Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35428 del 24/06/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 35428 Anno 2014
Presidente: CORTESE ARTURO
Relatore: BONITO FRANCESCO MARIA SILVIO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DONAGLIO ANDREA N. IL 29/12/1963
avverso la sentenza n. 20/2012 CORTE ASSISE APPELLO di
VENEZIA, del 22/02/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA SILVIO BONITO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
212
<—L7 \jse 6Z, Udito, per la parte civile, l'Avv Udit, i klifensorekvv. t r C-'14 -t: D Hr_ A -4—c ks.2-9,0 Data Udienza: 24/06/2014 1. Con sentenza del 22 febbraio 2013 la Corte di assise di appello di Venezia confermava quella resa il 18 gennaio 2012, nelle forme del giudizio abbreviato, dal GUP del tribunale della stessa sede con la quale Donaglio Andrea, imputato dell'omicidio, aggravato dai futili motivi, di Vanin Roberta, colpita oltre sessanta volte in varie parti del corpo con un coltello da cucina, era stato condannato alla pena di anni sedici di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante e con la diminuente del rito. I giudici di merito pervenivano alla loro decisione sulla base delle dichiarazioni confessorie dell'imputato, rese nella immediatezza dei fatti, delle testimonianze di amici e parenti della vittima e dell'imputato, dell'esame autoptico della vittima medesima e degli accertamenti di polizia eseguiti nella immediatezza dei fatti. La vicenda veniva in tal guisa ricostruita: l'imputato e la vittima, insieme gestori di un esercizio commerciale denominato "biovita", dopo una relazione sentimentale pluriennale caratterizzata anche da un periodo di comune convivenza, per iniziativa della vittima, stanca delle continue infedeltà del compagno, avevano deciso di porre termine al loro legame; tanto accadeva circa sei mesi prima dei fatti di causa; i due avevano però mantenuto il comune impegno nella gestione dell'esercizio commerciale, intestato alla Vanin e nel quale collaborava part-time il Donaglio; negli ultimi tempi la Vanin aveva conosciuto tale Caramello Federico, con il quale si era sentimentalmente legata; tale relazione non era stata ben accettata dall'imputato, il quale aveva per questo dato vita a condotte di insistente petulanza nei confronti della ex compagna; il giorno del delitto, all'esito di una lite all'interno del negozio, la Vanin, alla presenza del prevenuto, aveva avuto una telefonata con i genitori di quest'ultimo, nel corso della quale aveva manifestato tutto il suo fastidio per il comportamento dell'ex compagno e collaboratore in affari, manifestando la sua ferma intenzione di allontanarlo anche dall'esercizio commerciale; conclusa questa telefonata l'imputato aveva iniziato dapprima a picchiare la vittima, contro la quale aveva poi indirizzato ripetutamente oltre sessanta fendenti con un coltello da cucina; al padre del Donaglio, nel frattempo sopraggiunto dopo la telefonata, si era quindi presentata la scena della vittima martoriata con accanto l'imputato, il quale si era a sua volta colpito all'addome con un secondo coltello reperito in loco. La Corte, ritenuto in fatto e considerato in diritto Date le circostanze fattuali caratterizzanti la vicenda sulle quali non appaiono esservi stati apprezzabili contrasti, il processo ha conosciuto i suoi profili di più significativo contraddittorio, per quanto di interesse nel presente giudizio, in relazione al riconoscimento dell'aggravante dei futili motivi, al quale si collega la compiuta identificazione del movente dell'azione delittuosa, ed in relazione al trattamento sanzionatorio, avendo il giudice di prime cure determinato la pena assumendo come pena base il massimo edittale ed avendo la corte territoriale confermato siffatta statuizione. Quanto al primo profilo hanno i giudici di entrambi i gradi di merito argomentato nel senso che, nella fattispecie, non ricorre l'ipotesi del delitto passionale determinato da un esasperato sentimento di gelosia, ma —piuttosto- quella del delitto determinato dalla intolleranza per una sorta di insubordinazione della donna rispetto ad un sentimento affettivo-patrimoniale dell'imputato, in uno con la reazione dopo l'ultima telefonata che poneva in forse il suo impegno collaborativo nel negozio della vittima. Quanto, invece, al trattamento sanzionatorio, valorizzavano le istanze giudiziarie di merito la gravità del fatto e l'efferatezza delle modalità esecutive del delitto. 2. Avverso la sentenza di secondo grado ricorre per cassazione l'imputato, assistito dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa due articolati motivi di impugnazione. 2.