Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 35093 del 04/06/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 35093 Anno 2014
Presidente: MARASCA GENNARO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO pI
TRIESTE
nei confronti di:
SISTRO GIUSEPPE N. IL 16/07/1954
inoltre:
SISTRO AGOSTINO N. IL 05/09/1979
avverso la sentenza n. 625/2010 CORTE APPELLO di TRIESTE, del
06/12/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/06/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI
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Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per

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Udito, per la parte civile, l’Avv
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Data Udienza: 04/06/2014

Fatto e diritto

Propongono ricorso per cassazione
-il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Trieste e
-Sistro Agostino
avverso la sentenza della citata Corte d’appello, in data 6 dicembre 2012, con la quale, da un

concorso col figlio Agostino.
Il Procuratore generale ha impugnato il capo della assoluzione mentre Sistro Agostino, quello
concernente la conferma della propria responsabilità.
L’imputazione originaria era costituita da due capi (a e b) nei quali erano descritti fatti di
distrazione e/o dissipazione di beni posti in essere- in danno della massa dei creditori della
Friulcos S.p.A., dichiarata fallita il 9 febbraio 2004- rispettivamente in data 5 giugno 2003 (il
fatto descritto sub a)) e, comunque dal giugno 2003 fino alla data del fallimento (gli altri
fatti), ad opera, tra l’altro, di Sistro Agostino quale legale rappresentante (vicepresidente
operativo) eisi della società stessa e di Sistro Giuseppe, quale amministratore di fatto.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto che tutti i fatti distrattivi costituissero un unico
delitto di bancarotta fraudolenta, aggravato ai sensi dell’articolo 219 comma 2 n. 1 I.
fallimentare, ed aveva affermato la responsabilità di entrambi gli odierni ricorrenti.
Il giudice dell’appello aveva invece ritenuto di mandare assolto Sistro Giuseppe, per non
aver commesso il fatto.
La condotta distrattiva originariamente contestata sub a) era consistita nella intervenuta
alienazione, materialmente effettuata con la stipula del relativo contratto dinanzi al notaio, ad
opera dell’amministratore legale Sistro Agostino, di due immobili costituenti il patrimonio
immobiliare della fallenda: tale alienazione, formalizzata il 5 giugno 2003 in favore di Cedolin
Rinaldo, era avvenuta, secondo l’ipotesi accreditata dai giudici del merito, in assenza di
effettiva contropartita per la società cedente Friulcos, atteso che il prezzo pattuito, pari a poco
più di 381 mila euro, oltre Iva, non era stato mai versato ma ritenuto compensato con una
partita debitoria appositamente creata a favore del Cedolin: e ciò era avvenuto con la
programmazione, contestuale agli atti preparatori della già descritta cessione di immobili, e
con la stipula, altrettanto contestuale, del 5 giugno 2003, di un contratto con il quale il Cedolin
aveva ceduto le proprie quote di partecipazione ( al 95 %) nella Friulcos, alla società (Healthy
srl) di cui Sistro Agostino era stato, parimenti, amministratore.
In conclusione, si era pervenuti ad una situazione nella quale Cedolin vantava un credito nei
confronti di società Healthy amministrata da Sistro Agostino, pari al prezzo delle azioni a quella
cedute ( di C 476.000) e, contemporaneamente, lo stesso Cedolin era divenuto anche debitore
del prezzo ( sopra indicato) da corrispondere in relazione all’acquisto degli immobili cedutigli
dalla società Friulcos, divenuta amministrata dallo stesso Sistro Agostino: le due partite erano
state, così, compensate- a parte un conguaglio materialmente effettuato da Sistro Giuseppe,
con assegno risultato poi scoperto- e sostanzialmente la cessione degli immobili di Friulcos a
Cedolin era risultata una operazione volta a realizzare il pagamento , a Cedolin, delle azioni
cedute alla società amministrata da Sistro Agostino. Tanto aveva dato luogo al fatto, di natura
distrattiva, della cessione degli immobili della fallenda in assenza di contropartita per la stessa
cedente.
Anche Cedolin aveva finito per ammettere la reale natura dell’operazione, consentendo poi al
curatore di vendere i due immobili in questione, attraverso il rilascio di due procure.
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lato, è stato ribadito il giudizio di responsabilità pronunciato nei confronti di Sistro Agostino, in
ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria ex articolo 223 comma 1
legge fallimentare, e, per altro verso, è stata invece pronunciata, in riforma della sentenza di
primo grado, assoluzione nei confronti di Sistro Giuseppe, imputato dello stesso reato, in

