Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35358 del 03/07/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35358 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: SABEONE GERARDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
TALIENTO ANGELO N. IL 17/05/1973
SCAREL CRISTIAN N. IL 16/04/1982
CANTORO ROCCO N. IL 14/09/1984
avverso la sentenza n. 1587/2010 CORTE APPELLO di LECCE, del
29/02/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/07/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GERARDO SABEONE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. il talouCe
– h4che ha concluso per
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Udito, per la parte civile, l’Avv
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Data Udienza: 03/07/2013

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Lecce, con sentenza del 29 febbraio 2012, ha
sostanzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Brindisi, Sezione
Distaccata di Ostuni, con la quale Taliento Angelo, Scarel Cristian e Cantoro

ingiurie e minacce gravi in danno di Anzid Omar.
Trattasi di un episodio, occorso il 17 marzo 2007 presso un bar di Ostuni,
allorquando quattro giovani avevano trascinato la parte offesa fuori da un bar,
materialmente il solo Scarel, e lo avevano ingiuriato, minacciato e violentemente
percosso, cagionandogli un trauma cranico facciale, la frattura delle ossa nasali
con deviazione del setto nasale e ferite lacero contuse alla regione frontale.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli
imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, lamentando:
Taliento Angelo
a) una erronea applicazione della legge e un difetto di motivazione nel
ritenere sussistente il delitto di violenza privata pur in presenza del delitto di
lesioni personali nonché la qualifica di concorrente per carenza di elemento
soggettivo;
b) una erronea applicazione delle legge e un difetto di motivazione in
merito alla mancata applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 114 cod.pen.
Scarel Cristia n
a) una mancata valutazione della prova e una mancanza di motivazione in
merito all’affermazione della propria penale responsabilità.
Cantoro Rocco
a)

una motivazione illogica in merito all’affermazione della penale

responsabilità per l’ascritto reato di violenza privata al di là di ogni ragionevole
dubbio;
b) una motivazione illogica in merito al mancato riconoscimento delle
attenuanti generiche e di quella di cui all’articolo 114 cod.pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Giova rammentare, in punto di diritto e in via generale, come in tema
di ricorso per cassazione, quando ci si trovi dinanzi a una “doppia pronuncia
1

Rocco erano stati condannati per i delitti di violenza privata, lesioni personali,

conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale
segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento
possa essere rilevato in sede di legittimità, ex articolo 606 cod.proc.pen., comma
1, lett. e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione)
che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta
introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di

Inoltre, in tema di sentenza di appello, non sussiste mancanza o vizio
della motivazione allorquando i Giudici di secondo grado, in conseguenza della
completezza e della correttezza dell’indagine svolta in primo grado, nonché della
corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo
Giudice.
Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello,
fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e
inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della
congruità della motivazione (v. Cass. Sez. II 15 maggio 2008 n. 19947).
La sentenza di merito non è, poi, tenuta a compiere un’analisi
approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame
dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche
attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in
modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni
fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate,
siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. Cass. Sez. IV 13
maggio 2011 n. 26660).
2. Quanto al primo motivo del ricorso Taliento, in diritto si afferma
pacificamente come il delitto di violenza privata sia un reato complesso, vale a
dire che suo elemento costitutivo sia una condotta che, isolatamente
considerata, costituirebbe l’elemento materiale di un altro reato (v. Cass. Sez. V
17 ottobre 2008 n. 43219).
L’agente, infatti, ai sensi dell’articolo 610 cod.pen., può utilizzare,
alternativamente o congiuntamente, violenza e minaccia per raggiungere il suo
scopo, coartando fisicamente o psicologicamente la vittima.
Conseguentemente, quando in un unico contesto, vengano posti in essere
comportamenti violenti oppure minacciosi, ed entrambe queste condotte siano
finalizzate a imporre alla vittima un tacere o un pati non è dubbio che resti
integrata la ipotesi di violenza privata, se l’agente raggiunge il suo scopo ovvero
2

secondo grado (v. Cass. Sez. IV 10 febbraio 2009 n. 20395).

