Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35280 del 05/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35280 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D’AMICO ANTONINO N. IL 12/06/1945
avverso l’ordinanza n. 2203/2012 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del
09/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 05/06/2013

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Gioacchino Izzo, ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso;
per il ricorrente è presente l’avv. Vittorio Del Monte, anche in sostituzione del
codifensore, avv. Emilia Lodato, che chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

riesame e ha confermato l’ordinanza 10 ottobre 2012 del Gip del medesimo
Tribunale, applicativa della misura cautelare della custodia in carcere a D’Amico
Antonino, in ordine al reato ex art. 416 bis, commi da 1 a 5 cod. pen., perché
accusato di far parte, insieme ad altre persone, tra cui il figlio Giuseppe,
dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, operante da anni sul territorio
piemontese ed avente propri referenti in strutture organizzate insediate in Calabria
– i cui componenti sono sottoposti a procedimento giudiziario, svolto dall’A.G. di
Reggio Calabria – costituita da articolazioni territoriali denominate “locali”, tra cui
locale di Nichelino, di Chivasso e di Livorno Ferraris (in cui sono collocati i D’Amico).
Questa associazione, secondo gli inquirenti, avvalendosi della forza di intimidazione
del vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di
omertà, ha lo scopo di commettere delitti in materia di armi, esplosivi e
munizionamento, contro la vita e l’incolumità fisica, contro il patrimonio, contro
l’ordine pubblico economico, nonché reati volti ad ostacolare il libero esercizio del
voto.
2. Il presente procedimento nasce da indagini, che sono state dagli inquirenti
denominate “Colpo di coda”, aventi ad oggetto il “locale” di Chivasso – la cui
emanazione è il locale Livorno Ferraris – e costituiscono lo sviluppo delle indagini,
denominate “Minotauro”, aventi ad oggetto gli insediamenti della ‘ndrangheta nel
Torinese e nei territori limitrofi.
In entrambi i procedimenti nati da queste indagini, gli inquirenti hanno riconosciuto
a un dato fattuale (la raccolta di denaro destinato ai detenuti) l’efficacia
dimostrativa della partecipazione, da parte di chi vi presenzi come operatore o
come beneficiario, all’associazione predetta, nelle sue varie articolazioni.
3. Nell’interesse del D’Amico è stato presentato ricorso – integrato da successiva
memoria difensiva del 22 maggio 2013 – per violazione di legge, deducendo
violazione dell’art. 606 lettera B ed E cod. proc. pen., per inosservanza o erronea
applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, in relazione agli artt.
192, 273 e 275, comma 2, cod. proc. pen., in ordine alla sussistenza dei gravi indizi
di colpevolezza, desunti dalla conversazione intercettata fra terze persone (il Marino

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1. Con ordinanza 9 novembre 2012, il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta di

Pietro ed il figlio Antonino) in cui, secondo il provvedimento impugnato, si farebbe
riferimento anche alla persona del D’Amico – con l’espressione “il compare Nino e
Giuseppe” – tra le persone tenute al versamento del denaro in favore delle famiglie
degli affiliati detenuti; tale elemento sarebbe riscontrato da ulteriori elementi privi
del requisito della specificità.
3.1 La raccolta di denaro, della quale il ricorrente fornisce una interpretazione
alternativa (si tratterebbe di un semplice pensiero legato alla festività natalizia e

indizio della partecipazione ad una associazione mafiosa, perché priva del carattere
della gravità, in assenza di ulteriori acquisizioni significative nell’arco di un lungo
periodo di indagine, quali la partecipazione a conversazioni intercettate o la
frequentazione di altri indagati o la partecipazione a riunioni ed attesa
l’occasionalità della colletta, realizzata solamente una volta. In sostanza si esclude
che nel caso di specie possa affermarsi la sussistenza dei cd. indicatori fattuali,
evidenziati dalle Sezioni Unite nella nota sentenza “Mannino” (Sez. U, n. 33748 del
12/07/2005, Mannino, Rv. 231670), che consentono sulla base di attendibili regole
di esperienza, di affermare logicamente l’appartenenza alla consorteria mafiosa,
quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione”
e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la
commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi
concludentia”,

