Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35218 del 28/03/2013


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 35218 Anno 2013
Presidente: DE ROBERTO GIOVANNI
Relatore: ROTUNDO VINCENZO

Data Udienza: 28/03/2013

SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di:
1. Torresan Valentino, nato a Varazze (Sv) il 13-4-58,
2. Canavero Gianluca, nato a Savona il 2-3-67,
avverso la sentenza in data 20-10-11 della Corte di Appello di Genova,
sezione II penale.
Udita la relazione fatta dal Consigliere, dott. Vincenzo Rotundo.
Udite le richieste del Pubblico Ministero, dott. Gaeta, che ha concluso per
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per essere i reati,
riqualificati ai sensi dell’art. 319 quater c.p., estinti per prescrizione.
Uditi gli avv.ti Roseo e Biondi, che hanno insistito per l’accoglimento dei
ricorsi e, in via subordinata, si sono associati alle conclusioni del P.G.

FATTO E DIRITTO
1 . – . I difensori di Torresan Valentino e Canavero Gianluca hanno proposto ricorso per
cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale, in data 20-10-11, la
Corte di Appello di Genova, in parziale riforma della condanna pronunciata nei loro
confronti in primo grado per vari episodi di concussione in concorso, escluse le
attenuanti generiche, ha aumentato la pena inflitta al Torresan ad anni quattro e mesi tre
di reclusione e quella inflitta al Canavero, esclusa la contestata recidiva, ad anni quattro
e mesi due di reclusione, con interdizione di entrambi dai pubblici uffici per anni
cinque, con obbligo per entrambi di rifusione delle spese di parte civile e con conferma
nel resto.
In particolare, Torresan e Canavero sono stati condannati per avere, quali pubblici
ufficiali in servizio come controllori su treni regionali, abusando della loro qualità e dei
loro poteri, costretto mediante minaccia i passeggeri Alvarez Rosa [capo A), contestato
ad entrambi], Guillin Rodrigo [capo B) contestato al solo Torresan], Moreira Medina
Juan Josè e Neza Boada Jorge [capi C) e D), contestati ad entrambi] a dare loro
indebitamente del denaro. Più specificamente i predetti sono stati ritenuti colpevoli di
aver contestato ai suindicati passeggeri alcune irregolarità, in alcuni casi elevando
contravvenzione, e di averli poi minacciati di trattenere i documenti da loro esibiti e di
1