quella del tentativo del predetto reato, se lo scopo non è raggiunto (v. Cass. Sez.
V 26 gennaio 2006 n. 7214 e da ultimo Sez. II 18 gennaio 2011 n. 3609).
Occorre, poi, ricordare che il reato contestato ex articolo 610 cod.pen., ha
ad oggetto la libertà morale dell’individuo che, come condiviso dagli interpreti, è
aspetto fondamentale della libertà individuale, da intendersi come possibilità di
determinarsi in modo spontaneo, tra l’altro orientando i propri comportamenti in

la libertà psichica e morale contro la costrizione a fare, tollerare od omettere
qualche cosa.
Ne consegue che la condotta consistita nell’afferrare la parte lesa
all’interno del bar ove si trovava per trascinarla al di fuori non può che avere la
valenza attribuitale dai Giudici di merito in relazione alla cornice giuridica
dell’articolo 610 cod.pen., e cioè quella di costringere colui che stazionava
all’interno di un locale a perdere il potere di decidere la propria collocazione
spaziale, tipica limitazione della libertà psichica della vittima.
Come, poi, correttamente e logicamente motivato dalla Corte territoriale
la costrizione ad uscire dal bar è avvenuta prima della aggressione all’esterno,
per cui non rimane assorbita nei successivi reati di lesioni personali e minacce
che hanno diverso oggetto giuridico e che, di conseguenza, non rimangono
inglobati nel più grave reato di violenza privata.
A ciò si aggiunga, con riferimento al contestato concorso del ricorrente
nell’ascritto reato, come la successiva aggressione commessa da tutti gli
imputati vale ad ascrivere agli stessi anche la condotta di uno solo di essi
nell’iniziale reato di violenza privata commesso proprio per realizzare le
successive lesioni, minacce ed ingiurie.
Occorre, quindi, rifarsi ai principi in tema di concezione unitaria del
concorso di persone nel reato, accolta dall’articolo 110 cod.pen., secondo i quali
l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi
comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o
alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione
collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell’altrui proposito
criminoso o l’agevolazione dell’opera dei concorrenti; in sostanza, quando il
partecipe, per effetto della sua condotta cosciente idonea a facilitarne
l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, egli
risponde non solo degli atti da lui compiuti, ma anche di quelli posti in essere
dagli altri, convergenti nell’offesa all’interesse protetto dalla norma incriminatrice
(v. a partire da Cass. Sez. V 9 gennaio 1990 n. 7961).
3

conformità delle determinazioni liberamente prese: in breve, oggetto di tutela è

Ne segue che non è neppure necessario un previo accordo diretto alla
causazione dell’evento, ben potendo il concorso esplicarsi in un intervento di
carattere estemporaneo sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui, ancora in
corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (v. Cass. Sez. V 15 maggio
2009 n. 25894).
Sul piano soggettivo sono in ogni caso necessari, per configurare

consapevolezza dell’altrui partecipazione (v. Cass. Sez. VI 5 dicembre 2003 n.
1271).
Non è invece punibile la semplice connivenza, consistente
nell’atteggiamento meramente passivo mantenuto con la coscienza che altri stia
per commettere o commetta un reato, quando non esiste uno specifico obbligo di
impedirlo (v. a partire da Cass. Sez. I 12 febbraio 1997 n. 4800).
Ai fini della configurabilità della fattispecie del concorso di persone nel
reato, per concludere, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo
quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento lesivo,
ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il
reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso ma con
maggiori incertezze di riuscita o difficoltà.
Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si
manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile
alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o
l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della
sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità
della produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue
anche le condotte degli altri concorrenti (v. Cass. Sez. V 12 gennaio 2012 n.
14991).
Nella specie, la Corte territoriale ha dato logicamente conto, sulla scorta
dei principi dianzi indicati, dell’attività concorrenziale posta in essere dall’odierno
ricorrente (v. in particolare la penultima pagina della motivazione) e non può
richiedersi a questa Corte di legittimità di dare una diversa lettura alla situazione
di fatto così come accertata nella sede di merito.
A sua volta, i presupposti del cosiddetto concorso anomalo, ossia del
concorso del concorrente nel reato diverso da quello voluto, sono l’adesione
dell’agente ad un reato concorsualmente voluto, la commissione da parte di altro
concorrente di un reato diverso e più grave e l’esistenza di un nesso causale e
psicologico tra l’azione del compartecipe al reato inizialmente voluto ed il diverso
4

responsabilità a titolo di concorso, il dolo che caratterizza il reato commesso e la

reato poi commesso dal concorrente, che deve essere prevedibile, in quanto
logico sviluppo di quello concordato, senza, peraltro, che l’agente lo abbia
effettivamente voluto o ne abbia accettato il rischio, perché in tal caso vi
sarebbe, come in effetti accertato, concorso ordinario ex articolo 110 cod.pen. a
titolo di dolo diretto od eventuale (v. da ultimo Cass. Sez. VI 29 aprile 2010 n.
32209); la responsabilità concorsuale in questione resta esclusa soltanto se il