La ulteriore condotta distrattiva aveva riguardato somme, per un complessivo valore di 16000
euro, ingiustificatamente prelevate dalla cassa della società.
La Corte d’appello aveva ritenuto provati i fatti a carico di Sistro Agostino pur rilevando che la
condotta contestata al Sistro Giuseppe non appariva di rilevanza penale perché non risultava
provato, a suo carico, il ruolo di amministratore di fatto e tantomeno quello dell’ideatore
dell’intera operazione sopradescritta.

il vizio della motivazione in ordine alla assoluzione di Sistro Giuseppe.
Tale imputato era risultato implicato assieme al figlio Agostino, nell’acquisto delle azioni
della Friulcos, cedute da Cedolin, e tali da fargli acquistare il possesso di una società già
decotta che, contemporaneamente, era stata svuotata anche di tutto il suo patrimonio
immobiliare mentre, di lì a poco, era stata spogliata anche della cassa.
Si era trattato di un’operazione che aveva, in primo luogo, beneficato il Cedolin il quale
si era liberato di una società ormai improduttiva ma, contemporaneamente, ne aveva
messo al sicuro il patrimonio immobiliare. Per converso, i due Sistro avevano reso
possibile tale operazione, finendo di spogliare le casse della società Friulcos.
Aggiunge il Procuratore generale che la piena implicazione di Sistro Giuseppe nell’intera
operazione distrattiva avrebbe dovuto essere desunta dal fatto che egli si era reso
personalmente autore dell’illustrazione, nella assemblea del 4 giugno 2003, di
mirabolanti piani di rilancio di una società, in realtà ormai prossima al fallimento e
completamente inattiva, così dimostrando di essere parte del disegno truffaldino nei
confronti dei creditori della Friulcos, disegno avviato ben prima dei rogiti notarili e cioè
nel maggio 2003, con la predisposizione dei contratti preliminari.
D’altra parte, l’impugnante segnala la manifesta illogicità di una decisione che vede il
Sistro favorire inconsapevolmente il figlio, invece del tutto responsabile di un piano di
distrattivo già da tempo avviato.
La Corte aveva anche ignorato che il resistente aveva emesso un assegno a parziale
copertura dell’acquisto delle azioni del Cedolin ed aveva anche beneficiato di somme
prelevate ingiustificatamente dalle casse della società.
In ultima analisi, era in violazione di legge la decisione di ritenere non provato il ruolo di
amministratore di fatto in capo a Sistro Giuseppe, per la cui affermazione di
responsabilità sarebbe bastata, comunque, la illustrazione del ruolo di extraneus,
concorrente con l’amministratore.
Deduce difensore di Sistro Agostino
1) l’inosservanza degli articoli 42 e 43 CP e il vizio della motivazione.
Sotto il secondo profilo, in particolare, il difensore lamenta la mancanza assoluta di
motivazione in ordine agli argomenti difensivi illustrati anche nei motivi aggiunti
depositati il 20 novembre 2012, a sostegno della tesi dell’essere stato, il ricorrente, un
mero prestanome di Rinaldo Cedolin, del tutto inconsapevole della natura distrattiva
dell’operazione dallo stesso ideata.
Infatti si era segnalato che il ricorrente aveva svolto le funzioni di amministratore della
fallenda per un solo mese, da giugno a luglio 2003, quando si era reso autore dell’unico
atto posto in essere nella detta qualità e cioè l’alienazione dei due immobili a Cedolin:
si era però trattato di un atto dovuto e cioè meramente esecutivo della deliberazione, in
tal senso assunta un mese prima, dal consiglio d’amministrazione della Friulcos, quando
esso ricorrente non aveva ancora assunto la carica di rappresentante di tale società
mentre dominus di essa era proprio Cedolin, l’unico avvantaggiato dall’intera
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Deduce il Procuratore generale

operazione. E ciò era tanto vero che Sistro Agostino, acquistando le azioni possedute da
Cedolin, era venuto in possesso di azioni ormai prive di valore a seguito della cessione
degli immobili.
Proprio questa constatazione avrebbe dovuto far ritenere l’imputato come una mera
“testa di legno”, che operava accanto e a favore di Cedolin, senza tuttavia essere al

