Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35279 del 05/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35279 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: LIGNOLA FERDINANDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D’AMICO GIUSEPPE N. IL 19/02/1983
avverso l’ordinanza n. 2203/2012 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del
09/11/2012
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. FERDINANDO
LIGNOLA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott.

Uditi difensor Avv.;

Data Udienza: 05/06/2013

f

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Gioacchino Izzo, ha concluso
chiedendo il rigetto del ricorso;
per il ricorrente è presente l’avv. Vittorio Del Monte, in sostituzione dell’avv. Emilia
Lodato, che chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

riesame ed ha confermato l’ordinanza 10 ottobre 2012 del Gip del medesimo
Tribunale, applicativa della misura cautelare della custodia in carcere a D’Amico
Giuseppe, in ordine al reato ex art. 416 bis, commi da 1 a 5 cod. pen., perché
accusato di far parte, insieme ad altre persone, tra cui il padre Antonino,
dell’associazione mafiosa denominata `ndrangheta, operante da anni sul territorio
piemontese ed avente propri referenti in strutture organizzate insediate in Calabria
– i cui componenti sono sottoposti a procedimento giudiziario, svolto dall’A.G. di
Reggio Calabria – costituita da articolazioni territoriali denominate “locali”, tra cui il
locale di Nichelino, di Chivasso e di Livorno Ferraris (in cui sono collocati i D’Amico).
Questa associazione, secondo gli inquirenti, avvalendosi della forza di intimidazione
del vincolo associativo e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di
omertà, ha lo scopo di commettere delitti in materia di armi, esplosivi e
munizionamento, contro la vita e l’incolumità fisica, contro il patrimonio, contro
l’ordine pubblico economico, nonché reati volti ad ostacolare il libero esercizio del
voto.
2. Il presente procedimento nasce da indagini, denominate dagli inquirenti “Colpo di
coda”, aventi ad oggetto il “locale” di Chivasso – la cui emanazione è il locale
Livorno Ferraris – e costituiscono lo sviluppo delle indagini, denominate
“Minotauro”, aventi ad oggetto gli insediamenti della ‘ndrangheta nel Torinese e nei
territori limitrofi.
In entrambi i procedimenti nati da queste indagini, gli inquirenti hanno riconosciuto
a un dato fattuale (la raccolta di denaro destinato ai detenuti) l’efficacia
dimostrativa della partecipazione, da parte di chi vi presenzi come operatore o
come beneficiario, all’associazione predetta, nelle sue varie articolazioni.
3. Nell’interesse del D’Amico è stato presentato ricorso – integrato da successiva
memoria difensiva del 22 maggio 2013 – per violazione di legge, deducendo
violazione dell’art. 606 lettera B ed E cod. proc. pen., per inosservanza o erronea
applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, in relazione agli artt.
192, 273, 274 e 275 cod. proc. pen., in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza, desunti unicamente dalla conversazione intercettata fra terze persone

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1. Con ordinanza 9.11.2012, il Tribunale di Torino ha rigettato la richiesta di

(il Marino Pietro ed il figlio Antonino) in cui, secondo il provvedimento impugnato, si
farebbe riferimento anche alla persona del D’Amico – con l’espressione “il compare
Nino e Giuseppe” – tra le persone tenute al versamento del denaro in favore delle
famiglie degli affiliati detenuti.
3.1 Nell’apprezzamento della conversazione, il secondo il ricorso, il Tribunale opera
una opinabile deduzione logica, per risalire alla persona del D’Amico; sul punto si
deduce illogicità e carenza di motivazione, poiché non si spiegano le ragioni di tale