imprevedibilità delle circostanze che lo hanno cagionato (v. Cass. Sez. H 10
novembre 2006 n. 40156 e Sez. V 26 maggio 2011 n. 36135) e nella specie di
tutto si è parlato nei giudizi di merito tranne che di eccezionalità o
imprevedibilità dell’evento non voluto.
3. Quanto al secondo motivo, oltre ad osservarsi come la richiesta di
applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 114 cod.pen. non sembra sia stata
oggetto dei motivi dell’appello del Taliento, in ogni caso, nell’impugnata decisione
(v. ultima pagina della motivazione) si sono, poi, affrontati gli ulteriori profili
della minima partecipazione del coimputato “Cantoro o di altri”, tale da
determinare la chiesta applicazione della diminuente di cui all’articolo 114 cod.
pen. che, di converso, è stata correttamente esclusa sulla base dell’esame delle
circostanze di fatto degli accadimenti, che non può più rimettersi in discussione
avanti questa Corte di legittimità.
4.

Quanto al ricorso

Scarel, esso si appalesa addirittura ai limiti

dell’inammissibilità.
Giova premettere in diritto, come ribadito costantemente da questa Corte,
pur dopo la nuova formulazione dell’articolo 606 cod.proc.pen., lettera e),
novellato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, articolo 8, il sindacato del Giudice
di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato debba
essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia:
a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a
rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione
adottata;
b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi
punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell’applicazione delle regole della logica;
c)

non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da

insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche
tra le affermazioni in essa contenute;

5

reato diverso consiste in un evento atipico, con conseguente eccezionalità ed

d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente
inficiata sotto il profilo logico.
Il Giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla
persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e

del processo”.
Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di
una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata
pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente
unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza
della “resistenza” logica del ragionamento del Giudice.
Al Giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa.
Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
Giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai Giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal Giudice per giungere alla decisione.
Nella specie, da un lato, la Corte territoriale ha logicamente motivato
sull’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, conformandosi
all’identica valutazione operata dal primo Giudice, e, inoltre, ha risposto ai rilievi
dell’appellante.
D’altra parte, il ricorso odierno è del tutto generico in quanto si sostiene
semplicemente che le accuse mosse all’imputato siano “prive di fondamento” in
contrasto con quanto logicamente espresso dai Giudici del merito.
5. Il ricorso Cantoro non merita, a sua volta, accoglimento.
Quanto alla sussistenza dell’ascritto reato di violenza privata possono
sicuramente ripetersi le medesime considerazioni dianzi espresse in relazione al
ricorso Taliento.

6

internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti

Per quel che concerne, poi, il significato da attribuire alla locuzione “oltre
ogni ragionevole dubbio”, già adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte
Suprema (v. per tutte, Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002 n. 30328) e
successivamente recepita nel testo novellato dell’articolo 533 cod.proc.pen.
quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di
responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica

principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza e la cultura della
prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una
funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il
“ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre
il proscioglimento a norma dell’articolo 530 cod.proc.pen., comma 2, sicché non
si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova
rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito
il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario,
secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza
processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (v. da ultimo Cass. Sez. H
9 novembre 2012 n. 7035).
Il che è quanto accaduto nella specie, secondo la ricostruzione dei fatti
operata dai Giudici del merito, che non può essere rimessa in discussione avanti
questa Corte di legittimità in quanto sorretta da congrua e logica motivazione.
6. La mancata concessione delle attenuanti generiche appare ispirata alla
pacifica giurisprudenza di questa Corte che afferma: “ai fini della concessione o
del diniego delle circostanze attenuanti generiche è sufficiente che il Giudice di
merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’articolo 133 cod.pen.,
che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio
ed anche un solo elemento, che attiene alla personalità del colpevole o all’entità
del reato ed alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per
negare o concedere le attenuanti medesime” (v. da ultimo, Cass. Sez. H 18
gennaio 2011 n. 3609); nella specie la Corte ha motivato sulla base della
personalità dell’imputato, come ricavabile dal suo comportamento processuale ed
extraprocessuale e tanto è sufficiente per considerare rispettato il canone
motivazionale dianzi indicato.
Infine, anche per il ricorrente Cantoro, può ripetersi quanto dianzi
espresso circa la mancata applicazione dell’attenuante dell’articolo 114 cod.pen.,

7

espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il

a cagione della mancata evidenza della prestazione nell’attività concorsuale
criminosa di un contributo di minima rilevanza.
7. In definitiva, dal rigetto dei ricorsi deriva altresì la condanna di ciascun
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Corte, rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 3/7/2013.

P.T.M.

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