Ma, oltre al vizio della motivazione sotto il profilo indicato, sotto altro profilo, analogo
vizio discendeva anche dal rilievo che il giudice dell’appello si era comunque sottratto al
dovere, su di esso gravante, di indicare la prova del detto elemento soggettivo.
A parere del difensore, tale elemento si integra con la prova della consapevolezza, in
capo all’imputato, dello stato di decozione della società: una consapevolezza che non
può farsi apoditticamente discendere dalla assunzione della carica rappresentativa e
tantomeno da una generica presunzione di inverosimiglianza della tesi difensiva.
Sostiene il difensore che tale elemento soggettivo deve coprire anche la dichiarazione di
fallimento che è evento del reato di bancarotta: tale dichiarazione, o meglio lo stato di
insolvenza, deve essere preveduto e voluto dall’imprenditore che distrae, come effetto
della propria condotta, quantomeno a titolo di dolo eventuale.
Su tale punto la sentenza impugnata non contiene alcuna motivazione, tanto più
improbabile in quanto, nel caso di specie, l’imputato aveva operato per brevissimo
tempo;
2) l’inosservanza dell’articolo 40 c.p. e il vizio della motivazione.
Avrebbe dovuto essere motivata dalla Corte anche la incidenza della condotta
addebitata all’imputato, sul dissesto della società.
Sostiene il difensore che tale onere motivazionale discendeva direttamente dalla nuova
formulazione dell’articolo 223 legge fallimentare, dipendente dal decreto legislativo
numero 61 del 2002: tale novella aveva trasformato il reato, da delitto di mera
condotta, in delitto con evento di danno che va individuato nel dissesto della società e
che deve porsi in rapporto eziologico con la condotta penalmente rilevante.
Una simile lettura della norma indicata deve coinvolgere, ad avviso del impugnante, non
solo il secondo comma dell’articolo 223 ma anche il primo comma della stessa norma
che deve essere letto come strutturato in modo tale da avere creato un rapporto
necessario tra mala gestio e responsabilità di natura fallimentare.
Il fallimento, in altri termini, va ora considerato come elemento costitutivo e più in
particolare, come evento del reato, non più come condizione obiettiva di punibilità.
Ragionare diversamente porterebbe a ritenere che le condotte di mala gestio sarebbero
prive di punibilità se poste in essere da amministratore di società non fallita e, per
converso, le condotte lecite degli amministratori di una società in bonis, diventino
illecite se ad esse consegua, senza alcun rapporto di causalità, il fallimento .
Aggiunge il difensore che il principio fin qui illustrato è stato enunciato, da ultimo, anche
dalla giurisprudenza di legittimità ed in particolare dalla sentenza n. 47502 del 2012.
Questa aveva invero affermato che non può più darsi una presunzione juris et de jure
del rapporto causale fra condotta dolosa dell’imprenditore e fallimento ma
o
quest’ultimo elemento va considerato oggettivamente, ed allora è condizione obiettiva
di punibilità, o entra nella struttura causale del reato, ed allora deve essere oggetto di
indagine in concreto, pena la violazione dei principi costituzionali in tema di imputazione
personale della responsabilità penale ( art. 27 Cost.).
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corrente dei dettagli dell’operazione ideata da costui.
La Corte d’appello si era liberata della obiezione difensiva, con un passaggio
motivazionale meramente assertivo e dunque apodittico nonché in violazione
dell’articolo 125 cpp.

