Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35452 del 07/06/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 35452 Anno 2013
Presidente: GALLO DOMENICO
Relatore: IASILLO ADRIANO

SENTENZA
Sul ricorso proposto dall’Avvocato Francesco Nucara, quale difensore di
Macheda Domenico (n. il 21/10/1965), avverso la sentenza della Corte
d’appello di Reggio Calabria, Sezione penale, in data 07/06/2012.
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere
Adriano lasillo.
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, dottoressa Elisabetta
Cesqui, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
Udito l’Avvocato Francesco Nucara – difensore di Macheda Domenico — che
ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Data Udienza: 07/06/2013

OSSERVA:

Con sentenza del 29/05/2009, il Tribunale di Reggio Calabria dichiarò
Macheda Domenico responsabile del reato di ricettazione della targa di un
motociclo di illecita provenienza e lo condannò alla pena di anni 2 di
reclusione ed € 516,00 di multa.

appello di Reggio Calabria, con sentenza del 07/06/2012, confermò la
decisione di primo grado.
Ricorre per Cassazione Francesco Nucara, quale difensore di Macheda
Domenico, eccependo la nullità delle due sentenze di merito ex art. 522 del
cod. proc. penale. Infatti, all’imputato era stata contestata la ricettazione del
motociclo e solo all’udienza del 16.03.2009 è stata modificata l’imputazione
ritenendo che la ricettazione riguardasse la sola targa. Fatto questo nuovo e
per il quale l’imputato contumace — al quale è stato notificato il verbale
contenente la nuova contestazione — non ha mai prestato il consenso a
procedere oltre. Eccepisce che, in ogni caso, la contestazione suppletiva di
un reato concorrente non emergente dalla istruttoria dibattimentale, ma già
conosciuto — come nel caso di specie – dal P.M., è illegittima e comporta la
nullità del relativo giudizio perché lesiva del diritto alla difesa. Deduce, infine,
la mancanza e la contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta
penale responsabilità del Macheda. Infatti, non è stato mai dimostrato che il
Macheda fosse il proprietario del motociclo, come ha, invece, sostenuto la
Corte di appello; evidenzia a sostegno di quanto sopra le dichiarazioni
contrastanti dei Carabinieri escussi (Appuntato Morabito e Maresciallo
Sorace).
Il difensore del ricorrente conclude, quindi, per l’annullamento
dell’impugnata sentenza.

motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato. Infatti per quanto riguarda la
questione di diritto relativa alla modifica della contestazione operata dal P.M.
nell’udienza del 16.03.2009 (all’inizio l’imputato era accusato di ricettazione
dell’intero motociclo, nella data sopra indicata si specificava che oggetto

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte di

della ricettazione era solo la targa apposta sul motociclo dell’imputato) e in
particolare se la contestazione riguardi un fatto nuovo o un fatto diverso, si
deve rilevare che il difensore del Macheda ripropone nel ricorso gli stessi
argomenti contenuti nell’appello citando perfino la stessa giurisprudenza (si
vedano ad esempio le pagine 1, 2 e 3 dell’appello e le pagine 2 e 3 del
ricorso dove si riportano le medesime massime) e non tiene, quindi,

dei principi di diritto di questa Corte citati nella stessa sentenza impugnata. A
conferma di quanto sopra si può, ora, passare ad esaminare la
giurisprudenza citata dal ricorrente; si deve escludere da tale esame la
sentenza di questa Corte del 2005, citata a pagina 3 del ricorso, perché non
ha nulla a che vedere con il caso di specie. Infatti, tale sentenza ha per
oggetto il reato di riciclaggio commesso mediante l’apposizione di una targa
per ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa del mezzo,
mentre nel caso di specie il motociclo non è di provenienza illecita e solo la
targa, sullo stesso apposta, è di provenienza furtiva. Il difensore del Macheda
cita la sentenza della sezione prima, n. 4655 del 10/12/2004 Ud. (dep.
08/02/2005, Rv. 230771) nella quale si afferma che sussiste la violazione del
principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il fatto ritenuto in
sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di
incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria
trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell’addebito nei confronti dell’imputato, tanto da realizzare un’incertezza
sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti
della difesa (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che costituisse violazione
dell’art. 521 cod. proc. pen. la circostanza che l’imputato, tratto a giudizio in
ordine al reato di cessione di armi, sia stato poi condannato a seguito della
confessione avvenuta in dibattimento e delle prove desunte dal contenuto
delle intercettazioni telefoniche anche in ordine al reato di porto di armi, mai
espressamente contestato nel capo di imputazione formulato nei suoi
confronti, nè allo stesso implicitamente riconducibile, stante la giuridica
autonomia di una fattispecie rispetto all’altra). Orbene la Corte di appello con
motivazione pienamente condivisibile rileva che nel caso di esame erano
rimasti invariati tutti gli elementi costitutivi del fatto e che era stato modificato

