Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 34568 del 22/05/2014


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Penale Sent. Sez. 6 Num. 34568 Anno 2014
Presidente: CONTI GIOVANNI
Relatore: FIDELBO GIORGIO

SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1) Raffaele Genovese, nato a Messina il 28.12.1964
2)Vittorio Di Pietro, nato a Messina il 2.1.1977;
avverso le ordinanze del 7 gennaio 2014 emesse dal Tribunale di Messina;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere Giorgio Fidelbo;
udito il sostituto procuratore generale Sante Spinaci, che ha concluso
chiedendo il rigetto dei ricorsi;
udito l’avvocato Pietro Luccisano, che ha insistito per l’accoglimento dei
ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con due distinte ordinanze emesse il 7 gennaio 2014 il Tribunale di
Messina, in sede di riesame, ha confermato il provvedimento del 12 dicembre
2013 con cui il G.i.p. dello stesso Tribunale aveva disposto la misura della

Data Udienza: 22/05/2014

custodia in carcere nei confronti di Vittorio Di Pietro e Raffaele Genovese,
entrambi gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis c.p., perché
partecipi di una “congrega criminale” operante nel territorio di Camaro.

2. L’avvocato Pietro Luccisano, nell’interesse dei due indagati, ha proposto
ricorso per cassazione, deducendo, con un unico motivo, l’illogicità della

e 416 c.p.
Innanzitutto, nel ricorso si censura l’ordinanza per avere ritenuto la
sussistenza dell’associazione mafiosa sulla base delle accuse dei collaboratori
che non avrebbero avuto alcuna conoscenza diretta dei fatti, come Gaetano
Barbera, ininterrottamente detenuto dal giugno 2005, ovvero delle
dichiarazioni rese da Massimo Burrascano e da Santo Balsamà prive di
elementi da cui desumere l’esistenza dell’associazione; inoltre, si sostiene
che l’ordinanza impugnata non contiene alcuna valutazione concreta sugli
elementi che dovrebbero caratterizzare l’organizzazione mafiosa, quali la forza
intimidatrice del vincolo, la condizione di assoggettamento e la condizione di
omertà, sottolineandosi che l’esistenza dell’associazione viene desunta
unicamente dai precedenti penali dei suoi presunti partecipi; infine, si
denuncia l’erronea applicazione della legge penale e la totale assenza di
motivazione in ordine alle deduzioni difensive con cui si era sostenuto, in via
subordinata, l’esistenza dell’associazione semplice.
Riguardo alle posizioni dei due indagati, nel ricorso si evidenzia come il
Genovese sia stato ammesso al regime di semilibertà dopo una lunghissima
detenzione che lo ha tenuto lontano dalla sua città, sicché non risulta chiaro in
che modo avrebbe partecipato all’associazione; inoltre si rileva come del tutto
privo di significato appaia l’episodio dell’invio del denaro all’indagato da parte
di Francesco la Rosa, suo cognato; allo stesso modo si contesta il rilievo dato
nell’ordinanza impugnata alle dichiarazioni accusatorie e alle stesse
intercettazioni.
Per quanto attiene al Di Pietro si evidenzia che la partecipazione
all’associazione viene desunta esclusivamente dalla condanna per il tentativo
di estorsione ai danni di Carmelo Lascari e dai suoi rapporti di amicizia con La
Rosa, elementi che non giustificano il provvedimento cautelare.

2

motivazione e l’erronea applicazione degli artt. 273, 274, 275 c.p.p., 416-bis

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. I motivi dedotti sono manifestamente infondati.