Tanto premesso, il ricorrente rileva che sul punto non vi è alcuna motivazione ma, al
contrario, si rinviene in sentenza la affermazione precisa della risalenza dello stato di
decozione ad epoca antecedente alla condotta distrattiva : affermazione incompatibile
con la necessità di porre il fallimento in rapporto causale con la condotta addebitata al
ricorrente.

infondato, al pari di quello del difensore di Sistro

Il primo ricorso lamenta le conclusioni alle quali è giunto il giudice dell’appello, ribaltando in
radice la ricostruzione colpevolistica del primo giudice.
Sennonché il PG, pur affidandosi alla denuncia del vizio della motivazione, lamenta il mancato
accoglimento della propria tesi accusatoria sostanzialmente finendo per sostenere di non
condividere quella accreditata dal giudice territoriale, ma senza riuscire ad allegare e tanto
meno a dimostrarne la manifesta illogicità o la carenza su un punto decisivo.
Invero, la Corte d’appello ha motivato la presa di distanza dalla tesi accusatoria ritenendo di
dovere privilegiare il dato del dubbio (“..non si può escludere..”) in ordine al concorso
consapevole del padre nella condotta truffaldina posta in essere dal figlio, muovendo dal
presupposto che il materiale probatorio raccolto aveva riguardato solo la implicazione del
resistente nella fase successiva a quella della acquisizione delle quote della fallenda e quindi
successiva anche alla avvenuta cessione del patrimonio immobiliare, risultata gestita e
concretizzata soltanto da Cedolin e da Sistro Agostino.
Non ne era pertanto scaturito un quadro tranquillante in ordine alla dimostrazione che Sistri
Giuseppe avesse anche condiviso la gestazione dell’atto di compravendita che era servito a
compensare il mancato effettivo pagamento degli immobili alienati a Cedolin e quindi che fosse
partecipe a pieno titolo, quantomeno dal punto di vista soggettivo, della operazione ideata dal
Cedolin con il concorso del proprio figlio Agostino.
D’altra parte il ricorrente PG si appella a circostanze di fatto ( l’avere, Sistro Giuseppe, emesso
l’assegno a parziale pagamento delle quote; l’avere illustrato il finto piano di rilancio della
società fallenda) che hanno già formato oggetto di lettura critica da parte della Corte e che non
rappresentano un compendio probatorio univoco e interpretabile esclusivamente nei termini
proposti dal ricorrente.
La motivazione esibita dalla Corte, invero, non è incompatibile neppure con la tesi dell’avere, il
Sistro G. , manifestato il proprio ruolo di amministratore di fatto a partire da epoca successiva
a quella della distrazione con la nota illustrazione del piano di rilancio e non è incompatibile col
rilievo che egli beneficiò di una piccola somma ( i1010 euro) proveniente , ingiustificatamente,
dalle casse sociali, atteso che tale evento , atlete anche la modesta entità della cifra, non
prova, in sé, il consapevole concorso del resistente , quale extraneus, nella condotta distrattiva
posta in essere, anche su tale oggetto, dal figlio.
Deve concludersi osservando che il ricorso espone anche censure in fatto e quindi va respinto,
essendo prossimo a lambire il confine della inammissibilità.
Il ricorso di Sistro, come anticipato, è pure da respingere.
La prima parte del primo motivo di ricorso è invero inammissibile perché meramente ripetitiva
di analoga censura già sottoposta al giudice dell’appello e da questi affrontata con motivazione
congrua e completa che il difensore si limita ad aggredire con critiche generiche.
Laddove esso denuncia il vizio della motivazione in ordine agli argomenti difensivi che si
assumono rappresentati in una memoria aggiuntiva, si prospetta una censura non rispondente
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Il ricorso del Procuratore Generale è
Agostino .

ai canoni stabiliti dall’art. 581 cpp:norma che pretende la illustrazione specifica e dettagliata
delle censure in fatto e in diritto a sostegno del gravame, con la conseguenza che quando
siffatta illustrazione viene realizzata solo mediante il rinvio per relationem ai motivi di appello,