richiedere l’intervento della Polizia per la loro identificazione, al fine di esigere
l’immediata oblazione (circostanza che avrebbe loro permesso di ottenere il premio
previsto dall’art. 66 L. 695/57); fatti avvenuti su vari treni regionali in data 9-1-02, 104-02 e 27-3-01.
La Corte di Appello di Genova ha premesso che in tutti e quattro i casi erano rimasti
nelle mani degli imputati documenti con i quali le diverse persone offese avevano
accreditato la propria identità (e, nel caso della Alvarez, anche l’abbonamento
ferroviario). Tali documenti erano sicuramente stati trattenuti dai prevenuti oltre Io
stretto necessario: ne derivava il compimento da parte loro di un abuso dì qualifica e di
potere. Ci si trovava quindi in presenza di una condotta antigiuridica, che rendeva
irrilevanti l’eventuale destinazione delle somme richieste ovvero l’intento di locupletare
il pubblico ufficio. In buona sostanza si trattava di esattori che intendevano realizzare
un aggio o non dovuto o conseguito fuori dai modi regolamentari.
I ricorrenti deducono:
• Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della loro
responsabilità per i reati loro ascritti. In primo luogo la Corte di Appello
avrebbe errato nel ritenere provato il presupposto oggettivo (e cioè l’avvenuto
trattenimento dei documenti delle persone offese ad opera dei prevenuti), che
sarebbe stato in realtà basato unicamente sulle dichiarazioni testimoniali di tre
della quattro parti lese, non vagliate con il necessario rigore. Scendendo più nel
dettaglio, nella vicenda Alvarez di cui al capo A) non si sarebbe tenuto conto
del fatto che il controllore aveva la necessità per elevare una contravvenzione
di avere nelle sue mani il titolo di viaggio per annotarne gli estremi
sull’apposito modulo, che il Canavero aveva lasciato nella sua borsa, sicché,
contrariamente a quanto affermato in sentenza, appariva giustificato
l’allontanamento per pochi minuti del medesimo Canavero per compilare un
modulo che non aveva con sé al momento del controllo. A parte il fatto che in
riferimento a detto capo A) vi sarebbe una nullità ex artt. 524 e 601 c.p.p., in
quanto il capo di imputazione avrebbe fatto riferimento ad un trattenimento
dell’abbonamento e ad una richiesta di intervento della Polizia per
l’identificazione per pretendere il pagamento immediato (ma non in nero) della
sanzione, mentre la condotta considerata come pretesa indebita dal Tribunale
sarebbe stata il fatto del tutto diverso di avere richiesto il pagamento di L.
30.000 in nero. Quanto ai fatti dì cui al capo B), non si sarebbe tenuto conto
delle plateali contraddizioni in cui sarebbe caduto il teste Guillin e si sarebbe
ricostruita la vicenda in termini contrastanti con le risultanze processuali.
Quanto alla vicenda Moreira di cui al capo C) della rubrica, la Corte di merito
avrebbe omesso di considerare l’oscillante e ambiguo tracciato narrativo di
quest’ultimo e le plurime contraddizioni in cui sarebbe caduto su aspetti
determinanti (il tipo di documento trattenuto; il luogo del successivo
appuntamento e le modalità di incontro con gli imputati). Infine in ordine alla
vicenda Neza, contestata sub D), non si sarebbe irragionevolmente dato rilievo
alla versione del Torresan, che aveva spiegato che il passaporto del Neza era
rimasto nelle sue mani perché costui era improvvisamente fuggito.
• Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla qualificazione
giuridica dei fatti, posto che i Giudici di merito non avrebbero considerato che
nei casi in esame la dazione o anche solo la promessa non sarebbero state
indebite, in quanto le irregolarità dei viaggiatori sussistevano, sicché le vicende
avrebbero dovuto al più essere inquadrate nell’ambito dell’art. 323 c.p.
Mancanza
di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del vincolo

