Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 34440 del 07/06/2016

Penale Sent. Sez. 6 Num. 34440 Anno 2016
Presidente: IPPOLITO FRANCESCO
Relatore: BASSI ALESSANDRA

SENTENZA
sui ricorsi proposti da
A.A.
B.B.
D.D.

avverso la sentenza del 27/02/2015 della Corte d’appello di Lecce

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Maria
Giuseppina Fodaroni, che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata
con rinvio per la posizione di B.B. con limitato riguardo all’art. 62 n. 4 c.p.
relativo al residuo capo A) e che il ricorso sia rigettato nel resto; che i ricorsi
degli altri ricorrenti siano rigettati;
udito il difensore della parte civile Università del Salento, avv. Giulio De Simone,
che ha concluso come da conclusioni scritte e nota spese;
uditi i difensori, Avv. Enzo Musco per A.A., Avv. Luigi Leonardo Covella per
B.B. e Avv. Andrea Sambati per D.D., che hanno concluso chiedendo
l’accoglimento dei ricorsi.

Data Udienza: 07/06/2016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 18 giugno 2012, il Tribunale di Lecce ha condannato
D.D. alla pena di anni due e mesi tre di reclusione per i reati,
unificati sotto il vincolo della continuazione, di cui ai capi C) e G);
B.B. alla pena di anni quattro di reclusione per i reati, unificati sotto il
vincolo della continuazione, di cui ai capi A), B), C), E) e G) ed A.A.
alla pena di anni tre e mesi nove di reclusione per i reati, unificati sotto il vincolo

diversi episodi di peculato commessi dai tre ricorrenti nelle diverse qualità segnatamente A.A. quale Rettore dell’Università del Salento, B.B., quale
Responsabile del centro di responsabilità della Segreteria del Rettore, e
D.D. , quale impiegato presso la segreteria del Rettore e stretto collaboratore
di A.A.- per avere compiuto, per ragioni estranee alle ragioni d’ufficio, una
serie di spese con risorse dell’Università del Salento (segnatamente, acquisti di
beni di varia natura – lampadine, un televisore ed un telefono cellulare – e
pagamenti di pasti al ristorante e di un viaggio aereo).

2. Con il provvedimento in epigrafe, in parziale riforma dell’appellata
sentenza, la Corte d’appello pugliese ha riconosciuto ad D.D.  la
circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. e, per l’effetto, ha ridotto la
pena inflittagli in anni uno e mesi sette di reclusione, con i benefici della
sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna; ha
confermato nel resto l’impugnata decisione nei confronti di A.A. e
B.B..
2.1. Dopo avere dato atto dei motivi di ricorso proposti da ciascuno degli
imputati, il Giudice d’appello ha preliminarmente affrontato le eccezioni di natura
processuale e – per quanto qui interessa – ha rilevato:
a) che il decreto originario di autorizzazione delle intercettazioni telefoniche
emesso dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Lecce in data 30
ottobre 2006 è ampiamente motivato, in quanto contiene una puntuale
ricostruzione degli elementi indiziari a carico di Raffaele Attisani (coimputato nel
medesimo processo) per i reati di cui agli artt. 48, 476 e 479 cod. pen. (v.
pagine 13 – 14 della sentenza in verifica) e risponde in termini adeguati in
merito al profilo concernente l’indispensabilità dell’attività di intercettazione (v.
pagine 15 e 16);
b) che, quanto alla dedotta inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni
per violazione del disposto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. sul presupposto che
i reati per cui si procede sarebbero riconducibili ad un “procedimento diverso” da
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della continuazione, di cui ai capi B), E), G) ed H). Le contestazioni concernono

quello in cui venne emesso il primo decreto autorizzativo (sollevata dalla difesa
del A.A.), secondo il principio espresso da questa Suprema Corte, gli esiti
delle intercettazioni legittimamente autorizzate all’interno di un determinato
procedimento sono utilizzabili ai fini della prova di tutti gli altri reati del
medesimo procedimento allorché, in relazione ad essi, sussistano i requisiti di cui
all’art. 266 cod. proc. pen. In ogni caso, anche ad accedere alla nozione
“sostanzialistica” del diverso procedimento ai sensi dell’art. 270 cod. proc. pen.,
nella specie si tratterebbe di fatti emersi nell’ambito del medesimo filone