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente violazione di legge in relazione all'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 1 c.p. e vizio della motivazione sul punto, in particolare osservando: 1. la sentenza impugnata, peraltro richiamando quella di prime cure, precisa che l'omicidio per cui è causa si inserisce in un contesto relazionale ed emotivo tra vittima ed imputato nel quale l'uno vorrebbe che la donna non instaurasse nuove relazioni affettive; al di là delle parole utilizzate, i giudicanti hanno evocato nulla più che il sentimento della gelosia, con ciò evidenziandosi l'errore nel quale già era incorso il GUP relativamente alla contrapposizione dell'aggravante dei futili motivi al movente passionale; tanto risulta confermato anche dalle testimonianze evocate dalla corte territoriale, dalle quali emerge che la relazione di recente intrapresa dalla vittima aveva determinato nell'imputato uno stato di depressione e di dolore; cionondimeno, per argomentare l'aggravante in esame, il giudice territoriale ha affermato che l'imputato avrebbe reagito alla nuova relazione della 2 sua ex compagna non già per motivi di gelosia, eppertanto passionali (come è noto non riferibili alla nozione codicistica di motivi futili), ma perché mosso da un sentimento di punizione a lungo covato; tale conclusione non trova conforto nelle testimonianze richiamate in sentenza, quelle di Favaro Annamaria, Vanin Danilo, D'Alberto Diana, Bedendo Cristina; sul punto e cioè sulla discrasia tra il contenuto univoco delle testimonianze e le conclusioni della motivazione impugnata, nulla ha argomentato il giudice territoriale; il giudice di legittimità ha più volte ribadito l'incompatibilità dei futili motivi ed il movente di carattere passionale; nella sentenza si collega l'aggravante in parola all'affermazione, indimostrata, che l'imputato sarebbe stato mosso all'azione delittuosa perché intollerante rispetto ad una sorta di insubordinazione della donna, e ciò in contrasto con le testimonianze di Agostini Elisabetta, Bedendo Cristina, Michielan Paola e Stella Sebastiano; 2. il giudice di secondo grado ha poi richiamato per relationem la motivazione di prime cure, per poi giungere a conclusioni opposte; tanto perché il giudice di primo grado ha consapevolmente affermato che la congerie di sentimenti che animò l'imputato, alla luce della evoluzione socioculturale in atto e secondo il sentire ormai comune, non può che risolversi in una inaccettabile accentuazione della intensità del dolo, per questo giustificativa dell'applicazione dell'aggravante in parola; questa motivazione non è accettabile perché il movente passionale non è futile, ma quello che va qui rilevato, è che il giudice di appello, pur richiamando l'argomentare del GUP, perviene alla conclusione di diritto che comunque il delitto passionale, con tanto di citazione giurisprudenziale, non può essere aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 1 c.p.; di qui la totale contraddizione tra le due motivazioni, quella di prime cure e quella di appello; 3. in conclusione il giudice territoriale ha sostanzialmente applicato l'aggravante in discussione ad un delitto cagionato da movente passionale, con ciò palesemente violando l'art. 61 n. 1 c.p. e la interpretazione costante di tale norma da parte della giurisprudenza di legittimità. 2.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente violazione dell'art. 133 c.p. e vizio della motivazione sul punto, in particolare osservando: il giudice di primo grado ha indicato la pena base per la determinazione della pena finale nel massimo edittale e cioè in anni 24 di reclusione; le motivate censure al riguardo dell'imputato appellante non hanno trovato ascolto da parte del giudice dell'appello, il quale ha valorizzato, a sostegno del suo convincimento, la minorata difesa nella quale si sarebbe trovata la vittima al momento della aggressione e la particolare intensità della volontà omicidiaria; sul primo punto, quello relativo alla 3 minorata difesa, si evidenzia l'incongruenza dell'affermazione accusatoria collegata alla chiusura del negozio ed all'ingombro dato dal denaro nelle mani della vittima, giacchè l'istituto della minorata difesa va collegata a ben altre circostanze; sul secondo punto non tiene conto la corte territoriale che l'imputato agì in preda ad una reazione a corto circuito, dapprima a mani nude eppoi armandosi di coltello trovato lì vicino e non già cercato, come immotivatamente affermato, anche se circostanza —questa- irrilevante ai fini in discorso, dalla sentenza di appello; l'episodio passato, valorizzato in sentenza per dimostrare la capacità a delinquere del prevenuto, del coltello lanciato nel negozio dall'imputato senza colpire la Vanin, appare più uno sfogo estemporaneo che espressivo di significato minatorio, mentre gli episodi assimilati, sempre in sentenza, ad attività di stalker, si riducono ad alcune telefonate peraltro gradite dalla vittima; di qui il vizio motivazionale sul punto in relazione alla valutazione della intensità del dolo, pacificamente qualificato come d'impeto, ed alla mancanza di apprezzabile capacità a delinquere dell'imputato, temi invano diffusamente trattati in sede di gravame; d'altra parte la riconosciuta reazione a corto circuito che determinò l'agire del prevenuto di per sé scolorisce la volontà dell'evento e la sua previsione; tutte le testimonianze concordano sul carattere pacifico e sulla normalità di vita dell'imputato. 