concorsuale del Torresan nei capi A) e C) e del Canavero nel capo D).
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• Vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti
generiche, argomentato unicamente con un generico riferimento alla gravità e
reiterazione di comportamenti posti in essere dagli imputati.
2 . . In prossimità della odierna pubblica udienza i difensori degli imputati hanno
depositato una memoria, con la quale hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
Secondo la difesa dei ricorrenti, in base alle recenti innovazioni legislative apportate
dalla Legge n. 190 del 2012 e in base alla recente giurisprudenza di legittimità sul
nuovo testo dell’art. 317 c.p. e sulla nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., i
fatti in esame dovrebbero essere inquadrati in quest’ultima previsione.
In particolare, nella memoria si sottolinea che il più convincente approdo della
giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia ha affermato che il criterio
distintivo tra l’ipotesi di cui all’art. 317 c.p., come novellata, e la nuova fattispecie di
cui all’art. 319 quater c.p. non è rappresentato dalla intensità della pressione
psicologica esercitata, ma deve essere individuato nella qualità della minaccia, nel
senso che nella concussione viene minacciato un elemento ingiusto, ossia un risultato
sfavorevole, e vi è la costrizione perché il Pubblico Ufficiale rappresenta che recherà un
danno ingiusto, mentre nel delitto di cui all’art. 319 quater c.p. il Pubblico Ufficiale
minaccia conseguenze sfavorevoli per ricevere il pagamento o la promessa indebita
(Sez. 6, Sentenza n. 3251 del 3/12/2012, Rv. 253935, Roscia).
Nei casi in esame, da un lato le condotte poste in essere dai ricorrenti erano finalizzate
all’interesse dell’Ente e, dall’altro, le minacce paventate non erano ingiuste perché
contra legem, ma costituivano una conseguenza delle irregolarità accertate nei titoli di
viaggio (radicalmente mancanti) o nei documenti che avrebbero dovuto accompagnarli.
Segnatamente tutti e quattro i viaggiatori erano irregolari (Alvarez, Moreira e Guillin
perché privi di valido documento da esibire unitamente all’abbonamento; Neda perché
sprovvisto di biglietto) e nei capi di imputazione ciò che si é contestato ai prevenuti non
è la infondatezza o la pretestuosità delle contravvenzioni elevate ma la illiceità del
modus operandi, in quanto i controllori non potevano pretendere la immediata
oblazione e non potevano trattenere i documenti dei viaggiatori né richiedere la loro
identificazione a mezzo di Polizia Ferroviaria. Ma -si legge nella memoria- a fronte
della irregolarità dei viaggiatori la prospettiva di trattenere i documenti e di richiedere
l’intervento della Polizia per l’identificazione non costituiva un male ingiusto, ma
rappresentava la conseguenza lecita per le persone irrispettose delle condizioni di
viaggio (in quanto sprovvisti di documenti di identificazione o di biglietto). Il male
prospettato era, quindi, “giusto” e í fatti dovevano essere inquadrati nella nuova
fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., applicabile in quanto norma più favorevole.
A parte il fatto che anche in ipotesi dì 319 quater c.p. occorre che la condotta sia
finalizzata ad una dazione o promessa di denaro indebita, mentre, nella presente
fattispecie, la dazione di denaro altro non era che il pagamento della sanzione dovuta
per chi viaggia in modo irregolare, sicché mancava il necessario requisito della non
debenza. In definitiva, i pubblici ufficiali avevano il dovere di esigere la sanzione e di
tentare di esigerla immediatamente e conseguentemente nessuna illiceità era ravvisabile
nel comportamento da loro posto in essere. Il premio che derivava ai controllori dalla
esazione immediata era assolutamente mediato ed indiretto. D’altra parte poiché era
legittima la pretesa di corretta identificazione del viaggiatore irregolare, doveva
ritenersi altrettanto legittima la prospettazione di richiedere la identificazione alle forze
dell’ordine.

3 . . I motivi formulati nei ricorsi si sostanziano, in gran parte, in doglianze non
consentite in sede di giudizio di legittimità. Molte censure attengono, in vero, alla

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valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del Giudice di merito e non
può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimità quando fondata su
motivazione congrua e non manifestamente illogica. Nel caso di specie, i Giudici di
Appello hanno preso in esame tutte le deduzioni difensive e sono pervenuti alla
decisione attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in
nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.
Ne deriva la inammissibilità del primo motivo di ricorso, là dove si contestano le
argomentazioni (certamente non carenti né palesemente illogiche o contraddittorie) con
le quali i Giudici di merito hanno ritenuto provato l’avvenuto trattenimento dei
documenti delle persone offese ad opera dei prevenuti.
Alle medesime conclusioni deve pervenirsi in riferimento al terzo motivo di ricorso
[vizio di motivazione in ordine al concorso del Torresan nei capi A) e C) e del
Canavero nel capo D)]. Si tratta di censure generiche e in fatto, alle quali la sentenza
impugnata (da leggersi congiuntamente a quella di primo grado) ha dato adeguata
risposta.
I rilievi relativi alla esclusione delle attenuanti generiche (ultimo motivo di ricorso) si
traducono in allegazioni di mero fatto, con le quali viene censurato il potere
discrezionale del Giudice di merito pur adeguatamente motivato, nonché carenti della
richiesta specificità là dove si lamenta la mancata considerazione di elementi favorevoli
agli imputati semplicemente enunciati, senza alcuna indicazione della loro decisiva
rilevanza. In particolare, la Corte di Appello di Genova, con valutazione discrezionale
adeguatamente argomentata, ha ritenuto che la gravità e la reiterazione dei
comportamenti posti in essere, la assoluta mancanza di resipiscenza e il comportamento
processuale tenuto denotavano una non lieve capacità a delinquere, che non consentiva
il riconoscimento delle attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p.

