Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35249 del 03/04/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35249 Anno 2013
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sui ricorsi proposti da
Stefanini Anna Maria, nata a Castiglione dei Pepoli il 18.10.1957,
e da Lupi Sergio, nato a Monsummano Terme il 5.5.1956, avverso
la sentenza pronunciata in data 13.4.2012 dalla corte di appello di
Firenze;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale dott. Gioacchino Izzo, che ha concluso per

Data Udienza: 03/04/2013

l’inammissibilità del ricorso della Stefanini e per il rigetto del
ricorso del Lupi;
udito per i ricorrenti, l’avv. Enrico Di Martino, del Foro di Massa,
difensore di fiducia del Lupi, anche in qualità di sostituto

della Stefanini, il quale ha concluso per raccoglimento di entrambi
i ricorsi.
FATTO E DIRITTO

Con sentenza pronunciata il 13.4.2012 la corte di appello di
Firenze, confermava la sentenza con cui il tribunale di Prato, in
data 17.9.2010, aveva condannato Stefanini Anna Maria e Lupi
Sergio, imputati dei reati di bancarotta fraudolenta documentale e
patrimoniale, aggravati dalla pluralità dei fatti, in qualità,
rispettivamente, di legale rappresentante e socia illimitatamente
responsabile e di socio-amministratore occulto della s.n.c.
“ABRACADABRA”, dichiarata fallita dal tribunale di Prato con
sentenza del 20.3.2002, alle pene, principale ed accessorie,
ritenute di giustizia.
Avverso tale decisione, di cui chiedono l’annullamento, hanno
proposto autonomi ricorsi per Cassazione gli imputati, articolando
distinti motivi di impugnazione.
La Stefanini, in particolare, deduce due motivi di ricorso.
Con il primo la ricorrente lamenta l’inosservanza ovvero l’erronea
applicazione della legge penale, eccependo, testualmente, “la
correttezza della primaria contestazione all’imputata, laddove
venivano ritenute non individuate le aggravanti sopra dette,
risultato della erronea valutazione del giudice di prime cure (e,
poi, della corte di appello), nonché l’insussistenza dell’elemento

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processuale dell’avv. Scipione Del Vecchio, difensore di fiducia

psicologico del reato, “con la conseguenza….che, alla Stefanini
avrebbero dovuto essere concesse le attenuanti generiche
prevalenti, scevre dal giudizio di comparazione”, anche in
considerazione della sua incensuratezza.

Con il secondo motivo di ricorso l’imputata lamenta la
contraddittorietà e la illogicità della motivazione dell’impugnata
sentenza, con riferimento alla differente decisione assunta dagli
organi inquirenti nei confronti di Borgini Manuela, che, pur
avendo, all’interno ed all’esterno della società dichiarata fallita,
assunto la medesima posizione della Stefanini e posto in essere
identici comportamenti, non è stata oggetto di alcuna
contestazione penalmente rilevante, riportandosi, per il resto, la
ricorrente ai motivi di appello.
Due motivi di ricorso vengono dedotti anche dal Lupi.
Con il primo il ricorrente lamenta la mancanza ovvero la manifesta
illogicità della motivazione della sentenza impugnata, in relazione
agli artt. 420 ter, co. 5, e 178, lett. c), c.p.p., per avere la corte
territoriale disatteso la richiesta di rinvio per legittimo
impedimento a comparire in udienza avanzata dal difensore
dell’imputato, pur sussistendone i presupposti, come dimostrato
dal certificato medico prodotto a sostegno della menzionata
richiesta di rinvio.
Con il secondo motivo di ricorso, l’imputato lamenta la mancanza
ovvero la manifesta illogicità della motivazione della sentenza
impugnata, in relazione alla ritenuta qualifica di amministratore di
fatto della società fallita dello Stefanini.
L’attuale definizione normativa di amministratore di fatto, di cui
all’art. 2639, c.c., infatti, a suo dire, da un lato non si applica ai
reati fallimentari, ma solo ai reati societari, per cui chi abbia

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/

rivestito tale ruolo può solo concorrere a titolo di extraneus nel
reato fallimentare proprio commesso dall’amministratore di diritto,
dall’altro, impone, affinché un soggetto possa qualificarsi tale, la
dimostrazione che egli abbia esercitato in modo continuativo e