3. Le ragioni di doglianza non sono condivisibili. La difesa ricorrente ripropone in questa sede di legittimità le medesime questioni invano poste in sede di appello, cercando di confutare le ragioni con le quali il giudice di secondo grado le ha contrastate. 3.1.1 Quanto all'aggravante di cui all'art. 61 n. 1 c.p., giova richiamare il consolidato indirizzo interpretativo di questa corte secondo cui essa ricorre ogni qualvolta la determinazione criminosa sia determinata nell'agente da uno stimolo esterno lieve e banale, sproporzionato rispetto alla gravità del reato, tale da apparire assolutamente insufficiente a provocare l'azione suddetta. La spinta del reato, nei termini di cui innanzi, deve, pertanto, risultare priva di quel minimo di consistenza che la coscienza collettiva esige al fine di operare un collegamento logicamente accettabile con l'azione posta in essere, tanto da integrare un mero pretesto, ovvero un'occasione per l'agente di dare sfogo al suo impulso criminale. Nell'anzidetta prospettiva, in ogni caso, è necessario che il giudizio sulla futilità del motivo sia riferito non già ad un comportamento medio, bensì avuto riguardo agli elementi concreti del caso nonché alle connotazioni culturali del soggetto giudicato, al contesto 4 sociale, al particolare momento in cui il fatto si è verificato ed ai fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta criminosa (Cass., Sez. VI, 02/07/2012, n. 28111; Cass., Sez. I, 13/10/2010, n. 39261). Proprio per le caratteristiche dell'istituto come innanzi precisate, per la configurabilità della circostanza aggravante dei motivi futili (ovvero abbietti) occorre che il movente del reato sia identificato con certezza, non potendo l'ambiguità probatoria sul punto ritorcersi in danno dell'imputato (Cass., Sez. I, 11/11/2008, n. 45326; Cass., Sez. I, 14/12/2000, n. 5864, Gattellari). 3.1.2 Orbene, tutto ciò premesso, ritiene il Collegio che dei principi esposti abbia fatto la corte territoriale puntuale e motivata applicazione. Alla tesi difensiva infatti, volta, con encomiabile abilità dialettica, a ricondurre il movente del delitto e comunque le ragioni che determinarono il raptus omicidiario alla gelosia onde poi prospettare una fattispecie di delitto passionale, per comune insegnamento incompatibile con l'aggravante di cui all'art. 61 n. 1 c.p., sia in prime cure che in grado di appello è stata contrapposta una ricostruzione dei fatti, dei rapporti tra vittima ed imputato, di ragioni più o meno lontane alla base dell'azione omicidiaria ovvero di essa scatenante, assai diversa. I giudici di merito hanno infatti escluso il movente passionale con coerenza logica priva di contraddizioni, richiamando le stesse dichiarazioni dell'imputato, il quale, nel descrivere il suo rapporto sentimentale con la vittima, ha dichiarato che non era più innamorato della ex compagna, che per questo era divenuto ormai insofferente della passata loro convivenza, che di comune accordo avevano deciso di separarsi pur continuando la collaborazione nell'esercizio dell'attività commerciale, che per questo viveva continue infedeltà (provate abbondantemente anche aliunde). Di qui la prima premessa del sillogismo decisionale che ha negato natura di delitto passionale alla fattispecie in esame, sul rilievo che il sentimento emergente dalle esposte premesse è quello espressivo di una antistorica pretesa, nonostante la separazione ed i tradimenti, nonostante il rifiuto della routine precedente esplicitamente affermata, che la ex compagna non avesse una sua vita, vissuta quest'ultima nella sua nuova fase, come una ferita narcisista. Ed al rilievo difensivo secondo cui tutto questo deve ricondursi comunque ad un sentimento di gelosia, la corte di merito ha contrapposto la precisazione, richiamando passi della relazione peritale svolta sulle condizioni psichiche del prevenuto, che il Donaglio, per un verso, sentiva "Roberta" come "un suo oggetto 5 personale" e, per altro verso, aveva fuso rapporto sentimentale e rapporto di lavoro. Per questo, annotano opportunamente i giudici territoriali, dopo la separazione l'imputato temeva di essere allontanato dal posto di lavoro ed in questa situazione si trovava il Donaglio al momento dell'ultima