assolutamente conto di quanto affermato dalla Corte di appello sul punto e

solo l’oggetto della ricettazione, poiché con la nuova contestazione esso era
limitato a un solo elemento del motociclo e cioè la targa. In proposito la Corte
di merito cita il principio di questa Corte secondo il quale in tema di
modificazione dell’imputazione, fatto diverso – che legittima la contestazione
all’imputato presente anche senza il suo consenso – è quello con connotati
materiali anche difformi da quelli descritti nel capo d’imputazione ma
storicamente invariato nei suoi elementi costitutivi (condotta, oggetto), inclusi

i riferimenti spazio-temporali, sicché, se questi sono alterati, si tratta di un
fatto nuovo (Sez. 4, Sentenza n. 5405 del 10/02/1998 Ud. – dep. 11/05/1998 Rv. 210845). A ciò si deve aggiungere che questa Suprema Corte ha
affermato che la locuzione “fatto nuovo”, di cui all’art. 518 cod. proc. pen.,
denota un accadimento assolutamente difforme da quello contestato, e
l’emergere in dibattimento di accuse in nessun modo rintracciabili nel decreto
di rinvio o di citazione a giudizio. Per “fatto diverso” – che, ai sensi dell’art.
516 cod. proc. pen., consente la modifica dell’imputazione – deve, invece,
intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando
esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da
quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una
puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato. Nella
stessa sentenza (sotto citata per esteso) questa Corte ha precisato che il
complesso delle disposizioni che regolano il regime delle nuove contestazioni
mira allo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto sostanziale
dell’accusa e quindi a garantire il pieno esercizio del diritto di difesa
dell’imputato: ne consegue che non si configura violazione al riguardo
quando la modifica, rispetto all’accusa originaria, non abbia in alcun modo
menomato le possibilità di difesa (Sez. 2, Sentenza n. 18868 del 10/02/2012
Ud. – dep. 17/05/2012 – Rv. 252822). Non si deve dimenticare in proposito
che nel caso di specie la modifica del capo di imputazione effettuata dal P.M.
in data 16.03.2009 è stata notificata all’imputato e il difensore ha chiesto un
termine a difesa concesso dal Tribunale. Lo stesso difensore dell’imputato
ha, poi, esplicato appieno il suo mandato difensivo ponendo, ad esempio,
domande ai testi proprio sulla specificazione del capo di imputazione di cui
sopra. Sul punto si deve ricordare che nel giudizio di legittimità, il diritto del
ricorrente a essere informato in modo dettagliato della natura e dei motivi
4

dell’accusa elevata a suo carico deve ritenersi soddisfatto, quando
l’eventualità di una diversa qualificazione giuridica del fatto operata dal
giudice “ex officio” sia stata rappresentata al difensore dell’imputato con un
atto del Collegio, in modo che la parte abbia potuto beneficiare di un congruo
termine per apprestare la propria difesa (fattispecie in cui l’eventualità di una
diversa qualificazione giuridica è stata rappresentata nelle conclusioni e nella