collegata sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico) e dunque relativi ad
un identico procedimento (v. pagine 16 – 17).
2.2. Nel merito, quanto al reato di cui al capo A) (contestato al solo
B.B.; peculato concernente l’acquisto di 10 lampadine LED destinate alla
figlia dell’imputato), la Corte ha dapprima riportato i passi più rilevanti della
sentenza del Tribunale (con particolare riguardo agli elementi a carico, costituiti
dal rinvenimento in data 5 luglio 2007 presso l’abitazione della figlia
dell’imputato di scatole – vuote e piene – di lampadine a basso consumo; dagli
esiti di diverse intercettazioni; dalla documentazione acquisita presso la ditta
fornitrice e dal buono d’ordine dell’Università che seguiva la dichiarazione di
responsabilità di spesa sottoscritta da B.B., quale capo di
gabinetto del Rettore). Indi, la Corte ha stimato corretta la ricostruzione
dell’episodio operata di primi giudici e corretta la ritenuta penale responsabilità
del B.B., in quanto basata su plurimi elementi convergenti (v. pagine 18 20).
2.3. In relazione al reato di cui al capo B) (ascritto a A.A. e B.B.;
peculato relativo alle cene del 3 e 30 marzo 2007 presso il ristorante “Blu
Notte”), il Giudice d’appello, dopo avere ricordato e fatto propria la ricostruzione
in fatto compiuta dal Tribunale (rispettivamente nelle pagine 20 – 21 e pagine
21-22 della sentenza), ha ritenuto che, sulla scorta delle emergenze probatorie
(captazioni e documentazione acquisita), non possano esservi dubbi che nessuna
delle due cene pagate con il denaro dell’Università non avesse una finalità
istituzionale (v. pagine 22 – 23).
2.4. Quanto al reato di cui al capo C) (imputato a B.B. e D.D.;
peculato concernente la cena del 2 giugno 2007 presso il medesimo ristorante
“Blu Notte” per l’anniversario di matrimonio del B.B.), dopo avere dato
conto delle evidenze a carico valorizzate dal primo giudice (contenuto di alcune
intercettazioni, documentazione fiscale consegnata dal titolare del ristorante e
documentazione acquisita presso l’Università; v. pagine 24 – 25), il Collegio
d’appello ha evidenziato, per un verso, come dalle conversazioni intercorse tra
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investigativo (e non semplicemente di un’indagine strettamente connessa e

B.B. e D.D. e gli SMS scambiati si evinca chiaramente che la cena del 2
giugno 2007 aveva natura conviviale e non istituzionale; per altro verso, come il
coinvolgimento consapevole nell’illecito del D.D.  emerga dall’invito del
B.B. a quest’ultimo a portarsi in un’altra stanza per telefonare al ristorante
“Il villino” ove avrebbe dovuto prenotare la cena (poi effettuata presso il “Blu
Notte” per indisponibilità di posti presso tale ristorante), nonché dal contenuto
degli SMS nel corso della cena quanto al pagamento (“pago dopo”), frase che
risulta priva di logica se B.B. avesse inteso pagare l’importo a fine cena di

la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (testimonianza del
ristoratore Maurizio Vergari), stante l’esaustività del quadro probatorio acquisito
(v. pagine 25 – 26).
2.5. In merito al reato di cui al capo E) (imputato a A.A. e B.B., oltre
a Leone non ricorrente; peculato concernente il prezzo di acquisto di un
televisore al plasma destinato all’abitazione del primo imputato), dopo avere
ripercorso la ricostruzione compiuta dal primo giudice (fondata sulle
intercettazioni telefoniche, sulle risultanze della perquisizione domiciliare, sulla
documentazione acquisita presso il negozio e l’Università nonché sulle
dichiarazioni di Tonio Lupo, impiegato dell’ufficio magazzino dell’Università; v.
pagine 27 – 29), il Giudice d’appello ha ricordato i plurimi indizi che depongono
per la riconducibilità ad un fittizio acquisto da parte dell’Università di materiale
informatico per coprire l’acquisto del televisore al plasma e dell’home