telefonata trai suoi genitori e la vittima, quando ebbe modo di ascoltare l'ultima minaccia della Vanin di non volere più tra i piedi l'ex compagno, neppure in negozio. Lo stesso imputato ha peraltro dichiarato che il raptus omicidiario gli è scattato proprio quando ascoltò siffatto proponimento della vittima. Ed allora, in tale contesto motivazionale articolato e diffuso, ribadisce la Corte che la funzione dell'indagine di legittimità sulla motivazione non è quella di sindacare l'intrinseca attendibilità dei risultati dell'interpretazione delle prove e di attingere il merito dell'analisi ricostruttiva dei fatti, bensì quella, del tutto diversa, di accertare se gli elementi probatori posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte, verificando la congruenza dei passaggi logici. Ne consegue che, ad una logica valutazione dei fatti operata dal giudice di merito, non può quello di legittimità opporne un'altra, ancorché altrettanto logica (Cass. 5.12.02 Schiavone; Cass. 6.05.03 Curcillo; Sez. 4, n. 15227 dell'i 1/4/2008, Baratti, Rv.239735; cfr. in termini: Cass. sez. 2^, sentenza n. 7380 dell'11/01/2007, dep. il 22/02/2007, Rv. 235716, imp. Messina; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061). Palese appare allora, nel caso in esame, la natura di merito delle argomentazioni difensive, giacché volte le medesime, a fronte di un'ampia e lodevolmente esaustiva motivazione del giudice territoriale, a differentemente valutare gli elementi di prova puntualmente da esso richiamati e valorizzati, onde poi accreditare uno svolgimento della vicenda del tutto alternativo a quello logicamente ritenuto con la sentenza impugnata. Il delitto all'esame della Corte non fu affatto di natura passionale, ma conseguenza di più pulsioni convergenti in un momento scatenante, tutte però riferibili alla nozione giuridica di motivo futile secondo la lettura ermeneutica innanzi richiamata: il sentimento di possesso di una persona che non si ama più, che si tradiva in continuazione, con la quale si era interrotto di comune accordo una convivenza ormai sentita come insopportabile, da una parte, il rifiuto di un proponimento di separazione anche sul posto di lavoro, legittimo e giustificato dal suo comportamento ormai non più tollerabile, dall'altra. Nulla insomma o, se si vuole, con l'acuta definizione dei giudici di merito, nulla più che l'insulto di un 6 malinteso sentimento di narcisismo personale in un soggetto di cultura apprezzabile, inserito in un contesto sociale ed economico proprio della media borghesia settentrionale. In conclusione, come da motivato e logico convincimento del giudice territoriale, nulla a fronte di un raptus omicida di rara violenza e crudeltà in danno di una giovane donna senza colpe. 3.2 Manifestamente infondato si appalesa infine la censura relativa al trattamento sanzionatorio, ed in particolare all'assunzione del massimo edittale come pena base per la determinazione della pena poi in concreto inflitta. In primo luogo si rammenta che in tema di determinazione della misura della pena, il giudice del merito, con la enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell'art. 133 cod. pen., assolve adeguatamente all'obbligo della motivazione: tale valutazione, infatti, rientra nella sua discrezionalità e non postula una analitica esposizione dei criteri adottati per addivenirvi in concreto (Cass.„ Sez. II, 19/03/2008, n. 12749). Di più, anche il bilanciamento delle circostanze aggravanti con quelle attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., sicché è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena (Cass.„ Sez. III, 17/10/2007, n. 1182. D'altra parte è sufficiente motivazione ai fini in discussione quella che, per giustificare la decisione assunta, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass., Sez. Unite, 25/02/2010, n. 10713). In applicazione delle esposte lezioni giurisprudenziali deve quindi concludersi che appare adeguatamente motivata la scelta del giudice di merito il quale, in costanza di un omicidio efferato per le sue modalità esecutive, ritenga di individuare la pena base per la determinazione di quella finale da infliggere, il massimo edittale di anni ventiquattro, valutazione questa ancor più solida se inquadrata nella complessiva delibazione in ordine al trattamento sanzionatorio, caratterizzato dalla concessione delle attenuanti generiche con le quali i giudici territoriali hanno neutralizzato l'effetto sulla pena finale della contestata e ritenuta aggravante. 4. Alla stregua delle esposte considerazioni il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ai sensi dell'art. 616 c.p.p.. 7 P. Q. M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In Roma, addì 24 giugno 2014

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