della Corte di legittimità, con la quale era stata revocata una propria
precedente pronuncia limitatamente alla riqualificazione dei fatti corruttivi
come reati di corruzione in atti giudiziari, disponendo che si procedesse ad
una nuova trattazione del ricorso proposto contro la decisione assunta dal
giudice di secondo grado; Sez. 6, Sentenza n. 36323 del 25/05/2009 Ud. dep. 18/09/2009 – Rv. 244974). Inoltre, la garanzia del contraddittorio in
ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice è
assicurata pur quando l’imputato abbia comunque avuto modo di interloquire
sul tema in una delle fasi del procedimento, ed in particolare anche
nell’ipotesi in cui la diversa qualificazione giuridica abbia formato oggetto di
discussione nel corso del procedimento incidentale “de libertate” (Sez. 1,
Sentenza n. 9091 del 18/02/2010 Ud. – dep. 08/03/2010 – Rv. 246494).
L’imputato non ha, quindi, subito alcuna lesione del suo diritto di difesa
avendo ricevuto integrale contestazione dell’addebito formulato nei suoi
confronti e avendo esercitato con pienezza, con riferimento allo stesso, i suoi
diritti difensivi. Invero quello che rileva è che il fatto contestato rimanga lo
stesso e che l’imputato abbia avuto la concreta possibilità di difendersi.
Limite perfettamente osservato nel caso di specie, come correttamente
rilevato dal Giudice di merito. Si rammenta in proposito, in conformità a un
consolidato orientamento di questa S.C., che le norme che disciplinano le
nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra
l’imputazione contestata e la sentenza (artt. 516 e 522 c.p.p.), avendo lo
scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il
pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con
riferimento alle finalità alle quali sono dirette, cosicché non possono ritenersi
violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto
nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di

sintesi delle statuizioni riportate nel dispositivo di una precedente sentenza

difesa dell’imputato (pregiudizio che, nel caso di specie, non si è verificato).
In tale prospettiva per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione
radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si
riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad
un’incertezza sull’oggetto della contestazione da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei diritti della difesa. Ne consegue che l’indagine volta ad

pedissequo confronto puramente letterale fra imputazione e decisione
perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto
insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, si sia trovato
nella condizione concreta di difendersi in ordine al fatto ritenuto in sentenza
(si vedano: Sez. U, Sentenza n. 16 del 19/06/1996 Cc. – dep. 22/10/1996
Rv. 205619; Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010 Ud. – dep.
13/10/2010 – Rv. 248051). In particolare è stato affermato da questa stessa
sezione (si veda Sez. 2, Sentenza n. 5329 del 15/03/2000 Ud. – dep.
05/05/2000 – Rv. 215903; si vedano anche Sez. 6, Sentenza n. 33077 del
11/06/2003 Ud. – dep. 05/08/2003 – Rv. 226532; Sez. 6, Sentenza n. 20118
del 26/02/2010 Ud. – dep. 26/05/2010 – Rv. 247330) che, qualora venga
dedotta la violazione del principio di necessaria correlazione fra accusa
contestata e sentenza, al fine di verificare se vi sia stata una trasformazione,
sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito, non soltanto
va apprezzato in concreto se nella contestazione, considerata nella sua
interezza, non si rinvengano gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato
ritenuto in sentenza, ma anche se una tale trasformazione, sostituzione o
variazione abbia realmente inciso sul diritto di difesa dell’imputato, e cioè se
egli si sia trovato o meno nella condizione concreta di potersi difendere. È il
caso di osservare che, sulla base delle considerazioni appena svolte, risulta
ormai superato quell’orientamento giurisprudenziale che, in tema di
qualificazione giuridica del fatto, fa leva sul criterio della “continenza del
fatto” (rv 219818; rv 152273; rv 179538). Invero, secondo l’orientamento
giurisprudenziale più recente, condiviso dal Collegio, il criterio da applicare è
quello “teleologico” del mancato pregiudizio per la difesa dell’imputato, quale
limitazione di derivazione giurisprudenziale del generale principio di cui
all’art. 521 c.p.p., funzionale alla garanzia del contraddittorio, con la

9Th

accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel mero

precisazione che il criterio è operante a prescindere dalle strategie
processuali dell’imputato e dalla opzione, dallo stesso eventualmente
effettuata, di non fornire una propria versione dei fatti, atteso che la concreta
possibilità di difendersi consiste non soltanto nella scelta di rispondere o
meno alle domande delle parti, ma nell’insieme delle opzioni difensive che si
esplicano in tutte le fasi e gli stati del giudizio (Sez. 5, Sentenza n. 3161 del