theatre

destinati al A.A. (v. pagine 29 – 30).
2.6. Con riferimento al reato di cui al capo G) (imputato a A.A., B.B.
e D.D.; peculato avente ad oggetto un telefono cellulare e la relativa SIM
destinati a Maria Cocciolo De Luca, badante della madre del A.A.), dopo avere
illustrato i passaggi più significativi della sentenza appellata (emergenze delle
intercettazioni, condotta del A.A. durante la perquisizione a casa e
documentazione acquisita; v. pagine 30 – 32), la Corte ha ribadito che – dalle
evidenze già ricordate dal primo giudice – emerge chiaramente come
l’apparecchio fosse stato acquistato con denaro dell’Università e destinato ad un
uso personale del A.A., con il diretto coinvolgimento nella vicenda di
D.D., che provvedeva all’acquisto, e del suo superiore B.B. (v. pagina
32).
2.7. Quanto al reato di cui al capo H) (imputato al solo A.A.; peculato
riguardante il prezzo di un viaggio aereo di andata e ritorno per Bologna e di un
pasto al ristorante), la Corte ha rilevato come, sulla base degli elementi già
evidenziati nella sentenza di primo grado (contenuto di alcune intercettazioni;
documentazione acquisita presso l’Università; ricevuta fiscale ed estratto conto
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tasca propria. Il Collegio ha rilevato l’insussistenza dei presupposti per disporre

della carta di credito intestata al Rettore; dichiarazioni rese dal Rettore
dell’Università di Bologna Calzolari e dal Prof. Sgubbi; v. pagine 32 – 34), sia
pacifico che il viaggio dell’appellante a Bologna fosse finalizzato ad incontrare
non il Rettore dell’Università, bensì il Prof. Sgubbi, noto avvocato penalista, che
avrebbe dovuto approntare la difesa dell’imputato in un’inchiesta a suo carico (v.
pagina 34).
2.8. In relazione alla sollecitata riqualificazione giuridica dei fatti da peculato
a truffa, dopo avere dato conto dei principi di diritto espressi da questa Suprema

merito ha evidenziato che, in relazione a tutti i reati in contestazione, gli
imputati, o quantomeno taluno di essi, avevano impiegato per finalità non
istituzionali denaro dell’Università, di cui avevano la disponibilità giuridica
(essendo B.B. funzionario preposto di autorizzare gli acquisti ed avendo
A.A. la disponibilità, in ragione dell’alta carica rivestita, di una carta di credito
dell’Università per spese istituzionali), ed avevano poi coperto le illecite
appropriazioni con azioni fraudolente (v. pagine 36 e 38).
2.9. La Corte ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento
sia delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 323-bis e 62-bis cod. pen., in
considerazione della gravità e pluralità dei fatti criminosi; sia della circostanza
attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., vista la rilevante entità del danno
cagionato. Il Collegio pugliese ha nondimeno applicato a D.D. la circostanza
attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., rideterminando in conseguenza la pena
ed applicando la sospensione condizionale della pena (v. pagine 38 e 39). La
Corte ha, infine, confermato le statuizioni civili a favore dell’Università del
Salento.

3. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Enzo Musco,
difensore di fiducia di A.A., e ne ha chiesto l’annullamento per i
seguenti motivi.
3.1. Violazione di legge processuale in relazione all’art. 270 cod. pen. Il
ricorrente si duole del fatto che, a fondamento del giudizio di penale
responsabilità, siano state poste le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche
disposte nell’ambito del presente procedimento autorizzate con decreto del 30 31 ottobre 2006 in relazione ad ipotesi di reato diverse da quelle di peculato,
segnatamente per quelle di cui agli artt. 48, 476 e 479 cod. pen. concernenti una
notizia di reato priva di collegamento con i fatti per i quali A.A. è stato
condannato; successivamente, le intercettazioni venivano autorizzate con
decreto del 27 aprile 2007 anche con riferimento ai rapporti illeciti tra alcuni
dirigenti del Comune di Lecce e altri dirigenti dell’Ateneo della medesima città;
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Corte nel tracciare la linea di demarcazione fra le due fattispecie, il Collegio di