“facta

idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura

dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento,
peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
3.2 Anche gli ulteriori elementi sarebbero privi di valore indiziante; così ad esempio
la conversazione con Marino Pietro, nella quale egli lamenta l’assenza di alcuni
affiliati al funerale di Fotia Lorenzo, non andrebbe inteso come riferito alla
violazione dei doveri di ‘ndrangheta, ma semplicemente a doveri di convivenza
sociale; con riferimento alla partecipazione al summit, il 30 ottobre 2009, presso il
bar “Il Timone”, non sarebbe in alcun modo dimostrata la “riunione”, ma ancora
una volta la qualificazione dell’incontro sarebbe frutto di deduzione logica degli
operanti e dei giudici di merito, poiché dagli atti emerge unicamente la presenza di
una decina di persone in un bar, in orario di apertura al pubblico ed in assenza di
qualsivoglia ulteriore accertamento. Su entrambi gli elementi è dedotto vizio di
motivazione, perché nel provvedimento impugnato, secondo il ricorso, non si
spiegano le ragioni delle conclusioni cui si perviene.
3.3 Privo di autonomo valore indiziante sarebbe anche il sequestro di armi e
munizioni nell’ambito del procedimento “Minotauro”, legalmente detenute ma
custodite in modo inadeguato, poiché nel procedimento principale non si è mai

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non all’appartenenza comune al clan), non potrebbe, da sola, costituire grave

formulata una accusa di associazione per delinquere al D’Amico, come anche la
conversazione tra Maiolo Cosimo Salvatore e Maiolo Mario Tonino, nella quale si
parla dell’indagato come destinatario del sequestro di armi e non come affiliato.
3.4 il ricorrente contesta anche il valore indiziante della conversazione con Marino
Pietro, laddove si parla dei saluti che Colosimo Paolino porterà per loro conto al
detenuto Trunfio Pasquale e considera privo di significato il sequestro all’atto
dell’esecuzione della custodia cautelare di libri e musicassette sulla ‘ndrangheta,
che rappresenterebbero solo una nota di colore

posti a base della misura.
5. Nella memoria difensiva del 22 maggio 2013 il difensore riprende il tema del
presunto summit di ‘ndrangheta, del 30 ottobre 2009, rappresentando che nel
dibattimento del processo “Minotauro”, all’udienza dell’8 gennaio 2013, il M.Ilo
Messina, del Nucleo Investigativo Carabinieri di Torino, ha smentito che tale
incontro rappresentasse una riunione tra appartenenti al clan, affermando che si
trattò di un semplice incontro in un locale pubblico.
5.1 Si richiama pertanto la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale non si
può logicamente riconoscere alcuno spessore dimostrativo alla mera frequentazione
di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti
d’affari, ovvero ad occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e
in contesti territoriali ristretti. Essi possono configurarsi, allorquando la personalità
dei soggetti fornisca concrete ragioni sull’illiceità dell’attività svolta in comune,
come motivi di sospetto sufficienti per giustificare e indirizzare le indagini, ma non
possono essere valorizzati come prove indirette o logiche (Sez. 6, n. 24469 del
05/05/2009, Bono, Rv. 244382).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e pertanto va rigettato.
1.1 Va premesso che la richiesta di riesame, come mezzo di impugnazione, sia pure
atipico, ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza
cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e
ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo. Ne
consegue che la motivazione della decisione del Tribunale del riesame, dal punto di
vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo,
ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi
necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove,
ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una

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4.1 In definitiva il ricorrente contesta il carattere di certezza e di gravità degli indizi

qualificata probabilità di colpevolezza. In questa chiave di pre-certezza del risultato
degli accertamenti dell’autorità inquirente – non necessariamente sfociante in una
progressiva certezza – allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di
motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla
consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, per partecipazione ad associazione
mafiosa, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla
peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il

ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la
congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti
rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento
delle risultanze probatorie.
1.2 Come è noto, la forma libera che caratterizza la fisionomia del reato associativo
e la mancata tipizzazione della relativa condotta di appartenenza conducono e
ritenere che la tipicità di questo modello associativo risiede solo nella modalità
attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente, modalità che si esprime
nel concetto di “metodo mafioso”, individuato nella forza intimidatrice del vincolo
associativo, nella condizione, di assoggettamento generale dei consociati e specifico
delle vittime, in una determinata parte del territorio e della società, nonché nelle
imprescindibili strutture (offensive e difensive) funzionali a rendere operativa senza soluzione di continuità e senza irrecuperabili flessioni – la gestione
dell’egemonia economica, politica e di costume, nella propria area di competenza.
Secondo la comune esperienza, il generale fenomeno mafioso si manifesta nella
proliferazione, autonoma o geneticamente derivata da altre associazioni
preesistenti, di articolazioni territoriali, nel cui ambito i vari gruppi criminosi entrano
in rapporto di cooperazione, di concorrenza, di conflittualità
Un gruppo avente natura di associazione mafiosa si presenta quindi caratterizzato,
nella consolidata storiografia giudiziaria nel campo mafioso, da un nucleo di
associati, da un programma criminoso, da una proiezione territoriale della propria
forza intimidatrice, da una o più tipologie di condotte lecite e illecite, svolte in un
molteplice fronte, in cui le adesioni e le collusione sono accompagnate da avversari
e contrapposizioni insanabili. In questa proiezione collettiva e corale alla
commissione di fatti criminosi, che possono infrangere sia le norme dello Stato sia
gli interessi di associazioni concorrenti (per materia e per territorio) hanno
acquistato rilievo – agli occhi dei consociati e conseguentemente all’attenzione degli
inquirenti dello Stato – vincoli di fedeltà, di reciproca assistenza tra gli adepti
dell’associazione, operanti – oltre che nello scontro con i gruppi contendenti – nello
scontro, perdente, con il potere repressivo dello Stato, esercitato con i