del 16/09/2008 Ud. – dep. 15/10/2008 – Rv. 241446). Ne consegue che
quando nel capo di imputazione originario siano contestati gli elementi
fondamentali idonei a porre l’imputato in condizione di difendersi dal fatto poi
ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di doverosa
correlazione tra accusa e sentenza. Né può incidere negativamente su
quanto sopra il principio citato dal difensore secondo il quale in tema di reati
o circostanze aggravanti risultanti dal dibattimento (art.517 cod. proc. pen.),
perché si possa procedere a contestazione suppletiva occorre che la
sussistenza dei reati concorrenti emerga nel corso dell’istruzione
dibattimentale e non anche quando essi siano già noti, ma non se ne sia fatta
menzione alcuna nella formulazione del capo di imputazione. La lettera della
norma non appare suscettibile di interpretazione estensiva e, per contro, una
contestazione suppletiva di fatti già noti all’accusa viola il principio di difesa,
sia sotto il profilo che si tratta di una imputazione “a sorpresa” in ordine alla
quale poteva essere predisposta una difesa anticipata, sia sotto il profilo che
vengono poste nel nulla le possibilità di eventualmente adire i riti alternativi
quali il patteggiamento o il giudizio abbreviato una volta conosciuta “ab
origine” l’intera estensione dell’imputazione. Ne consegue che la
contestazione suppletiva di un reato concorrente non emergente dalla
istruttoria dibattimentale, ma già conosciuto dal P.M., è illegittima e comporta
la nullità del relativo giudizio perché lesiva del diritto alla difesa (Sez. 6,
Sentenza n. 6251 del 22/03/2000 Ud. – dep. 29/05/2000 – Rv. 216313).
Infatti, come già detto, il principio guida da seguire sul punto è che non vi sia
alcuna violazione del principio della diritto di difesa; è quindi ovvio che la
giurisprudenza successiva – a quella citata nell’atto di appello e ripetuta nel
ricorso di cui sopra, ma a dire il vero anche precedente e addirittura a
Sezioni Unite — e ormai consolidata abbia invece affermato che in tema di

g

13/12/2007 Ud. – dep. 21/01/2008 – Rv. 238345; Sez. 2, Sentenza n. 38889

istruzione dibattimentale, la contestazione di un reato concorrente o di una
circostanza aggravante è consentita sulla base anche dei soli elementi già
acquisiti in fase di indagini preliminari, non soltanto perché non vi è alcun
limite temporale all’esercizio del potere di modificare l’imputazione in
dibattimento, ma anche perché, da un lato, nel caso di reato concorrente, il
procedimento dovrebbe retrocedere alla fase delle indagini preliminari e,

nell’imputazione originaria risulterebbe irreparabile, essendo la medesima
insuscettibile di formare oggetto di un autonomo giudizio penale (Sez. U,
Sentenza n. 4 del 28/10/1998 Ud. . dep. 11/03/1999 – Rv. 212757; Sez. 6,
Sentenza n. 21085 del 28/01/2004 Ud. – dep. 05/05/2004 – Rv. 229807; Sez.
5, Sentenza n. 32797 del 20/06/2006 Ud. – dep. 03/10/2006 – Rv. 235071;
Sez. 2, Sentenza n. 3192 del 08/01/2009 Ud. – dep. 22/01/2009 – Rv.
242672; Sez. 6, Sentenza n. 44980 del 22/09/2009 Ud. – dep. 24/11/2009 Rv. 245284). Inoltre, questa Suprema Corte ha affermato che in tema di
nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione di cui all’ad. 516 cod. proc.
pen. può essere effettuata dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima
dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, e quindi anche sulla sola
base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini
preliminari (Sez. 1, Sentenza n. 24050 del 14/05/2009 Ud. – dep. 11/06/2009
– Rv. 243802; si veda anche la già citata sentenza della Sez. 6, Sentenza n.
44980 del 22/09/2009 Ud. – dep. 24/11/2009 – Rv. 245284 che ha per oggetto
sia la modifica dell’imputazione di cui all’ad. 516 cod. proc. pen. sia la
contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui
all’ad. 517 cod. proc. pen.; Sez. 2, Sentenza n. 10820 del 15/12/2011 Ud. dep. 20/03/2012 – Rv. 252167).
Manifestamente infondato è anche il resto del ricorso; infatti, si fonda su
motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.
In punto di diritto occorre rilevare che la sentenza di primo grado e
quella di appello, quando non vi è difformità sulle conclusioni raggiunte, si
integrano vicendevolmente, formando un tutt’uno organico ed inscindibile,
una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione. Pertanto, il giudice di appello, in
caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per