soltanto nel decreto di proroga del 14 aprile 2007, comparivano per la prima
volta le ipotesi di peculato oggetto della condanna. Rimarca il ricorrente come si
tratti di vicende del tutto avulse da connessione o collegamento, oggettivo,
probatorio o finalistico con i fatti in relazione ai quali erano state autorizzate le
intercettazioni ed, a sostegno dell’assunto, rileva che, secondo le indicazioni che
vengono dalle Sezioni Unite di questa Corte (nella sentenza n. 326897/2014), la
nozione di procedimento diverso va ancorata ad un “criterio di valutazione
sostanzialistico”, il che non può valere anche in senso contrario, e cioè che

previsto dal citato art. 270, con riguardo a fatti privi di connessione e
collegamento. Il ricorrente aggiunge che le intercettazioni per i fatti di peculato
sono state autorizzate, non con un autonomo decreto di autorizzazione, ma con
il decreto di proroga del 14 aprile 2007, relativo alle intercettazioni disposte per
la diversa indagine e, ribadisce, per fatti diversi e “scollegati”.
3.2. Violazione di legge processuale in relazione agli artt. 267, comma 1, e
270, comma 1, cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia rigettato
l’eccezione di nullità dei decreti autorizzativi delle intercettazioni in quanto privi
di motivazione in merito alla gravità indiziaria ed alla indispensabilità delle
intercettazioni, non rispondendo a nessuna massima d’esperienza che i fatti
commessi nell’ambito di un ente locale abbiano “genericamente l’indispensabile
necessità” di essere accertati con strumenti invasivi come le intercettazioni
telefoniche perché l’ente sarebbe “struttura tendenzialmente chiusa”. Sotto
diverso profilo, il ricorrente deduce che, nell’originario decreto autorizzativo, non
veniva fatta nessuna parola in merito alla indispensabilità dell’accertamento a
mezzo delle intercettazioni con riguardo al reato di peculato, non potendo tale
lacuna essere sanata dalla motivazione del successivo decreto di proroga.
3.3. Vizio di motivazione, travisamento delle risultanze processuali ed
erronea applicazione degli artt. 314 e 43 cod. pen.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non ha risposto alle censure
difensive mosse con l’atto d’appello, limitandosi a riprodurre nella sostanza la
motivazione del primo giudice in maniera manifestamente illogica,
segnatamente: a) quanto alle cene del 3 e 30 marzo 2007, per avere
irragionevolmente trascurato le deduzioni a sostegno della dedotta finalità
istituzionale; b) quanto all’acquisto del televisore, per avere omesso di
considerare la discrasia fra il prezzo dell’apparecchio e l’importo fatturato; c)
quanto all’acquisto del telefono e della relativa scheda SIM, per avere trascurato
gli evidenziati buoni rapporti esistenti fra B.B. e Leone; d) quanto al viaggio
a Bologna, per avere risposto in termini apodittici alla dedotta finalità non
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l’identità formale del procedimento non vale a superare il divieto di utilizzazione

personale ma istituzionale dell’incontro con il Prof. Sgubbi ed omesso di motivare
sulla sussistenza del dolo.
3.4. Erronea applicazione di legge penale in relazione agli artt. 314, 640,
comma 2 n. 1 e 61 n. 9 cod. pen. e vizio di motivazione.
Lamenta il ricorrente che la Corte ha disatteso con motivazione meramente
assertiva la sollecitata riqualificazione del fatto quale truffa aggravata. Si
evidenzia al riguardo che, come affermato da questa Suprema Corte, è integrato
il delitto di cui all’art. 640 cod. pen., e non quello di cui all’art. 314 cod. pen., se