3.1. L’ordinanza impugnata evidenzia una serie di elementi per ritenere
sussistente l’associazione mafiosa.

(Gaetano Barbera, Massimo Burrascano e Santo Balsamà), delle dichiarazioni
delle persone offese (Giovanni Milazzo, Francesco Lo Re) e dei risultati delle
intercettazioni risulterebbe l’esistenza di un’associazione, con chiare
connotazioni mafiose, dedita principalmente ad attività estorsive in danno dei
cantieri ed esercizi commerciali e all’attività di spaccio di droga, capeggiata da
Francesco La Rosa e dai cognati Antonino e Raffaele Genovese, di cui avrebbe
fatto parte anche Vittorio Di Pietro assieme ad altri, tra cui Gianfranco La
Rosa, Francesco Di Biase, Santi Ferrante, Giovanni Lanza, Enrico Olivieri e
Salvatore Triolo. A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, i giudici del
riesame si sono soffermati a verificare l’attendibilità dei collaboratori e dei vari
dichiaranti, operando anche una serie di riscontri dai quali hanno ricostruito la
struttura dell’associazione, la sua composizione, il ruolo dei suoi partecipanti, i
rapporti con altre famiglie mafiose della zona, mettendo in rilievo i metodi
utilizzati per indurre sudditanza psicologica ed omertà nei settori sociali ed
economici verso cui erano destinate le attività illecite, soprattutto estorsive,
poste in essere dagli affiliati.
Si tratta di una motivazione che appare del tutto coerente e logica per
ritenere, allo stato, sussistenti i gravi indizi del reato associativo.

3.2. Per quanto riguarda il coinvolgimento dei due ricorrenti
nell’associazione si osserva che la partecipazione del Di Pietro viene desunta
soprattutto dai colloqui registrati, da cui si traggono indizi per affermare che
Di Pietro ha ricevuto aiuti in carcere dall’associazione, elemento questo che
viene correttamente valorizzato per ritenere la sua intraneità, essendo notorio
che l’associazione aiuta, anche economicamente, i familiari dei suoi partecipi
che si trovino in stato di detenzione. Particolarmente significativo è il
colloquio, riportato in motivazione, che l’imputato ha avuto con la sua
convivente, rimproverata perché voleva rifiutare gli aiuti forniti

3

Secondo il Tribunale sulla base delle accuse dei collaboratori di giustizia

dall’associazione, comportamento questo che preoccupava il Di Pietro,
potendo questo rifiuto essere male interpretato dai vertici del gruppo
criminale.
Peraltro, i giudici hanno dato rilievo anche all’accertata commissione del
reato di estorsione, in quanto lo stesso Di Pietro riconosce, nel corso dei
colloqui intercettati con i suoi familiari, che non si sarebbe potuto sottrarre dal

in quanto associato non poteva rifiutarsi.

3.3. La partecipazione del Genovese viene desunta dalle intercettazioni di
colloqui dai quali risulta che riceveva assistenza dall’associazione. Anche in
questo caso la circostanza di ricevere aiuti da esponenti dell’associazione
viene ritenuto un sintomo evidente della intraneità dell’imputato alla
consorteria mafiosa. In particolare, l’ordinanza riporta una serie di
conversazioni tra Francesco La Rosa e Francesco Irrera, in cui il primo,
cognato dell’imputato, chiede al secondo denaro in favore del Genovese che si
apprestava a tornare in carcere; sempre La Rosa in un colloquio con i suoi
familiari accenna al fatto che occorre mettere da parte una somma per
Genovese, indicandolo come uno dei detenuti che dovevano essere mantenuti.
Si tratta di elementi a forte carica indiziaria, che correttamente il Tribunale ha
ritenuto sintomatici dell’appartenenza dell’imputato all’associazione.

4. Alla manifesta infondatezza dei motivi consegue l’inammissibilità dei
ricorsi, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e
di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, che si ritiene
equo determinare in euro 1.000,00 per ciascuno.
La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1-ter
disp. att. c.p.p.

P. Q. M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali e ciascuno a quella della somma di euro 1.000,00 in favore
della cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1-ter
disp. att. c.p.p.

4

compiere il delitto, lasciando intendere che gli era stato commissionato e che

Così deciso il 22 maggio 2014

Il Presidente

Il Consigli re estensore

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