dello stesso giudice sotto il profilo della sua tenuta logica e della sua completezza.
Ad ogni buon conto, vale qui la pena di ricordare che, nella motivazione della sentenza
impugnata è ben presente il tema difensivo del non avere, Sistro Agostino, condiviso con
Cedolin il disegno truffaldino con le modalità sopra descritte.
E la Corte ha motivato in ordine alle ragioni della sua totale inattendibilità, pur tenendo conto
della brevità della durata del ruolo di amministratore legale ma sottolineando, per converso,
come anche le poche operazioni compiute dal ricorrente ( quella cioè della cessione degli
immobili, al pari degli altri prelievi, pure di natura distrattiva, comunque realizzati e contestati
nell’originario capo b)) sono state realizzate proprio avvalendosi della carica formale che lo
legittimava alla assunzione della determinazione per conto della società, sicchè è apparsa del
tutto eccentrica la tesi secondo cui Agostino si sarebbe limitato ad interpretare il proprio ruolo
come “testa di legno”. Un ruolo- quest’ultimo- che in tanto si configura in quanto
l’amministratore formale rimanga inattivo e sia affiancato da altri che lo sostituiscano, di fatto,
nella attività gestoria, tanto da esporsi al rischio- il primo- di essere chiamato a rispondere di
fatti di bancarotta non già per comportamenti commissivi, ma per atteggiamenti omissivi e
cioè in ragione della violazione di obblighi impeditivi che su di esso incombono in relazione alla
carica formale rivestita.
Non può ricorrere, viceversa, la figura della testa di legno quando, come nel caso di specie, lo
stesso amministratore formale ponga comunque in essere attività negoziale e\o di gestione
delle risorse della società, a nulla rilevando che a tanto si determini nel prevalente interesse di
terzi.
Con la seconda parte del primo motivo e con il secondo motivo, il difensore denuncia poi la
mancata motivazione ( anche nella prospettiva della violazione di legge) in ordine all’elemento
soggettivo del reato di bancarotta, inteso come previsione e accettazione del fallimento in
relazione alla condotta addebitata, e in ordine, altresì, al rapporto di causalità che dovrebbe
intercorrere tra la condotta distrattiva e il fallimento.
Giova qui evidenziare che tutto il tema sollevato nel secondo motivo di ricorso vale a
denunciare un vizio che non è stato rappresentato nei motivi di appello ed è per questo da
ritenere precluso stante il disposto dell’art. 609 comma 2 cpp che impone alla Cassazione di
rispondere alle questioni non proposte nei motivi di appello solo se ed in quanto sarebbe stato
impossibile farlo.
D’altra parte è da escludere che sia ravvisabile un vizio di motivazione ogni volta in cui , nella
sentenza impugnata, non vengano ripercorsi tutti e per intero i passaggi logici riguardanti ogni
possibile aspetto strutturale del reato o del suo trattamento, essendo sin troppo facile
osservare che la impugnazione , nel sistema vigente, è regolata dal principio devolutivo, sicchè
il giudice dell’appello è chiamato a motivare solo sulle questioni ad esso specificatamente e
ammissibilmente dedotte.
Può comunque osservarsi che la questione sollevata è del tutto infondata dal momento che non
è per nulla condivisibile, alla stregua della giurisprudenza pressoché univoca della Cassazione ,
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si cade in pieno nella situazione sanzionata dall’art. 591 cpp. Infatti, tale generico rinvio non
consente a questa Corte di legittimità di percepire, anche con la immediatezza che serve a
soddisfare il preventivo vaglio di ammissibilità, il requisito della rilevanza delle questioni, alla
luce della motivazione comunque fornita dalla sentenza impugnata, essendo noto che anche
quando il giudice dell’appello non risponde ad un motivo di impugnazione , la giurisprudenza di
legittimità ammette la eventualità di una motivazione comunque non censurabile, se il tema
non affrontato è contrastato e superato dagli argomenti di segno contrario comunque illustrati
dal giudice ovvero se quel tema è comunque incapace di incidere sulla trama argomentativa

la tesi della necessaria delineazione del reato di bancarotta fraudolenta impropria, di cui al