4 . . Resta da esaminare il secondo motivo di ricorso incentrato sulla qualificazione
giuridica dei fatti, motivo ampiamente ripreso nella memoria difensiva (illustrata al
punto 2) alla luce della innovazioni introdotte dalla Legge n. 190 del 2012.
Com’è noto, con detta Legge è stata “spacchettata” l’originaria ipotesi delittuosa della
concussione (che, nel testo previgente dell’art. 317 c.p., parificava le condotte di
costrizione e di induzione), creando due nuove fattispecie di reato.
La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 c.p. e prevede la punizione del “pubblico
ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”, conserva i
precedenti caratteri ed elementi costitutivi della fattispecie della concussione per
costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva
(portata da quattro a sei anni di reclusione) e lasciando come soggetto attivo il solo
pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, della figura di incaricato di pubblico
servizio.
La seconda fattispecie di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 cod. pen. ed ora
regolata dall’art. 319 quater cod. pen., recante in rubrica la nuova denominazione di
induzione indebita a dare o promettere utilità, è configurabile, “salvo che il fatto non
costituisca più grave reato”, laddove “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico
servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”: delitto, dunque, che
può essere commesso sia dall’incaricato di pubblico servizio sia dal pubblico ufficiale,
sanzionato con la più mite pena della reclusione da tre ad otto anni, e che ha una
struttura, con riferimento alla condotta del pubblico agente (comma 1), nella quale sono
stati riproposti gli stessi elementi qualificanti la “vecchia” figura della concussione per
induzione. Rappresenta, invece, dato di assoluta novità la previsione, nel comma 2

4

dello stesso art. 319 quater, della punizione anche del soggetto che “da o promette
denaro o altra utilità”, il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione
per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen., diventa coautore nella nuova
figura dell’induzione indebita.
Nel tentativo di verificare quali siano i criteri che permettono di distinguere la figura
della concussione, prevista dal “nuovo” art. 317 c.p., da quella della induzione indebita
a dare o promettere utilità, di cui all’introdotto 319 quater c.p. (problematica che, in
passato, non aveva costituito oggetto di analisi particolarmente approfondire, data la
sostanziale parificazione nel previgente art. 317 cod. pen. delle due condotte in
relazione agli effetti, che aveva portato, nella prassi, spesso a contestarle entrambe agli
imputati chiamati a rispondere del delitto di concussione sì da considerarle una sorta di
endiadi che esprimeva un concetto unitario), nella giurisprudenza di questa Corte si
sono delineati tre differenti indirizzi interpretativi.
5 . . Per un primo filone giurisprudenziale (v. in particolare: Sez. 6, n. 8695/13 del 412-12, Nardi, rv 254114), la circostanza che il legislatore della novella del 2012, nello
“sdoppiare” le fattispecie di reato, abbia riproposto, rispettivamente nella nuova
versione dell’art. 317 e nell’art. 319 quater, comma 1, formulazioni testuali
sostanzialmente identiche, nelle quali l’unico dato di distinzione è, appunto, quello del
verbo (“costringe” nel primo caso, “induce” nel secondo), costituisce un indice che la
voluntas legis sia stata nel senso di attribuire una qual continuità normativa rispetto alla
disposizione incriminatrice precedentemente vigente: con la conseguenza che appare
senz’altro possibile continuare a valorizzare gli approdi ermeneutici cui era pervenuta la
giurisprudenza di legittimità che, pur, nella indifferenza degli effetti pratici, aveva
tracciato una “linea di confine” tra la condotta costrittiva e quella induttiva. In tal senso,
possono essere “recuperati” gli approdi esegetici giurisprudenziali, secondo i quali sia
la costrizione che l’induzione si realizzano laddove il comportamento del pubblico
ufficiale, che abusa della sua qualità o dei suoi poteri, si sostanzi nella formulazione di
una pretesa indebita, di dazione o di promessa di denaro o di altra utilità, manifestata
con forme e modalità idonee ad incidere psicologicamente sulla volontà e, quindi, sulle
determinazioni del destinatario: solo che, nel primo caso, si parla di costrizione perché
la pretesa ha una maggiore carica intimidatoria, in quanto espressa in forma ovvero in
maniera tale da non lasciare alcun significativo margine di scelta al destinatario;
mentre, nel secondo caso, si parla di induzione perché la pretesa si concretizza
nell’impiego di forme di suggestione o di persuasione, ovvero di più blanda pressione
morale, sì da lasciare al destinatario una maggiore libertà di autodeterminazione, un più
ampio margine di scelta in ordine alla possibilità di non accedere alla richiesta del
pubblico funzionario.
Va, dunque, escluso che le modifiche introdotte dalla legge n. 190 del 2012 abbiano
comportato una riqualificazione delle due condotte di “costrizione” e di “induzione”,
formule lessicali che appaiono entrambe capaci di indicare sia la condotta che l’effetto:
solo che – come anche suggerisce il nettamente differenziato trattamento sanzionatorio la prima descrive una più netta iniziativa finalizzata alla coartazione psichica dell’altrui
volontà, che pone l’interlocutore di fronte ad un aut aut ed ha l’effetto di obbligare
questi a dare o promettere, sottomettendosi alla volontà dell’agente (voluit quia
coactus); la seconda una più tenue azione di pressione psichica sull’altrui volontà, che
spesso si concretizza in forme di persuasione o di suggestione ed ha come effetto quello
di condizionare ovvero di “spingere” taluno a dare o promettere, ugualmente
soddisfacendo i desiderata dell’agente (coactus tamen voluit).
In entrambe le ipotesi, quindi, la condotta delittuosa deve concretizzarsi in una forma di
pressione psichica relativa (sicché è fondato ritenere che continuano a restare fuori

