Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35355 del 20/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35355 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: SABEONE GERARDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
DANISE EMILIA N. IL 04/01/1970
avverso la sentenza n. 1012/2012 CORTE APPELLO di SALERNO, del
04/10/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 20/06/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GERARDO SABEONE
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 144/(40 FtjAtm
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che ha concluso per )

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Udito, per la parte civile, l’Avv
Uditi difensor Avv.

Data Udienza: 20/06/2013

RITENUTO IN FATI-0
1. La Corte di Appello di Salerno, con sentenza del 4 ottobre 2012, ha
confermato la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore del 22 marzo 2012 con
la quale Danise Emilia era stata condannata per i delitti di tentato furto
aggravato e di evasione.

personalmente, lamentando, quale unico sostanziale motivo, una violazione di
legge ed una motivazione illogica in merito all’affermazione della penale
responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio nonché all’applicazione della
contestata recidiva di cui all’articolo 99 quarto comma cod.pen. e alla mancata
applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 4 cod.pen..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondati i relativi
motivi.
2. In primo luogo, la ricorrente non si è discostata affatto da quanto già
ha formato oggetto dei motivi di appello, che sono stati disattesi dalla Corte
territoriale con motivazione del tutto logica.
3. In secondo luogo, come ribadito costantemente da questa Corte (v. a
partire da Sez. VI 15 marzo 2006 n. 10951 fino di recente a Sez. V 6 ottobre
2009 n. 44914), pur dopo la nuova formulazione dell’articolo 606 cod.proc.pen.,
lettera e), novellato dalla Legge 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del
Giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato
deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia:
a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a
rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione
adottata;
b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi
punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori
nell’applicazione delle regole della logica;
c)

non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da

insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche
tra le affermazioni in essa contenute;
d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo”
(indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno
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2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputata,

del ricorso per Cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente
inficiata sotto il profilo logico.
Al Giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla
motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal Giudice di
merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità

Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo
Giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale
dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei
provvedimenti adottati dai Giudici di merito rispetti sempre uno standard di
intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico
seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Nella specie, non è consentito rimettere in discussione quanto acclarato in
punto di fatto da entrambi i Giudici del merito, che hanno valutato il medesimo
materiale probatorio e che ne hanno tratto le medesime conseguenze in tema di
qualificazione giuridica dei fatti stessi.
Per quel che concerne, inoltre, il significato da attribuire alla locuzione
“oltre ogni ragionevole dubbio”, già adoperata dalla giurisprudenza di questa
Corte Suprema (v. per tutte, Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002 n. 30328) e
successivamente recepita nel testo novellato dell’articolo 533 cod.proc.pen.,
quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di
responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica
espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il
principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza e la cultura della
prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.
Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una
funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il
“ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre
il proscioglimento a norma dell’articolo 530 cod.proc.pen., comma 2, sicché non
si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova
rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito
il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario,
secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza
processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (v. da ultimo Cass. Sez. H
9 novembre 2012 n. 7035).
2

esplicativa.

La Corte territoriale si è, nella specie, attenuta alla suddetta affermazione
di diritto, quanto alla posizione dell’odierna ricorrente e pertanto non può essere
censurata avanti questa Corte.
4. Quanto al trattamento sanzionatorio, del pari, la Corte territoriale ha
motivato sia in merito alla mancata concessione dell’attenuante del danno di
particolare tenuità che all’applicazione, di converso, della contestata recidiva per

legittimità può essere validamente mossa all’impugnata sentenza.
Quanto alla prima problematica la Corte non condivide, però, il giudizio di
astratta incompatibilità col delitto tentato, espresso dal Giudice di merito in base
ad enunciazioni giurisprudenziali tutt’altro che unanimi (in senso contrario
vedasi, tra le più recenti, v. Cass. Sez. H 22 maggio 2009 n. 39837 e Sez. V 4
giugno 2010 n. 35827).
Va detto, piuttosto, che l’applicazione di detta attenuante al tentativo
presuppone che il Giudice, avuto riguardo alle concrete modalità dell’azione e a
tutte le circostanze di fatto desumibili dalle risultanze processuali, accerti che il
reato, qualora fosse stato consumato, avrebbe cagionato alla vittima un danno di
speciale tenuità; ciò richiede, evidentemente, che l’apprezzamento del Giudice si
appunti su un bene di valore particolarmente tenue, il quale sia specificamente
individuato quale oggetto del tentato furto: il che non è dato nel caso di specie
(anello d’oro), sicché l’attenuante non può essere applicata in concreto.
La decisione assunta sul punto dalla Corte di merito va perciò confermata,
sia pur correggendosene la motivazione nei modi suesposti.
5. Dall’inammissibilità del ricorso deriva, in conclusione, la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché di una somma di denaro
in favore della Cassa delle Ammende.
P.T. M.
La Corte, dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore
della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 20/6/2013.

cui, non essendo neppure stata irrogata una pena illegale, nessuna censura di

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