Orbene, ad avviso del ricorrente, la motivazione della sentenza
impugnata risulta irrimediabilmente viziata, sia perché non
configura alcuna ipotesi di concorso di persone nel reato,
reintroducendo, in tal modo una responsabilità dell’amministratore
di fatto in tema di reati fallimentari, oggi superata dalla previsione
dell’art. 2639, c.c., sia perché desume il ruolo di amministratore
di fatto da sintomi inidonei a tal fine, quali la presenza in azienda,
anche se non tutti i giorni del Lupi, riferita, peraltro, da soggetti
che lo hanno indicato come un semplice collaboratore esterno
ovvero la dichiarazione di una testimone che, in maniera
apodittica, ha affermato che “amministrava tutto il Lupi”, in ordine
alla quale, per contestarne l’attendibilità, la difesa dell’imputato
aveva chiesto, inutilmente, sia in primo che in secondo grado,
l’escussione del teste Battistina Arrigo.
Tanto premesso, va innanzitutto rilevato che il ricorso della
Stefanini va dichiarato inammissibile, sotto diversi profili.
Con esso, infatti, da un lato vengono esposte censure che non
risultano proposte nei motivi di appello (nello specifico, quella con
cui si contesta, peraltro del tutto genericamente, la sussistenza
dell’elemento psicologico del reato) ovvero attinenti al merito
(come nel caso in cui si invoca la concessione delle circostanze
attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti),
dall’altro, con particolare riferimento al secondo motivo di ricorso,

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significativo i poteri tipici dell’amministratore.

esso si fonda su doglianze palesemente generiche, nonché del
tutto inconferenti.
E, come è noto, una delle cause di inammissibilità del ricorso per
Cassazione va individuata proprio nella genericità dei motivi di

ricorso in violazione dell’art. 581, lett. c), c.p.p., che nel dettare,
in generale, quindi anche per il ricorso in Cassazione, le regole cui
bisogna attenersi nel proporre l’impugnazione, stabilisce che nel
relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri,

“i

motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli
elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; violazione che, ai
sensi dell’art. 591, co. 1, lett.

c),

c.p.p., determina

l’inammissibilità dell’impugnazione stessa (cfr. Cass., sez. VI,
30.10.2008, n. 47414, Arruzzoli e altri, rv. 242129; Cass., sez.
VI, 21.12.2000, n. 8596, Rappo e altro, rv. 219087).
Né il ricorso per Cassazione, può limitarsi a fare riferimento per
relationem ai motivi proposti con l’atto di appello.
Incomprensibile risulta, poi, la doglianza difensiva riguardante le
circostanze aggravanti, che, rispetto alla originaria contestazione,
il giudice di primo grado riduceva alla sola ipotesi della
consumazione di più fatti di bancarotta fraudolenta, eliminandone
l’incidenza sull’entità della pena, in virtù del giudizio di
equivalenza con le concesse circostanze attenuanti generiche.
Del resto, come si evince dalla stessa motivazione della sentenza
impugnata, non contestata sul punto dalla ricorrente, nessuna
questione era stata prospettata in appello sulla sussistenza delle
circostanze aggravanti.
Infondato appare, invece, il ricorso del Lupi.
In relazione al primo motivo di impugnazione, va rilevato che la
corte di appello, nel valutare, all’udienza del 13.4.2012, il

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certificato medico su cui si fondava la richiesta di rinvio per
legittimo impedimento a comparire del difensore, ha ritenuto che
la malattia in esso certificata (“cervicolombalgia pt trauma
contusivo ginocchio destro da caduta accidentale”, con prognosi di

un’ipotesi di impedimento assoluto a comparire, atteso che le
lesioni patite dal difensore, non si presentavano di natura tale da
impedirne la presenza all’udienza.
Tale valutazione appare del tutto corretta, posto che, come
chiarito da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini del
riconoscimento del legittimo impedimento a comparire
dell’imputato, l’impedimento (quale, in ispecie la malattia) deve
essere prospettato come assolutamente ostativo alla
comparizione, non potendo considerarsi idonee, a tal fine,
generiche certificazioni sanitarie che, come nel caso in esame,
non precisino il profilo concreto della malattia (limitandosi a una
astratta indicazione della medesima), né l’incidenza della
medesima sulla capacità dell’imputato di partecipare all’udienza
(cfr. Cass., sez. IV, 25/10/2005, n. 41663, C. e altro).
Del pari risulta infondato il secondo motivo del ricorso Lupi.
Al riguardo si osserva, innanzitutto, che, come affermato da
tempo nella giurisprudenza di legittimità, in tema di reati societari
e fallimentari, l’art. 2639 c.c., nella formulazione introdotta
dall’art. 1 d.Ig. 11 aprile 2002 n. 61, lungi da contraddire il
precedente consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo
cui anche l’amministratore di fatto della società fallita poteva
rispondere dei fatti di bancarotta fraudolenta previsti dall’art. 223
I. fall., ne costituisce esplicita conferma, non essendovi, d’altra
parte, ragione alcuna, una volta ritenuta la responsabilità