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dall’ambito di operatività degli artt. 317 e 319 quater c. p. le condotte di violenza fisica,
le quali possono eventualmente integrare gli estremi di altri reati, estranei allo statuto
dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) che determina,
proprio per l’abuso delle qualità o dei poteri da parte dell’agente, uno stato di
soggezione nel destinatario; e che, per essere idonea a realizzare l’effetto perseguito dal
reo, deve sempre contenere una più o meno esplicita prospettazione di un male ovvero
di un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, le cui conseguenze dannose il
destinatario della pressione cerca di evitare soddisfacendo quella pretesa indebita,
dando o promettendo denaro o altra utilità.
Pregiudizio che non deve necessariamente essere contra ius, ben potendo la pressione
psichica tradursi anche nella prospettazione, da parte dell’agente, di una conseguenza
dannosa derivante all’esercizio dei suoi poteri in maniera formalmente doverosa,
conforme al diritto ovvero ad esso non contraria: prospettazione che diventa ingiusta
perché connessa al perseguimento di un fine illecito, posto che l’omesso esercizio di
quel potere viene condizionato dal soddisfacimento dell’indebita richiesta di dazione o
di promessa. La condotta del pubblico funzionario è, dunque, capace di condizionare
illecitamente la volontà, altrui in quanto espressione di uno sviamento di potere, tenuto
conto che il sud esercizio o la prospettazione dell’esercizio, lungi dal realizzare
quell’interesse pubblico cui l’iniziativa è solo in apparenza ispirata, diventa, in concreto,
il mezzo per soddisfare un interesse privato.
Si tratta, in definitiva, di un orientamento giurisprudenziale che continua ad individuare
l’elemento di distinzione tra la condotta di costrizione e quella di induzione nella
intensità della pressione psichica prevaricatrice, nel maggiore o minore grado di
coartazione morale esercitato sulla vittima.
6 . . In base ad un secondo filone interpretativo (v. in particolare: Sez. 6, Sentenza n.
3251 del 3/12/2012, Rv. 253935, Roscia)„ invece, vi è oggi una rilevante e specifica
ragione che suggerisce di integrare quel “tradizionale” criterio di distinzione,
valorizzando un elemento obiettivo che, in molte fattispecie, può servire a dare ai due
concetti in esame un tasso di maggiore determinatezza. La ragione è legata alla già
considerata novità della incriminazione – sia pur con la previsione di una pena più mite
rispetto a quella stabilita per il pubblico funzionario – di colui che, destinatario della
induzione indebita, si sia determinato a dare o a promettere denaro o altra utilità, giusta
la statuizione dell’art. 319 quater, comma 2, c.p. La posizione di tale soggetto, non più
vittima ma coautore del reato, è evidentemente diversa da quella del destinatario della
pretesa concussiva, che, nel reato di cui al riscritto art. 317, resta mera persona offesa,
ed impone oggi di ricercare elementi sintomatici ulteriori idonei a favorire una più netta
differenziazione tra i concetti di costrizione e di induzione. Sforzo ricostruttivo che,
teso ad individuare un dato qualificato da aspetti di maggiore oggettività, può
consentire di superare quelle situazioni di incertezza determinate dall’impiego del,
talora più evanescente, criterio spiccatamente soggettivo del margine di libertà di scelta
lasciato al destinatario della pretesa: e ciò vale soprattutto per quei casi, ricadenti nella
c.d. “zona grigia”, nei quali non è chiaro ne’ è facilmente definibile se la pretesa del
pubblico agente, proprio perché proposta in maniera larvata o subdolamente allusiva,
ovvero in forma implicita o indiretta, abbia ridotto fino quasi ad annullare o abbia solo
attenuato la libertà di autodeterminazione del privato. Tale indice integrativo è
ragionevolmente rappresentato dal tipo di vantaggio che il destinatario di quella pretesa
indebita consegue per effetto della dazione o della promessa di denaro o di altra utilità.
Egli è certamente persona offesa di una concussione per costrizione se il pubblico
agente, pur senza l’impiego di brutali forme di minaccia psichica diretta, lo ha posto di
fronte all’alternativa “secca” di accettare la pretesa indebita oppure di subire il