costruzione delle due fattispecie di bancarotta.
Ed invece, come la giurisprudenza di questa Corte da oltre un cinquantennio sostiene, con
l’avallo delle Sezioni unite (sentenza del 25 gennaio 1958, rv 98004) e come ha ribadito la
dottrina anche dopo la sentenza Corvetta, non è previsto, nel reato di bancarotta fraudolenta
sia propria (ex articolo 216 legge fallimentare) che impropria (ex articolo 223 comma 1 legge
fallimentare che si richiama precisamente ai fatti preveduti nell’articolo 216), il requisito del
nesso di causalità tra condotta distrattiva e fallimento.
Non è previsto, cioè, dalla lettera della legge, che punisce “l’imprenditore che ha distratto” e
non già “l’imprenditore che ha cagionato il fallimento” e non è previsto nemmeno dalla ratio
delle norme che intendono punire la condotta distrattiva in ragione non già della sua effettiva
dannosità, ma della sua pericolosità per la tutela del bene giuridico protetto, anche prima
dell’intervento del giudice che emette la sentenza di fallimento. Si punisce, cioè, il pregiudizio
agli interessi della massa dei creditori non già per effetto dell’insolvenza, bensì per effetto
dell’ingiustificato depauperamento del patrimonio della società che deve servire a garantire i
loro crediti.
Va anche posto in evidenza che il contrario assunto della difesa, nell’affermare il necessario
rapporto di causalità, deve prospettarlo come relazione tra la condotta distrattiva e il dissesto,
che è il solo evento naturalistico in ipotesi rappresentabile e accettabile dall’imprenditore, a
differenza della sentenza dichiarativa di fallimento, che è circostanza dipendente da una
determinazione e valutazione di soggetto diverso, quale il Tribunale.
A tale rappresentazione va opposto, però, che la norma fallimentare di cui ci si occupa ( e cioè
l’art. 216 I. fall. e l’art. 223 comma 1 che a quella si richiama) valorizza testualmente la sola
“dichiarazione di fallimento” ossia la emissione del corrispondente provvedimento
giurisdizionale e non anche l’evento naturalistico del dissesto che non è neppure menzionato
nelle fattispecie citate.
Ne consegue che la dichiarazione di fallimento non può essere considerata, con riferimento alle
fattispecie sopra ricordate, evento del reato di bancarotta posto che questo è integrato dalla
condotta depauperativa la quale costituisce un comportamento che la stessa dottrina definisce
sempre “a rischio” per l’imprenditore, tanto che questi può essere sottoposto, in relazione alla
detta condotta, all’esercizio dell’azione penale, ai sensi dell’articolo 238 comma 2 legge
fallimentare, anche prima della dichiarazione di fallimento, sempre che ricorrano le condizioni
in essa previste.
Tra l’altro è anche utile ricordare che , dal punto di vista strutturale, è oggettivo che la
dichiarazione di fallimento non possa essere posta in relazione di causalità, all’interno delle
diverse ma omologhe figure di bancarotta post-fallimentare e di bancarotta fraudolenta
documentale, atteso che nel primo caso il fallimento non è certamente l’evento ma il
presupposto della condotta e, nel secondo caso, appare naturalisticamente assai difficile se non
impossibile concepire il fallimento stesso come evento della sola irregolare tenuta delle
scritture.
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comma 1 dell’art. 223 I. fall., come reato di danno, e quindi supponente un nesso di causalità
rispetto a questo, formalizzato col fallimento- al pari della fattispecie delineata dal secondo
comma della stessa norma.
Giova, a questo punto evidenziare, che per quanto il motivo qui in esame si appoggi alla
analoga tesi sostenuta nella sentenza Corvetta del 2012, quest’ultima appare isolata nel
panorama giurisprudenziale, non essendo stata seguita da alcuna decisione successiva ed
addirittura nemmeno da altra coeva.
La tesi della necessaria trasformazione del reato di cui al comma 1 in delitto di danno, in
assonanza con quello delineato nel comma 2, ad opera del legislatore del 2002, viene invero
rappresentata- anche dal ricorrente- alla luce del fatto che non si giustificherebbe una diversa