detenuti.
3.2 In ogni caso, anche a voler dare per accertata tale contribuzione, l’elemento
non potrebbe, da solo, costituire grave indizio della partecipazione ad una
associazione mafiosa, attesa l’occasionalità della colletta, realizzata solamente una
volta ed in assenza di ulteriori acquisizioni significative, se si considera il lungo
periodo di indagine, quali la partecipazione a conversazioni intercettate, la
frequentazione di altri indagati o la partecipazione a riunioni.
In sostanza si esclude che nel caso di specie possa affermarsi la sussistenza dei cd.
indicatori fattuali, evidenziati dalle Sezioni Unite nella nota sentenza “Mannino”
(Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670), che consentono sulla
base di attendibili regole di esperienza, di affermare logicamente l’appartenenza
alla consorteria mafiosa, quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle
pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della
qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e
però significativi “facta condudentia”, idonei senza alcun automatismo probatorio a
dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale
riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
3.3 II ricorrente prospetta anche una spiegazione alternativa della raccolta del
denaro, legata appunto alla festività natalizia e non all’appartenenza al clan.
4. Quanto alla partecipazione ad un presunto summit di ‘ndrangheta, il 30 ottobre
2009, presso il bar “Il Timone”, indicata nell’ordinanza come ulteriore elemento
indiziario, non è in alcun modo dimostrato che vi sia stata una “riunione”, ma
ancora una volta ciò è frutto di deduzione logica degli operanti e dei giudici di
merito, poiché dagli atti emerge unicamente la presenza di una decina di persone in
un bar, in orario di apertura al pubblico ed in assenza di qualsivoglia ulteriore
accertamento; pertanto non si può affermare che si tenne una riunione di
‘ndrangheta. Anche su questo punto è dedotto vizio di motivazione.
4.1 In definitiva il ricorrente contesta il carattere di certezza e di gravità degli indizi
posti a base della misura.

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conclusione; inoltre mancherebbe la prova della effettiva contribuzione in favore dei

5. Nella memoria difensiva del 22 maggio 2013, il difensore riprende il tema del
presunto summit di ‘ndrangheta, del 30 ottobre 2009, rappresentando che nel
dibattimento del processo “Minotauro”, all’udienza dell’8 gennaio 2013, il M.Ilo
Messina, del Nucleo Investigativo Carabinieri di Torino, ha smentito che tale
incontro rappresentasse una riunione tra appartenenti al clan, affermando che si
trattò di un semplice incontro in un locale pubblico.
5.1 Si richiama pertanto la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale non si
può logicamente riconoscere alcuno spessore dimostrativo alla mera frequentazione

d’affari, ovvero ad occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e
in contesti territoriali ristretti. Essi possono configurarsi, allorquando la personalità
dei soggetti fornisca concrete ragioni sull’illiceità dell’attività svolta in comune,
come motivi di sospetto sufficienti per giustificare e indirizzare le indagini, ma non
possono essere valorizzati come prove indirette o logiche (Sez. 6, n. 24469 del
05/05/2009, Bono, Rv. 244382).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e pertanto va rigettato.
1.1 Va premesso che la richiesta di riesame, come mezzo di impugnazione, sia pure
atipico, ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza
cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e
ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo. Ne
consegue che la motivazione della decisione del Tribunale del riesame, dal punto di
vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo,
ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi
necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove,
ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una
qualificata probabilità di colpevolezza. In questa chiave di pre-certezza del risultato
degli accertamenti dell’autorità inquirente – non necessariamente sfociante in una
progressiva certezza – allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di
motivazione del provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla
consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, per partecipazione ad associazione
mafiosa, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla
peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il
giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto
ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la
congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti
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di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti

rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento
delle risultanze probatorie.
1.2 Come è noto, la forma libera che caratterizza la fisionomia del reato associativo
e la mancata tipizzazione della relativa condotta di appartenenza conducono e
ritenere che la tipicità di questo modello associativo risiede solo nella modalità
attraverso cui l’associazione si manifesta concretamente, modalità che si esprime
nel concetto di “metodo mafioso”, individuato nella forza intimidatrice del vincolo