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giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto

provvedimenti, processuali o definitivi, di privazione della libertà personale di alcuni
aderenti.
1.3 Questo aspetto organizzativo dell’associazione mafiosa di difesa, rispetto alla
rivincita della legge penale, ha messo in luce – nei processi aventi ad oggetto il
crimine associativo – un dato patrimoniale utile ai fini dell’individuazione
dell’associazione della ricostruzione del rapporto intercorrente tra gli indagati e
l’associazione medesima: la inclusione dei primi tra i retribuiti con i profitti
criminali. Tale circolazione di denaro – in nome della solidarietà e della resistenza

storiografia giudiziaria – alla considerazione che trattasi della corresponsione al
detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti, sia pure con limitata
potestà di azione.
1.4 Proprio il suindicato aspetto organizzativo di difesa mafiosa (la presenza degli
indagati nella raccolta e nella distribuzione di denaro, in funzione di riparazione dei
guasti creati dall’intervento punitivo dello Stato) ha ottenuto dai magistrati del
presente procedimento il riconoscimento di dato illuminante della sussistenza
dell’associazione mafiosa e della partecipazione ad essa dei ricorrenti, così come è
stato delineato nel capo di imputazione. Tale circolazione di denaro ha portato il Gip
e il Tribunale del riesame alla considerazione che trattasi della corresponsione al
detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti.
Il Tribunale del riesame di Torino ha quindi confermato la razionale considerazione,
secondo cui la presenza di alcuni indagati tra i partecipi alla raccolta e alla
distribuzione del fondo solidarietà detenuti abbia efficacia indiziaria della
partecipazione, da parte dell’operatore o del beneficiario, all’associazione predetta,
nelle sue varie articolazioni, anche perché la raccolta di denaro non è giustificata da
solidarietà familiare, in quanto gli inquirenti dimostrano di aver accertato che i
versamenti sono stati effettuati da persone che non sono legate da rapporti di
parentela ai beneficiari. In base alle dichiarazioni di collaboratori, di cui è stata
verificata l’affidabilità, gli inquirenti hanno raggiunto il convincimento che sussiste
l’obbligo degli aderenti di aiutare economicamente la famiglia, i cui componenti
sono detenuti; da questo dato gli inquirenti hanno tratto la seguente
considerazione: se partecipare alle attività di sostegno dei consociati in carcere
costituisce un preciso obbligo di quelli liberi, ne consegue che tutti coloro che senza essere indicati come soggetti di distinti rapporti definiti altri con

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alla legalità – ha condotto razionalmente, all’interno della ormai consolidata

l’associazione – abbiano partecipato ad una colletta, sono consociati.
1.5 Secondo l’ordinanza del Tribunale del riesame “La colletta deve intendersi
inequivocabilmente indicatore fattuale, da quale desumere la compenetrazione di
tutti i partecipi nel tessuto organizzativo associativo e, al tempo stesso, prova
dell’affiliazione, in quanto i non associati, per quanto legati da stretta amicizia, non
vi possono essere ammessi” (pagina 25); il fulcro di questo convincimento deriva
dalle intercettazioni di conversazioni ambientali, intercorse tra Marino Pietro personaggio intraneo ad alto livello nell’associazione – e il figlio Antonino – nelle

