Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 34827 del 19/06/2014


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Penale Sent. Sez. 4 Num. 34827 Anno 2014
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: GRASSO GIUSEPPE

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
MINNELLA ALFIO N. IL 03/07/1985
avverso la sentenza n. 3759/2013 TRIBUNALE di CATANIA, del
21/10/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;
lp.ttesentite le conclusioni del PG Dott.

Data Udienza: 19/06/2014

FATTO E DIRITTO

1. Il Tribunale di Catania con sentenza del 28/10/2013, all’esito di richiesta delle
parti ai sensi dell’art. 444, cod. proc. pen., applicò nei confronti Minnella Alfio,
imputato di violazione dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, la pena concordata
dalle parti medesime, previo riconoscimento dell’ipotesi di cui al comma 5 del
citato art. 73, esclusa la recidiva, operato l’aumento per la continuazione ed

2. Avverso la sentenza l’imputato propone ricorso per cassazione con il quale
denunzia vizio motivazionale e violazione di legge in ordine all’entità del
trattamento penale e al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

3. Il motivo non ha pregio in quanto espone censure attinenti al merito delle
valutazioni, sottese al consenso prestato dalle parti medesime (giurisprudenza di
legittimità consolidata: Cass. Sez. 4 Sent. n. 20165 del 29/04/04, rv 228567;
Cass. Sez. 4 Sent. n. 3946 del 30/03/98, rv 210639; Cass. Sez. 1 Sent. n. 6898
del 24/01/97, rv 206642; Cass. Sez. 4 Sent. n. 8060 del 20/08/96, rv 205835;
Sez. III, 3/5/2011, n. 23804).
Condivisibilmente si è, di recente (Cass., Sez. IV, n. 27733 del 18/11/2011;
nello stesso senso, Cass., Sez. Fer., n. 32078 del 12/8/2010) chiarito che nel
procedimento di applicazione della pena su richiesta (art. 444 e ss. c.p.p.), le
parti (anche quella pubblica) non possono prospettare con il ricorso per
cassazione questioni incompatibili con la richiesta di patteggiamento, in
particolare afferenti le prove risultanti dagli atti del procedimento nonché la
qualificazione giuridica del fatto risultante dalla contestazione, in quanto l’accusa
come giuridicamente qualificata non può essere rimessa in discussione. Ne
consegue che, una volta pronunciata la sentenza che ha recepito l’accordo, sul
quale il giudice ha preventivamente esercitato il suo potere di controllo, le parti
(anche quella pubblica) non possono più prospettare questioni e sollevare
censure con riferimento all’applicazione delle circostanze e alla entità della pena,
che non sia illegale.
Né tale doglianza può essere formulata prospettando il difetto di motivazione, in
quanto, con l’accordo intervenuto tra loro, le parti hanno implicitamente
esonerato il giudice dell’obbligo di rendere conto (almeno “inter partes”) dei
punti non controversi della decisione, non potendosi pretendere l’esposizione dei
motivi di un convincimento che le parti stesse hanno già fatto proprio.

4. Non di meno la statuizione deve essere, per altra ragione, annullata.

effettuata la riduzione del rito.

All’imputato è stata riconosciuta l’ipotesi (all’epoca costituente attenuante) di cui
al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, che, secondo la disciplina al
tempo vigente, importava una pena da uno a sei anni di reclusione e da 3.000 a
26.000 euro.
Con il decreto legge 20/3/2014, n. 36, ora convertito nella legge 16/5/2014, n.
79, alla fattispecie in esame, riscritta come autonoma ipotesi di reato, è stato
attribuito un diverso e meno grave trattamento sanzionatorio: da sei mesi a
quattro anni di reclusione e da 1.032 a 10.329 euro di multa (nella prima

convertito nella L. 21/2/2014, n. 10, le cui previsioni sono state prematuramente
poste in crisi dalla sentenza della Corte cost. n. 32/014, con la quale è stato
dichiarata costituzionalmente illegittima l’equiparazione trattamentale, a
prescindere dalla qualità delle sostanze stupefacenti, operata con la novella
apportata all’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 dall’art. 4bis, comma 1, lett. b, D.L.
30/12/2005, convertito nella L. 21/2/2006, n. 49, il reato risultava punito con la
reclusione da un anno a cinque anni e con la multa da 3.000 a 26.000 euro).
In sede di legittimità, si è più volte chiarito (Cass., Sez. V, n. 345 del
13/11/2002, Rv. 224220; Sez. I, n. 1711 del 14/4/1994, Rv. 197464) in siffatti
casi che il rispetto del principio di legalità della pena (comb. disp. art. 2, comma
4, cod. pen. e 129, comma 2, cod. proc. pen.) impone annullamento d’ufficio
della statuizione di merito. Salvo a registrasi contrasto sull’idoneità del ricorso
inammissibile a dar vita ad un tale esercizio officioso (in senso contrario: Sez. II,
n. 44667 dell’8/7/2013, Rv. 257612; Sez. V, n. 36293 del 977/2004, Rv.
230636; nel senso dell’ininfluenza: Sez. VI, n. 21982 del 16/5/2013).
Siccome condivisamente illustrato in profondità nella sentenza di questa stessa
Sezione n. 13903/14 del 28/2/2014, il principio di retroattività della norma più
favorevole si fonda sulla legge ordinaria (art. 2, comma 4, cod. pen.) e,
giudicata non pertinente l’evocazione degli artt. 13 e 25, Cost., sull’art. 3 Cost.
Pertanto

«Il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di

retroattività della lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli
dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto
comunitario – impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere
sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo
(quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del processo, della
salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della
funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera
collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo; cfr.
sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n.353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n.
54 del 1993). Con la conseguenza che Io scrutinio di costituzionalità ex art. 3

versione di reato autonomo minore introdotta con il D.L. 23/12/2013, n. 146,

Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più
favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non
essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente
irragionevole» (C. cost. sent. n. 393/2006; per la giurisprudenza di legittimità,
Sez. 3, n. 34117 del 27/04/2006 – dep. 12/10/2006, Alberini e altro, Rv.
235051).
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 236 del 19/7/2011, dopo aver ripreso
le norme sovranazionali rilevanti in materia, ha escluso che l’art. 7 CEDU

nella CEDU si rinviene il limite del giudicato, valicabile, invece, secondo lo stato
dell’elaborazione interna, oltre a segnare un’incidenza, per estensione di materia,
inferiore all’area delineata dall’art. 2, comma 4, cod. pen.

6. Ciò premesso, il patto, sotteso alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 444,
cod. proc. pen., oggi risulta essersi formato in relazione ad una sanzione penale
da ritenersi ormai contra legem, dovendo trovare applicazione il nuovo regime
sanzionatorio più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen., non
ostandovi nessuna delle superiori esigenze individuate dalla Corte Costituzionale
nella sentenza n. 393, sopra citata.
Ciò posto, caduto il patto, le parti restano libere di riformulare, alla luce del
nuovo trattamento penale, il nuovo accordo, il quale, è bene chiarire, ove i limiti
edittali nuovi lo consentano, può anche confermare, se del caso, la
quantificazione precedente.

7.

S’impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della statuizione, con

trasmissione degli atti per il prosieguo (giudizio ordinario o nuovo
patteggiamento).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la impugnata sentenza e dispone la trasmissione degli atti al
Tribunale di Catania per ulteriore corso.

Così deciso in Roma il 19/6/2014

IL FJJJDQ IONARIO GIUDIZIARIO

J’f ott. Giovanni R

imponga una maggior tutela della retroattività della lex mitior, anzi rilevando che

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