6

7 .-. Vi è, infine, un terzo orientamento giurisprudenziale, che sembra cercare una
mediazione tra le due linee interpretative sopra ricordate (v. in particolare: Sez. 6, n.
11794 dell’11-2-13, RV 254440, Melfí).
Si è così affermato che nei reati di concussione e di induzione indebita, l’agente,
abusando della qualità o dei suoi poteri, prospetta al destinatario un male come
alternativa della sollecita dazione o della promessa indebita di utilità. Tuttavia nella
concussione da costrizione il pubblico ufficiale agisce con modalità ovvero con forme
di pressione tali da non lasciare margini alla libertà di autodeterminazione del
destinatario della pretesa: il quale è “vittima” del reato, perché, senza che gli sia stato
prospettato alcun vantaggio diretto, decide di dare o promettere allo scopo di evitare il
danno ingiusto minacciato (certat de damno vitando). Nella induzione indebita, invece,
il pubblico ufficiale o l’incaricato dí pubblico servizio agisce con modalità ovvero con
forme di pressioni più blande, tali da lasciare un margine di scelta al destinatario della
pretesa: il quale concorre nel reato perché gli si prospetta un qualche vantaggio indebito
diretto e decide di dare o promettere — più che per evitare il danno prospettato dal
pubblico funzionario- per conseguire il predetto vantaggio indebito (certat de lucro
captando).
8 . . Nei casi di specie il realizzato o minacciato indebito trattenimento dei documenti
per un tempo ben superiore a quello necessario configura senza dubbio un male