delle vittime, in una determinata parte del territorio e della società, nonché nelle
imprescindibili strutture (offensive e difensive) funzionali a rendere operativa senza soluzione di continuità e senza irrecuperabili flessioni – la gestione
dell’egemonia economica, politica e di costume, nella propria area di competenza.
Secondo la comune esperienza, il generale fenomeno mafioso si manifesta nella
proliferazione, autonoma o geneticamente derivata da altre associazioni
preesistenti, di articolazioni territoriali, nel cui ambito i vari gruppi criminosi entrano
in rapporto di cooperazione, di concorrenza, di conflittualità
Un gruppo avente natura di associazione mafiosa si presenta quindi caratterizzato,
nella consolidata storiografia giudiziaria nel campo mafioso, da un nucleo di
associati, da un programma criminoso, da una proiezione territoriale della propria
forza intimidatrice, da una o più tipologie di condotte lecite e illecite, svolte in un
molteplice fronte, in cui le adesioni e le collusione sono accompagnate da avversari
e contrapposizioni insanabili. In questa proiezione collettiva e corale alla
commissione di fatti criminosi, che possono infrangere sia le norme dello Stato sia
gli interessi di associazioni concorrenti (per materia e per territorio) hanno
acquistato rilievo – agli occhi dei consociati e conseguentemente all’attenzione degli
inquirenti dello Stato – vincoli di fedeltà, di reciproca assistenza tra gli adepti
dell’associazione, operanti – oltre che nello scontro con i gruppi contendenti – nello
scontro, perdente, con il potere repressivo dello Stato, esercitato con i
provvedimenti, processuali o definitivi, di privazione della libertà personale di alcuni
aderenti.
1.3 Questo aspetto organizzativo dell’associazione mafiosa di difesa, rispetto alla
rivincita della legge penale, ha messo in luce – nei processi aventi ad oggetto il
crimine associativo – un dato patrimoniale utile ai fini dell’individuazione
dell’associazione della ricostruzione del rapporto intercorrente tra gli indagati e
l’associazione medesima: la inclusione dei primi tra i retribuiti con i profitti
criminali. Tale circolazione di denaro – in nome della solidarietà e della resistenza
alla legalità – ha condotto razionalmente, all’interno della ormai consolidata
storiografia giudiziaria – alla considerazione che trattasi della corresponsione al

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associativo, nella condizione, di assoggettamento generale dei consociati e specifico

detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti, sia pure con limitata
potestà di azione.
1.4 Proprio il suindicato aspetto organizzativo di difesa mafiosa (la presenza degli
indagati nella raccolta e nella distribuzione di denaro, in funzione di riparazione dei
guasti creati dall’intervento punitivo dello Stato) ha ottenuto dai magistrati del

dell’associazione mafiosa e della partecipazione ad essa dei ricorrenti, così come è
stato delineato nel capo di imputazione. Tale circolazione di denaro ha portato il Gip
e il Tribunale del riesame alla considerazione che trattasi della corresponsione al
detenuto, a titolo di compenso, per i meriti acquisiti in passato e a titolo di vincolo,
per il futuro, ipotecandone la persona e le energie al servizio dell’associazione
mafiosa, di cui sono logicamente da ritenere componenti.
Il Tribunale del riesame di Torino ha quindi confermato la razionale considerazione,
secondo cui la presenza di alcuni indagati tra i partecipi alla raccolta e alla
distribuzione del fondo solidarietà detenuti abbia efficacia indiziaria della
partecipazione, da parte dell’operatore o del beneficiario, all’associazione predetta,
nelle sue varie articolazioni, anche perché la raccolta di denaro non è giustificata da
solidarietà familiare, in quanto gli inquirenti dimostrano di aver accertato che i
versamenti sono stati effettuati da persone che non sono legate da rapporti di
parentela ai beneficiari. In base alle dichiarazioni di collaboratori, di cui è stata
verificata l’affidabilità, gli inquirenti hanno raggiunto il convincimento che sussiste
l’obbligo degli aderenti di aiutare economicamente la famiglia, i cui componenti
sono detenuti; da questo dato gli inquirenti hanno tratto la seguente
considerazione: se partecipare alle attività di sostegno dei consociati in carcere
costituisce un preciso obbligo di quelli liberi, ne consegue che tutti coloro che senza essere indicati come soggetti di distinti rapporti definiti altri con
l’associazione – abbiano partecipato ad una colletta, sono consociati.
1.5 Secondo l’ordinanza del Tribunale del riesame “La colletta deve intendersi
inequivocabilmente indicatore fattuale, da quale desumere la compenetrazione di
tutti i partecipi nel tessuto organizzativo associativo e, al tempo stesso, prova
dell’affiliazione, in quanto i non associati, per quanto legati da stretta amicizia, non
vi possono essere ammessi” (pagina 25); il fulcro di questo convincimento deriva
dalle intercettazioni di conversazioni ambientali, intercorse tra Marino Pietro personaggio intraneo ad alto livello nell’associazione – e il figlio Antonino – nelle
date 14 e 18 dicembre 2011 e 12 ottobre 2012, aventi ad oggetto l’indicazione di
autori e degli importi dei versamenti, nonché dei beneficiari e dell’importo delle