dall’altro, nel caso di circostanza aggravante, la mancata contestazione

relationem a quest’ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non
oggetto di specifiche censure (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4827 del 28/4/1994
– ud. 18/3/1994 – Rv. 198613; Sez. 6, Sentenza n. 11421 del 25/11/1995 – ud.
29/9/1995 – Rv. 203073). Inoltre, la giurisprudenza di questa Suprema Corte
ritiene che non possano giustificare l’annullamento minime incongruenze
argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad

sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile
carattere di decisività e non risultino, di per sè, obiettivamente e
intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione. In argomento, si
è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione
concernente l’analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza
dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui
essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso
probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione
di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza
decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica
dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso,
implicitamente confutati (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3751 del 23/3/2000 – ud.
15/2/2000 – Rv. 215722; Sez. 5, Sentenza n. 3980 del 15/10/2003 – Ud.
23/9/2003) Rv.226230, Fabrizi; Sez. 5, Sentenza n. 7572 del 11/6/1999 (ud.
22/4/1999 – Rv. 213643). Le posizioni della giurisprudenza di legittimità
rivelano, dunque, che non è considerata automatica causa di annullamento
la motivazione incompleta nè quella implicita quando l’apparato logico
relativo agli elementi probatori ritenuti rilevanti costituisca diretta ed
inequivoca confutazione degli elementi non menzionati, a meno che questi
presentino determinante efficienza e concludenza probatoria, tanto da
giustificare, di per sè, una differente ricostruzione del fatto e da ribaltare gli
esiti della valutazione delle prove.
In applicazione di tali principi, può osservarsi che la sentenza di
secondo grado recepisce in modo critico e valutativo la sentenza di primo
grado, correttamente limitandosi a ripercorrere e ad approfondire alcuni
aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della
difesa, omettendo, in modo del tutto legittimo in applicazione dei principi

avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione,

sopra enunciati, di esaminare quelle doglianze dell’atto di appello che
avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice.
Infatti, la Corte di appello ha ben evidenziato le ragioni dalle quali ricava che
il motociclo sul quale era apposta la targa di provenienza furtiva fosse del
Macheda (dichiarazioni della P.G.). Si deve osservare che sul punto il
difensore dell’imputato crea confusione allorchè sovrappone le dichiarazioni

dispiegate nel tempo. Infatti, dagli atti emerge che l’imputato — che si trovava
a bordo di un’autovettura insieme ad altre due persone – è stato fermato e
controllato da un appartenente alla Guardia di Finanza che aveva notato la
macchina di cui sopra sostare a lungo davanti alla Caserma dove era
parcheggiato anche un motociclo da molto tempo (si veda la trascrizione
delle dichiarazioni dell’appuntato Morabito, alle pagine da 5 a 7, registrate
all’udienza del 16.03.2009). In tale circostanza nel corso del controllo il
Macheda disse di trovarsi in quel luogo perché era venuto a riprendersi il
motociclo; motociclo sul quale era apposta la targa, poi, risultata di
provenienza furtiva. Si deve in proposito rilevare che quanto riferito dal teste
sulle motivazioni della presenza il loco addotte dall’odierno imputato sono
perfettamente utilizzabili. Infatti, il finanziere si è limitato ad un semplice
controllo delle persone a bordo dell’autovettura, ancora non sapeva che la
targa del motociclo fosse rubata e comunque non era ancora iniziato un
procedimento (si veda in proposito l’art 62 del c.p.p. che stabilisce il divieto di
testimoniare sulle dichiarazione dell’imputato solo se rese nel corso del
procedimento). In proposito questa Corte ha affermato, ad esempio, che la
perquisizione prevista dall’art. 103 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope) si
differenzia da quella prevista dal codice di rito penale perché, diversamente
da quest’ultima, non presuppone necessariamente una preesistente notizia
di reato e non è quindi funzionale alla ricerca e all’acquisizione della prova di
un reato di cui consti già l’esistenza, ma può rientrare anche in un’attività di
carattere preventivo e comunque collocata in ambito più ampio di quella di
polizia giudiziaria. Ne consegue che essa non comporta l’automatica
attribuzione della qualità di indagato alla persona nei cui confronti è eseguita,
con le relative conseguenze sul piano processuale e, in particolare, su quello

