D, perché in realtà i messaggi inviati
avevano un contenuto esclusivamente minaccioso e non anche ingiurioso
come scritto nel capo di imputazione. Rileva, infine, che la condanna si fonda
solo sulle dichiarazioni della P.O. la cui credibilità non è stata sottoposta ad
un attento vaglio; sottolinea, inoltre, che la Corte non ha indicato le ragioni
per le quali ha ritenuto prive di fondamento le osservazioni della difesa sul
punto. Per quanto riguarda, poi, il reato sub D rileva che dagli atti non
emerge da quale utenza tali messaggi siano stati inviati né che questa
utenza sia riconducibile all’imputato.
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso relativo all’assorbimento del reato di molestie
telefoniche (capo C) in quello di minacce (capo D) è manifestamente
infondato. Infatti, la Corte di appello indica correttamente le ragioni per le
quali ravvisa il concorso formale dei reati (pagina 3 dell’impugnata sentenza),
concorso riconosciuto dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte anche
se si integri il reato di ingiuria o minaccia e di molestia con la medesima

di Catania, con sentenza del 03/02/2012, in riforma dell’impugnata sentenza

azione (si veda ad esempio: Sez. 1, Sentenza n. 16729 del 21/03/2001 Ud. dep. 24/04/2001 – Rv. 218721; Sez. 1, Sentenza n. 21158 del 03/05/2007
Ud. – dep. 29/05/2007 – Rv. 236732); e quindi a maggior ragione sussiste il
concorso formale dei reati se, come nel caso di specie, l’azione che integra il
reato di minaccia non sia la medesima di quella che integra il reato di
molestie (reato, comunque, dichiarato prescritto).

comma 1, cod. proc. pen., perché propongono censure attinenti al merito
della decisione impugnata, congruamente giustificata.
Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione
non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la
migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass.
Sez. 4″ sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass.
Sez. 5″ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez.
2″ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).
Inoltre gli altri motivi di ricorso sono inammissibili anche per violazione
dell’art. 591 lettera c) in relazione all’art. 581 lettera c) cod. proc. pen.,
perché le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono
prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento
impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto
di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il
Giudice di merito ha — dopo un corretto richiamo per relationem alla sentenza
di primo grado – con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione,
evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente
per i reati di cui sopra (le dichiarazioni della P.O. e gli altri elementi probatori
acquisiti che, tra l’altro, supportano le dichiarazioni della P.O.). La Corte di
appello ha, poi, ben motivato sulla credibilità della Persona Offesa,
conducendo un’attenta e accurata indagine sulla sua credibilità soggettiva ed
oggettiva (condotta in modo ancor più rigoroso in quanto la stessa Corte di
merito rileva che la P.O. si è costituita P.C.; si veda pagina 4 dell’impugnata
sentenza). Si deve sottolineare che sul punto questa Suprema Corte ha più

Gli altri motivi di ricorso sono inammissibili per violazione dell’art. 606,

volte affermato il principio — condiviso dal Collegio – secondo il quale la
testimonianza della persona offesa, ove ritenuta intrinsecamente attendibile,
costituisce una vera e propria fonte di prova, purchè la relativa valutazione
sia sorretta da un’adeguata motivazione, che dia conto dei criteri adottati e
dei risultati acquisiti (Sez. 3, Sentenza n. 22848 del 27/03/2003 Ud. – dep.
23/05/2003 – Rv. 225232; Sez. 6, Sentenza n. 27322 del 14/04/2008 Ud. –

in correità; pertanto non sono certo necessari, per le sue dichiarazioni, i
riscontri esterni — che comunque nel caso di specie ci sono e sono stati
correttamente evidenziati alle pagine 4 e 5 dell’impugnata sentenza – richiesti
dall’articolo 192, III comma, c.p.p.; quindi è necessario solo accertare — come
è avvenuto nell’impugnata sentenza – la credibilità della persona offesa (Si
veda, fra le tante, Sez. 4, Sentenza n. 30422 del 21/06/2005 Ud. dep. 10/08/2005 – Rv. 232018). Infine, si deve rilevare che in tema di prove,
la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una
questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di
legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni
(che, come detto, non si riscontrano nel caso di specie; Sez. 3, Sentenza n.
8382 del 22/01/2008 Ud. – dep. 25/02/2008 – Rv. 239342). Per quanto
riguarda, infine, il reato sub D la Corte di appello alle predette pagine 4 e 5
indica — in modo incensurabile in questa sede — perché ritiene che i
messaggi inviati siano riconducibili all’imputato.
Appare quindi evidente che tutte le critiche del ricorrente finiscono per
porsi come valutazioni di merito e, come tali, non esaminabili in questa sede.
Questa Corte ha, infatti, più volte affermato, anche a Sezioni Unite, che
l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un
orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla corte di
Cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a
riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il Giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo
convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula,
infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli

dep. 04/07/2008 – Rv. 240524). Persona offesa che è teste e non chiamante

elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in
via esclusiva, riservata al Giudice di merito, senza che possa integrare il vizio
di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più
adeguata, valutazione delle risultanze processuali”. (Sez. U, Sentenza n.
2110 del 23/11/1995 Ud. – dep. 23/02/1996 – Rv. 203767; Sez. U, Sentenza
n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996 Rv. 205621; Sez. U, Sentenza n.
6402 del 30/04/1997 Ud. – dep. 02/07/1997 – Rv. 207945; Sez. 1, Sentenza

n. 2884 del 20/01/2000 Ud. – dep. 09/03/2000 – Rv. 215504; Sez. 1,
Sentenza n. 8738 del 23/01/2003 Ud. – dep. 21/02/2003 – Rv. 223572).
A ciò si aggiunga che l’imputato contrappone, come già rilevato, solo
generiche contestazioni in fatto, che non tengono conto delle argomentazioni
della Corte di appello. In particolare non evidenzia alcuna illogicità o
contraddizione nella motivazione della Corte territoriale allorchè conferma la
decisione del Tribunale. In proposito questa Corte Suprema ha più volte
affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di
ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le
ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che
conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod. proc. pen. all’inammissibilità
del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004 – rv 230634). Infine, si deve osservare che l’illogicità della
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere percepibile ictu oculi,
dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica
evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (che tra l’altro nel caso
di specie non si ravvisano).
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

w

5

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deliberato in camera di consiglio, il 07/06/2013.

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