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guarigione di quindici giorni, salvo complicazioni), non integrasse

dell’amministratore di fatto, in base al citato art. 2639, per i reati
societari, di escluderla per quelli fallimentari (cfr., ex plurimis,
Cass., sez. V, 05/06/2003, n. 36630, G.)
Del pari consolidato nella giurisprudenza di legittimità risulta

l’orientamento secondo cui, in tema di reati fallimentari, il
soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall’art. 2639, c.c.,
assume la qualifica di amministratore “di fatto” della società fallita
è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto
l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre
condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale
responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui
addebitabili, tra i quali vanno ricomprese le condotte
dell’amministratore “di diritto”, anche nel caso di colpevole e
consapevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della
regola di cui all’art. 40, co. 2, c.p. (cfr. Cass., sez. V, 20/05/2011,
n. 39593, rv 250844; Cass., sez. V, 2/3/2011, n. 15065,
Guadagnoli e altro, rv. 250094).
La nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639
c.c., come pure è stato affermato, postula l’esercizio in modo
continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od
alla funzione, anche se “significatività” e “continuità” non
comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri
dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di
un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od
occasionale.
La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme
incriminatrici della bancarotta fraudolenta, dunque, va
determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che,
regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di

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/t

amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di
norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina
sostanziale si traduce, in via processuale, nell’accertamento di
elementi sintomatici di gestione o cogestione della società,

che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento
dell'”iter” di organizzazione, produzione e commercializzazione dei
beni e servizi – rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti
materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – in
qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa,
contrattuale, disciplinare.
Peraltro l’accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione
o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di
fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da
motivazione congrua e logica (cfr. Cass., sez. V, 14.4.2003, n.
22413, Sidoli, rv. 224948; Cass., sez. I, 12.5.2006, n. 18464,
Ponciroli, rv. 234254).
In conclusione può dunque affermarsi che in tema di bancarotta
fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 I.
fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate,
non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla
rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica
ricoperta (cfr. Cass., sez. V, 13.4.2006, n. 19145, Binda e altro,
rv. 234428).
Orbene la corte territoriale, con motivazione articolata, esauriente
ed immune da vizi, si è mossa nel solco interpretativo tracciato
dalla giurisprudenza di legittimità.
Ed invero i giudici di secondo grado hanno individuato una
pluralità di indici di assoluto valore sintomatico della qualifica di

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risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus”

”amministratore di fatto” rivestita dal Lupi, rispetto ai quali le
contestazioni difensive appaiono estremamente generiche ed
attinenti al merito.

hanno evidenziato: 1) come la teste Bellandi Sabrina, dipendente
della società fallita, abbia dichiarato di essere stata assunta dal
Lupi; la teste Borgini Manuela, socia della Stefanini, abbia rivelato
che la società era amministrata dal Lupi, il quale tratteneva gli
incassi e dava indicazioni per gli acquisti; la teste Bardazzi
Jessica, altra dipendente, aveva affermato di ricevere lo stipendio,
oltre che dalla Stefanini, anche dall’imputato, che vedeva in
azienda due o tre volte al mese; 2) come le testimonianze di
Lunghi Maria Antonietta e di Venturella Giuseppe, dipendenti della
società fallita, i quali hanno parlato del Lupi come di un
consulente esterno dell’impresa, consentono in ogni caso di
affermare che egli era costantemente presente in azienda; 3)
come la pretesa attività di consulenza esterna del Lupi debba
considerarsi un mero stragemma volto a celare il suo ruolo
effettivo all’interno della società, in quanto è stato dimostrato che
l’imputato ha emesso in favore della società fallita fatture per
attività di elaborazione dati magazzino e contabili, nonostante che
la curatrice fallimentare abbia sottolineato come non risultasse
alcuna contabilità di magazzino della “ABRACADABRA”; 4) come il
definitivo suggello al ruolo di amministratore di fatto del Lupi
deriva dalla carica da lui assunta di vice presidente della società
“NUOVA TAMARA”, inattiva e senza sede, costituita allo scopo di
prosciugare l’attivo della “ABRACADABRA” prima del fallimento.
Appare, dunque, evidente, come affermato dalla corte territoriale,
che, contrariamente a quanto preteso dalla difesa, il Lupi non può

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Essi, infatti, con motivazione approfondita ed immune da vizi,

essere relegato in un ruolo meramente secondario o tecnico,
partecipando egli a fianco dell’amministratore “di diritto” Stefanini,
alle scelte vitali della società ed apparendo, anche nei confronti
dei terzi, come il reale gestore della società stessa”, con ciò

Sulla base delle svolte considerazioni, il ricorso proposto
nell’interesse della Stefanini va, dunque, dichiarato inammissibile,
con condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al
pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro
1000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della
circostanza che l’evidente inammissibilità del ricorso non consente
di ritenere il difensore della ricorrente medesima immune da colpa
nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità
(cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000), mentre va
rigettato il ricorso del Lupi, che pure va condannato al pagamento
delle spese processuali.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso di Stefanini Anna Maria e
condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1000,00 in favore della cassa delle
ammende.
Rigetta il ricorso di Lupi Sergio e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 3.4.2013

svolgendo un palese ruolo di cogestione della società fallita.

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