Queste ultime sono infatti caratterizzate da comportamenti che andavano ad incidere
direttamente, diminuendolo, sul valore del patrimonio destinato a garanzia dei creditori mentre
le condotte descritte nel comma due n. 1) dell’articolo 223 non presentavano tale connotato,
tanto da rendere necessaria, per essere rese rilevanti a titolo di bancarotta, l’individuazione
appunto del detto nesso di causalità, invero già previsto nel n. 2 comma 2 con riferimento
all’altrettanto generica menzione delle “operazioni dolose” e al fallimento della società.
Cioè è accaduto che il legislatore del 2002 è intervenuto sulla sola fattispecie del comma 2 n.
1. e ha trasformato quello che originariamente era ritenuto, anche dalla dottrina, un reato di
pericolo presunto, sospetto di incostituzionalità per manifesta irragionevolezza della sua
previsione, in un reato di danno, per la necessità del detto rapporto di causalità tra il reato
societario ed il dissesto.
Perciò è da escludere, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, che la previsione del
nesso di causalità nel menzionato comma secondo debba intendersi implicitamente ricognitiva
di analoga previsione sottesa anche alla fattispecie del comma primo, tanto più ove si osservi
che il legislatore del 2002 ben avrebbe potuto coinvolgere, nel proprio intervento innovatore,
anche il comma uno e, non avendolo fatto, ha espresso una volontà positiva che non può
essere ignorata.
Esso, lungi dal formulare una disposizione ricognitiva di un requisito implicitamente già
previsto, ha in realtà formulato una disposizione del tutto nuova, limitata alle ipotesi del
comma 2 n. 1 dell’art. 223 , tanto da comportare, secondo la sentenza delle SSUU Giordano
del 2008, la attestazione della abolitio criminis dei fatti reato commessi antecedentemente,
che non avessero contenuto anche la contestazione e l’accertamento del detto nesso di
causalità.
Quanto fin qui osservato vale a rendere evidente anche la infondatezza dell’ulteriore rilievo
difensivo che denuncia la assenza del requisito dell’elemento psicologico del reato, da
ritenersi, secondo l’impugnante, esteso fino a comprendere la previsione ed accettazione del
fallimento, inteso questo come evento del reato di bancarotta: requisito soggettivo la cui
mancanza risulta già rappresentata nei motivo di appello come pretesa non consapevolezza
del ricorrente, di subentrare in una situazione societaria già compromessa.
Si è già argomentato come la condotta peculiare e connotativa del reato di bancarotta
patrimoniale sia rappresentata da quella, descritta dalla norma, capace di porre in pericolo gli
interessi dei creditori, mentre la dichiarazione di fallimento, pur menzionata dalla stessa norma
con la locuzione sopra ricordata, entra nella struttura del reato non come evento naturalistico
della attività depauperativa, non cioè come “risultato” di essa secondo lo schema dell’art. 43
cp, posto che il reato in commento è delineato come di pura condotta , connotato, piuttosto,
da evento di pericolo che è quello meramente “giuridico”, integrato dal portato della condotta
medesima ossia, come ben sottolineato dalla dottrina, l’esito che la norma vuole prevenire.
La dichiarazione di fallimento entra nella struttura del reato , in conclusione, come suo
elemento costitutivo ma non come evento .
Meglio di così si è espressa la Corte costituzionale nelle sentenze nn. 145 e 146 del 1982, ove
si è osservato che la dichiarazione di fallimento è stata richiamata dal legislatore “per la
esistenza del reato” e neppure , dunque, come condizione obiettiva di punibilità dal momento
che , è con l’intervento di essa che la messa in pericolo del bene protetto si presenta come
effettiva e reale. Non prima , ciò che dovrebbe verificarsi se la dichiarazione di fallimento si
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Ma anche l’argomento della sovrapponibilità fra l’ipotesi del comma uno e quella del comma
due dell’articolo 223 legge fallimentare, non trova spazio nella analisi della norma.
Ed infatti il menzionato comma due n. 1) – nel quale il legislatore del 2002, intervenendo su un
corpo normativo risalente a oltre mezzo secolo prima, ha introdotto espressamente il requisito
della causazione del dissesto – presenta una sua spiccata individualità rispetto alle fattispecie
del comma uno e dell’articolo 216 legge fallimentare.