autori e degli importi dei versamenti, nonché dei beneficiari e dell’importo delle
somme ad essi destinato. In queste conversazioni si parla di una raccolta di denaro,
proveniente da 13 persone, che si autotassano, per 120 euro; la somma raccolta è
destinata a 8 detenuti, nella misura di 200 euro ciascuno.
Premessa la obbligatorietà della tassa di 120 euro, gravante su ciascuno degli
affiliati liberi, se un affiliato ha un familiare in carcere non deve versarla, per
evitare un inutile giro di moneta: basta versargli 80 euro che, aggiunti
all’ammontare della tassa di 120, realizzeranno l’importo del contributo di
solidarietà mafiosa.
1.6 L’obbligatorietà di contribuire alla raccolta di fondi, a scopo assistenziale (a
beneficio materiale e morale dei detenuti, che percepiscono la persistenza,
nonostante l’esilio carcerario, del rapporto dare/avere con l’associazione) è
affermata anche da Mihaela Andreea Sorocaniuc (legata al sodale Cavallaro
Ferdinando e profondamente inserita nel costume e nelle regole del clan), nelle
dichiarazioni del 27 ottobre 2012, a proposito della regola, gravante sugli “amici”,
dell’aiuto economico in favore dei familiari del detenuto (pagina 24 dell’ordinanza).
Come già anticipato, nella conversazione, avente ad oggetto la distribuzione del
denaro raccolto, intercettata il 18 dicembre 2011, tra Marino Pietro e D’Amico
Antonino, sono nominati alcuni beneficiari.
Successivi accertamenti hanno consentito di individuare il periodo (giorni
immediatamente precedenti al Natale), l’ammontare (200 euro) e i beneficiari
(alcuni detenuti del greppo mafioso) della distribuzione del denaro raccolto tramite
la colletta.
1.7 La presenza a pieno titolo di D’Amico Giuseppe, tra i protagonisti attivi della
colletta, è razionalmente ritenuta in considerazione dal brano della conversazione,
registrata il 14 dicembre 2011, nel corso della quale Pietro, nel contare e ricontare
con il figlio Antonino il numero dei “partecipanti”, allo scopo di arrivare a 13,
scandisce i gruppi familiari impegnati nella raccolta :

“noi siamo tre, due del

compare, cinque, Fotia sei…”. I “due del compare” sono rispettivamente D’Amico
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date 14 e 18 dicembre 2011 e 12 ottobre 2012, aventi ad oggetto l’indicazione di

Antonino, che figura anche in due altre conversazioni (del 18 dicembre 2011, alle
ore 16.03, a bordo dell’auto di Marino Pietro ed alle 17.07; in entrambe i due
protagonisti – D’Amico Antonino e Marino Pietro – contano soldi e discutono dei
beneficiari) e che normalmente viene citato con l’appellativo di “compare”; e
D’Amico Giuseppe, figlio di Antonino.
L’indagato è stato riconosciuto da Bertini Patrizia (convivente dell’affiliato Pititto
Salvatore) come colui che insieme a Marino Pietro le aveva consegnato il denaro
della colletta; egli figura anche tra i partecipanti alla riunione del 30 ottobre 2009

Chivasso, alla quale mai avrebbe potuto partecipare un estraneo all’associazione;
inoltre risulta già indagato nel procedimento cd. “Minotauro” per detenzione di armi
e nel corso della perquisizione a suo carico sono state sequestrate, oltre a 1000
cartucce a pallettoni e pallini, 14 libri sulla ‘ndrangheta, 1 musicassetta intitolata “il
codice della `ndrangheta”; 9 copie di giornali riportanti notizie sulla ‘ndrangheta;
2. Venendo alle specifiche deduzioni difensive, non può condividersi l’assunto
difensivo secondo cui a carico del D’Amico vi sarebbe un unico indizio,
rappresentato dalla conversazione tra i due Marino, in un vuoto probatorio
circostante, poiché, come si è visto, l’indicazione proveniente da quella
conversazione trova conferme importanti in altri elementi logici e fattuali.
2.1 Quanto al verbale dibattimentale dell’8 gennaio 2013, prodotto con i motivi
nuovi, al fine di dimostrare il carattere neutro dell’incontro presso il bar “Il Timone”
del 30 settembre 2009, è evidente che in questa sede non è possibile apprezzarne il
valore ai fini della gravità indiziaria, richiedendo la parte un apprezzamento di
merito che, come si è accennato, è precluso al giudice di legittimità: l’ordinamento
non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi
materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè
alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi
compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute
adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e
insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare,
nonché del Tribunale del riesame (tra le ultime, Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013,
Tiana, Rv. 255460).
2.2 Le residue deduzioni attengono al valore indiziante degli elementi indicati
nell’ordinanza impugnata, per cui possono assumere rilievo solo se rientrino nella
previsione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), se cioè integrino il vizio di
mancanza o manifesta illogicità della motivazione; il che deve escludersi, essendo
il provvedimento impugnato motivato in maniera efficace, conforme a logica e
senza incongruenze.

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presso il Bar “Il Timone”, alla quale risultavano presenti tutti i vertici del “locale” di

3. In conclusione il ricorso va rigettato. Ne consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
La cancelleria curerà gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen.,
comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma il 5 giugno 2013
Il consigliere estensore

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94, comma 1 ter disp.

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