prospettato pregiudizio oggettivamente ingiusto: al destinatario della richiesta non è
lasciato, in concreto, alcun apprezzabile margine di scelta, ed è solo vittima del reato
perché, lungi dall’essere motivato da un interesse al conseguimento di un qualche
vantaggio diretto, si determina a dare o promettere esclusivamente per evitare il
pregiudizio minacciato. Al contrario, il privato è punibile come coautore nel reato se il
pubblico agente, abusando della sua qualità o del suo potere, formula una richiesta di
dazione o di promessa ponendola come condizione per il compimento o per il mancato
compimento di un atto, di un’azione o di una omissione, da cui il destinatario della
pretesa trae direttamente un vantaggio indebito: dunque, egli non è vittima ma
compartecipe laddove abbia conservato un significativo margine di autodeterminazione
o perché la pretesa gli è stata rivolta in forma più blanda o in maniera solo suggestiva,
ovvero perché egli è stato “allettato” a soddisfare quella pretesa dalla possibilità di
conseguire un indebito beneficio, il cui perseguimento finisce per diventare la ragione
principale della sua decisione.
Questa impostazione, più articolata rispetto a quella fondata esclusivamente sulla
verifica “soggettivizzante” del diverso grado di pressione morale, appare coerente
anche rispetto alla nuova collocazione che, nel codice, è stata data alla figura
dell’induzione indebita, come “plasticamente” confermata dalla scelta di introduzione
dell’art. 319 quater subito dopo gli articoli disciplinanti le due forme di corruzione – al
cui alveo sembra maggiormente avvicinarsi – e non anche dopo l’articolo sulla
concussione. Ed invero, nel reato di induzione indebita il destinatario della pretesa
soffre, al pari della vittima della concussione, l’abusiva iniziativa prevaricatrice del
pubblico agente, dalla quale la sua volontà risulta psichicamente condizionata (che,
altrimenti, laddove tra i prevenuti vi fosse una posizione di piena parità, si dovrebbe
passare nell’ambito di operatività di una delle figure corruttive); ma, al pari del
corruttore, risponde penalmente della sua condotta, per aver dato o promesso denaro o
altra utilità, o perché ha subito una più tenue pretesa intimidatoria, alla quale, senza
eccessivi sforzi, ben avrebbe potuto resistere, ovvero perché da quella dazione o
promessa ha tratto un vantaggio non dovutogli, al cui conseguimento, in una logica
quasi “negoziale”, ha finito per parametrare la sua decisione.

9 . . Il rigetto dei ricorsi comporta la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.

Per questi motivi
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
così deciso in Roma, all’udienza del 28-3-2013.

ingiusto e l’attività di sopraffazione posta in essere dai controllori persino in casi in cui
vi erano elementi per ritenere già sufficientemente identificato il viaggiatore non solo
concreta condotte obiettivamente antigiuridiche, ma realizza comportamenti che non
lasciavano alcun significativo margine di scelta ai destinatari, che si vedevano costretti,
anche per la loro condizione di stranieri in Italia, a soggiacere alle indebite pretese dei
pubblici ufficiali.
Ne deriva che a qualunque dei tre orientamenti giurisprudenziali sopra illustrati si
aderisca, comunque le condotte in esame hanno perfezionato una attività di costrizione
nei confronti delle malcapitate parti lese, soggetti che, come ha precisato la Corte di
merito, almeno in tre casi avevano regolarmente pagato il servizio e che non
intendevano evadere pagamento e/o sanzioni. La eventuale lecita destinazione della
somma richiesta o l’intento di locupletare il pubblico ufficio non appaiono sufficienti
ad escludere l’antigiuridicità, qualora, come nei casi in esame, l’azione si concreti in
una condotta obiettivamente antigiuridica. A parte il fatto che, trattandosi in buona
sostanza di esattori che intendevano realizzare un aggio o non dovuto o raggiunto fuori
dai modi e dai canali regolamentari, non può nella fattispecie in questione parlarsi di
finalità dell’azione volte esclusivamente a favorire l’interesse dell’Ente di
appartenenza.
In definitiva, il male ingiusto prospettato ed attuato (il trattenimento indebito dei
documenti di identità) e l’attività di sopraffazione (non priva di connotati razzisti) posta
in essere non possono che essere inquadrati nella “costrizione” di cui all’art. 317 c.p.,
come novellato dalla nuova normativa.

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