dei vari agenti operanti, operazioni di P.G. che si sono, ovviamente,

del diritto di difesa (nella specie si era lamentata l’utilizzazione – dalla Corte
ritenuta legittima – delle dichiarazioni rese alla p.g. dal soggetto perquisito
che era stato sentito in veste di persona informata dei fatti e non di indagato;
Sez. 6, Sentenza n. 24621 del 14/04/2003 Ud. – dep. 05/06/2003 – Rv.
225571; Sez. 4, Sentenza n. 2517 del 28/09/2006 Cc. -dep. 24/01/2007 Rv. 235888). Inoltre, è ammissibile la testimonianza indiretta dell’ufficiale o
agente di P.G. sulle dichiarazioni di contenuto narrativo rese dall’imputato al

testimone al di fuori della sede processuale, ovvero prima dell’inizio delle
indagini (Sez. 6, Sentenza n. 1764 del 09/10/2012 Ud. – dep. 15/01/2013 Rv. 254180). Ma, a prescindere da quanto sopra, si deve rilevare che il
ricorrente, successivamente al controllo di cui sopra (eseguito dall’appuntato
Morabito e finanziere scelto Errera; si veda in proposito la pagina 7 della
trascrizione di cui sopra), si è presentato al comando della G. di F. — dove
proseguiva la verbalizzazione di quanto accaduto — ed ha esibito il certificato
di idoneità tecnico del motociclo e ne ha rivendicato la proprietà. Il M. llo
Sorace aggiunge, nel corso della sua testimonianza, che la rivendicazione
della proprietà del motociclo da parte del Macheda fu ritenuta credibile
proprio perché lo stesso era in possesso del libretto del ciclomotore (si veda
la trascrizione delle dichiarazioni del Maresciallo Sorace, alle pagine 4 e 5,
registrate all’udienza del 25.05.2009, nel quale il teste riferisce di aver svolto
la sua attività con il finanziere Galli e M.Ilo Verardo. La dichiarazione del Mila
Sorace inizia — a differenza di quanto riportato a pagina 5 del ricorso — nel
seguente modo: “Successivamente ai primi momenti della verbalizzazione il
Sig. Macheda si presentò presso il Comando..”). Quindi il M.Ilo Sorace
riferisce un fatto: il Macheda era in possesso del certificato di idoneità tecnico
del motociclo e lo ha esibito allo stesso Maresciallo; da tale fatto certo i
Giudici di merito hanno tratto il legittimo convincimento del possesso, da
parte dell’imputato, del motociclo e della targa — di provenienza furtiva —
apposta sullo stesso. Pertanto i Giudici di merito dopo aver ritenuto provato il
possesso del motociclo da parte dell’imputato hanno correttamente
evidenziato che il ricorrente non ha mai fornito una giustificazione plausibile
sul possesso della targa di provenienza delittuosa apposta sul predetto
motociclo. Come ben rilevato dai Giudici di merito, questa Suprema Corte ha,
in proposito, più volte affermato il principio – condiviso dal Collegio – che ai
11

fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell’elemento
soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell’omessa – o non
attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è
sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile
con un acquisto in mala fede (Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 27/02/1997 Ud. dep. 13/03/1997 – Rv. 207313; Sez. 2, Sentenza n. 16949 del 27/02/2003
Ud. – dep. 10/04/2003 – Rv. 224634).

Orbene a fronte di quanto sopra esposto, la difesa dell’imputato
contrappone, quindi, solo generiche contestazioni in fatto, che non tengono
conto delle argomentazioni della Corte di appello. In particolare non
evidenzia alcuna illogicità o contraddizione nella motivazione della Corte
territoriale allorchè conferma la decisione del Tribunale. In proposito questa
Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che
sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi
l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione
impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non
può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel
vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591, comma primo, lett. c), cod.
proc. pen. all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n.
39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634). Infine, si deve
osservare che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve
essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato
a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime
incongruenze (che tra l’altro nel caso di specie non si ravvisano).
Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in
favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di
colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

PQM

12

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Il Consigliere estensore
Dottor Adriano lasillo

Il Pr idente
Dottor D6iFienico Ga
1/4••••”.

eL5-

Così deliberato in camera di consiglio, il 07/06/2013.

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