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presente procedimento il riconoscimento di dato illuminante della sussistenza

somme ad essi destinato. In queste conversazioni si parla di una raccolta di denaro,
proveniente da 13 persone, che si autotassano, per 120 euro; la somma raccolta è
destinata a 8 detenuti, nella misura di 200 euro ciascuno.
Premessa la obbligatorietà della tassa di 120 euro, gravante su ciascuno degli
affiliati liberi, se un affiliato ha un familiare in carcere non deve versarla, per
evitare un inutile giro di moneta: basta versargli 80 euro che, aggiunti
all’ammontare della tassa di 120, realizzeranno l’importo del contributo di

1.6 L’obbligatorietà di contribuire alla raccolta di fondi, a scopo assistenziale (a
beneficio materiale e morale dei detenuti, che percepiscono la persistenza,
nonostante l’esilio carcerario, del rapporto dare/avere con l’associazione) è
affermata anche da Mihaela Andreea Sorocaniuc (legata al sodale Cavallaro
Ferdinando e profondamente inserita nel costume e nelle regole del clan), nelle
dichiarazioni del 27 ottobre 2012, a proposito della regola, gravante sugli “amici”,
dell’aiuto economico in favore dei familiari del detenuto (pagina 24 dell’ordinanza).
Come già anticipato, nella conversazione, avente ad oggetto la distribuzione del
denaro raccolto, intercettata il 18 dicembre 2011, tra Marino Pietro e D’Amico
Antonino, sono nominati alcuni beneficiari.
Successivi accertamenti hanno consentito di individuare il periodo (giorni
immediatamente precedenti al Natale), l’ammontare (200 euro) e i beneficiari
(alcuni detenuti del greppo mafioso) della distribuzione del denaro raccolto tramite
la colletta.
1.7 La presenza a pieno titolo di D’Amico Giuseppe, tra i protagonisti attivi della
colletta, è razionalmente ritenuta indicata dal brano della conversazione, registrata
il 14 dicembre 2011, nel corso della quale Pietro, nel contare e ricontare con il figlio
Antonino il numero dei “partecipanti”, allo scopo di arrivare a 13, scandisce i gruppi
familiari impegnati nella raccolta : “noi siamo tre, due del compare, cinque, Fotia
sei…”. I “due del compare” sono rispettivamente D’Amico Antonino, che figura
anche in due altre conversazioni (del 18 dicembre 2011, alle ore 16.03, a bordo
dell’auto di Marino Pietro ed alle 17.07; in entrambe i due protagonisti – D’Amico
Antonino e Marino Pietro – contano soldi e discutono dei beneficiari) e che
normalmente viene citato con l’appellativo di “compare”; e appunto D’Amico
Giuseppe, figlio di Antonino.
L’indagato figura anche tra i partecipanti alla riunione del 30 ottobre 2009 presso il
Bar “Il Timone”, alla quale risultavano presenti tutti i vertici del “locale” di Chivasso,
alla quale mai avrebbe potuto partecipare un estraneo all’associazione.
2. Venendo alle specifiche deduzioni difensive, non può condividersi l’assunto
difensivo secondo cui a carico del D’Amico vi sarebbe un unico indizio,

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solidarietà mafiosa.

rappresentato dalla conversazione tra i due Marino, in un vuoto probatorio
circostante, poiché, come si è visto, l’indicazione proveniente da quella
conversazione trova conferme importanti in altri elementi logici e fattuali.
2.1 Quanto al verbale dibattimentale dell’8 gennaio 2013, prodotto con i motivi
nuovi, al fine di dimostrare il carattere neutro dell’incontro presso il bar “Il Timone”
del 30 settembre 2009, è evidente che in questa sede non è possibile apprezzarne il
valore ai fini della gravità indiziaria, richiedendo la parte un apprezzamento di

non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi
materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè
alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi
compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute
adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e
insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare,
nonché del Tribunale del riesame (tra le ultime, Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013,
Tiana, Rv. 255460).
3. In conclusione il ricorso va rigettato. Ne consegue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
La cancelleria curerà gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen.,
comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94, comma 1 ter disp.
att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma il 5 giugno 2013
Il consigliere estensore

ne

merito che, come si è accennato, è precluso al giudice di legittimità: l’ordinamento

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