punibilità
Alla luce di tale ricostruzione del reato in esame, è da escludere dunque, assieme alla
configurabilità del fallimento come evento del reato di bancarotta, anche la estensione
dell’elemento psicologico fino a “coprire” la stessa dichiarazione di fallimento, nel senso della
sua previsione e, quantomeno, accettazione come conseguenza della condotta distrattiva da
parte dell’agente.
Né tale ricostruzione può fondatamente ritenersi a rischio di denuncia di illegittimità
costituzionale sotto il profilo della violazione dell’art. 27 Cost. e cioè del principio della
necessaria “colpevolezza” dell’agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie
tipica, come scolpito dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalla nota sentenza n. 364
del 2008.
Infatti, a parte il rilievo che tale rimproverabilità è richiesta in riferimento non a tutti gli
elementi che entrano a comporre la fattispecie ma al fatto ritenuto capace di ledere il bene
giuridico protetto, va anche notato che il principio in questione appare rispettato proprio dalla
ricostruzione della fattispecie qui patrocinata, posto che oggetto dell’addebito è l’atto lesivo del
patrimonio posto a garanzia dei creditori , ritenuto tale per il suo carattere ingiustificato
(nell’ottica della finalità assegnata al patrimonio societario) e destinato ad essere l’oggetto sul
quale si parametra la consapevolezza e volontà dell’agente e la sua rimproverabilità.
E dunque, non semplicemente di un atto “lecito” o “legittimo” si tratta ( poi posto a carico
dell’imprenditore per effetto di un evento futuro ed incerto ad esso non necessariamente
imputabile come il fallimento) ma di un comportamento a rischio, che l’imprenditore pone in
essere già con la consapevolezza della opportunità della sua tempestiva “riparazione” non
fosse altro che per la eventualità di doverne rispondere anche solo a titolo di appropriazione
indebita o di illecito civile.
Per concludere la disamina della fattispecie qui presa in considerazione, va infine posto in
evidenza che l’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui agli
artt. 216 e 223 comma 1 I. fall. è stato efficacemente definito, da una parte della
giurisprudenza di questa Corte, come consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una
destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino, o
possano cagionare, danno ai creditori (Sez. 5, Sentenza n. 12897 del 06/10/1999 Ud. (dep.
11/11/1999 ) Rv. 214863; Sez. 5, Sentenza n. 29896 del 01/07/2002 Ud. (dep. 20/08/2002 )
Rv. 222388; Sez. 5, Sentenza n. 7555 del 30/01/2006 Ud. (dep. 02/03/2006 ) Rv. 233413;
Sez. 5, Sentenza n. 1325 del 13/12/1985 Ud. (dep. 05/02/1986 ) Rv. 171871).
In altri termini, la definizione del dolo generico del reato in termini di consapevolezza e volontà
di determinare, col proprio comportamento distrattivo o dissipativo, un “pericolo di danno per i
creditori”- non essendo sufficiente la sola consapevolezza e volontà del fatto distrattivocostituisce l’ importante riconoscimento, operato dalla detta giurisprudenza , che il reato in
esame punisce non già, indifferentemente e sempre, qualsiasi atto in diminuzione del
patrimonio della società ma soltanto e tutti quelli che quell’effetto sono idonei a produrre in
concreto, con esclusione, pertanto, di tutte le operazioni o iniziative di entità minima o
comunque particolarmente ridotta e tali, soprattutto se isolate o realizzate quando la società
era in bonis, da non essere capaci di comportare una alterazione sensibile della funzione di
garanzia del patrimonio. Con la conseguenza che una simile prospettiva deve avere rilievo
anche dal punto di vista dell’atteggiamento psicologo dell’agente.
Specularmente, al di fuori di tali particolari e residuali ipotesi, l’atto distrattivo che abbia
natura frodatoria o che comunque realizzi diminuzioni apprezzabili del patrimonio, ben può
farsi rientrare nel paradigma del precetto di bancarotta, senza necessità di ulteriori
contestualizzazioni o indagini soggettive- pur auspicate da autorevoli dottrine- poiché deve
prevalere il rilievo che il fatto distrattivo implica di per sé l’accettazione della conseguenza
8

presentasse soltanto come elemento esterno alla fattispecie, capace di condizionarne la

tipica della condotta, consistente nella sottrazione dei beni alla garanzia della massa dei
creditori cui erano destinati, anche se realizzata in epoca non prossima al fallimento.
In conclusione, tornando alla vicenda concreta, va anche evidenziato che non può dubitarsi che
la Corte territoriale abbia sostenuto esservi esattamente la prova della consapevolezza e

PQM
Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente Sistri Agostino
procedimento.
Così deciso in Roma il 4 giugno 2014
il Cons. est.
Il
sidente

al pagamento delle spese del

volontà, da parte dell’imputato, non solo degli atti distrattivi ma addirittura, proprio dello stato
fallimentare oramai raggiunto della Friulcos, acquisita dallo stesso prevenuto nel momento in
cui realizzava anche lo spoglio delle disponibilità finanziarie, le quali costituivano, in altri
termini, la sola possibilità di effettivo rilancio dopo una prolungata inattività. L’atto di spoglio,
in altri termini, nel caso in esame ha avuto esattamente il significato di rendere definitivo e
irrevocabile uno stato di decozione già manifestatosi.

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