nell’ambito della quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente
infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua personale e materiale
disponibilità, è costretto a ricorrere ad una condotta decettiva. Ciò è accaduto
quanto all’acquisto del televisore ed al pagamento della cena al ristorante “Blu
Notte” del 30 marzo 2007, atteso che i relativi esborsi sono stati disposti a
seguito di una procedura articolata nella quale sono intervenuti gli uffici preposti
a verificare la regolarità della spesa e della documentazione prodotta, in ipotesi
d’accusa falsa, tesa a conseguire la disponibilità del denaro. I giudici della
cognizione non hanno inoltre accertato la procedura di pagamento del telefono,
al fine di stabilire se, a tale fine, sia stato utilizzato denaro dell’Università.
Quanto al pagamento della cena al ristorante “Blu Notte” del 3 marzo 2007
disposto con la carta di credito dell’amministrazione, il ricorrente pone in luce
che, secondo quanto previsto dall’art. 13 del Regolamento di Amministrazione,
Finanza e Contabilità dell’Università, la disponibilità effettiva del denaro
rappresentato dalla carta di credito è subordinata alla verifica da parte dell’ufficio
contabile circa la regolarità della documentazione giustificativa a supporto delle
spese.
3.5. Violazione di legge in relazione all’art.

62-bis cod. pen. e vizio di

motivazione.
Evidenzia il ricorrente che la gravità della condotta ritenuta dai giudici di
merito è smentita dall’applicazione del minimo edittale e che la denegata
applicazione della diminuente della pena non trova un’adeguata spiegazione nella
posizione apicale ricoperta dall’imputato, soggetto incensurato e di altissimo
livello scientifico, trattandosi per di più di peculato per valori oggettivamente
modesti.
3.6. Violazione di legge in relazione all’art. 323-bis cod. pen. e vizio di
motivazione.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale abbia negato

il

riconoscimento della circostanza attenuante senza spiegare la ragione del
diniego e trascurando di considerare che, a tali fini, va considerata l’entità di
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l’atto che in concreto produce l’effetto appropriativo si inserisce in una procedura

ciascuna appropriazione e non il danno complessivamente cagionato dai plurimi
reati in continuazione tra loro.

4. Nel ricorso presentato nell’interesse di B.B., l’Avv. Luigi
Leonardo Covella, ha chiesto che la decisione sia annullata per i seguenti motivi.
4.1. Vizio di motivazione in ordine al reato di cui al capo A), per avere la
Corte disatteso le censure mosse nell’atto d’appello, nel quale si erano
evidenziate emergenze oggettive delle indagini ed, in particolare, le dichiarazioni

lo stesso 30 gennaio 2007, di ulteriori dieci lampadine a basso consumo,
destinate appunto alla propria figlia.
4.2. Erronea applicazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen.
sub capo A) e vizio di motivazione, per avere il Giudice d’appello trascurato di
considerare l’orientamento giurisprudenziale maggioritario della Corte di
legittimità, secondo il quale il reato di peculato non è configurabile in presenza di
un’appropriazione di beni privi di valore apprezzabile, così come nel caso di
specie, trattandosi della fornitura di 10 lampadine del valore complessivo di 39
euro IVA inclusa.
4.3. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 110 e 314 cod. pen.
(primo fatto sub capo B) e vizio di motivazione, per avere il Collegio di merito
disatteso la censura mossa nell’atto d’appello, con la quale – quanto al
pagamento della cena presso il Ristorante “Blu Notte” del 3 marzo 2007 (per 480
euro) – si era dedotta l’insussistenza dei presupposti per poter configurare il
concorso di B.B. nel reato, risultando provato che la cena era stata
personalmente pagata dal Rettore che si era poi fatto rimborsare l’importo.
4.4. Violazione di legge processuale in relazione all’art. 521 cod. proc. pen.,
violazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. (secondo fatto sub
capo B) e vizio di motivazione, per avere la Corte disatteso la censura difensiva
delineata nel ricorso d’appello, nel quale si era evidenziato come, all’esito
dell’istruttoria dibattimentale, fosse emerso un fatto diverso da quello descritto
nel capo d’imputazione, con riferimento alla copertura del costo della cena del 30
marzo, pagato dall’Università direttamente al ristoratore e non anticipato dagli
imputati B.B. e A.A..
4.5. Violazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. sub capo C)
e vizio di motivazione, per avere la Corte di merito disatteso in termini apodittici,
facendo mero richiamo alla sentenza di primo grado, i rilievi in merito alla
contestazione di peculato avente ad oggetto il prezzo della cena presso il
Ristorante “Blu Notte”, con specifico riguardo alla discrasia fra l’ammontare della
ricevuta fiscale (429 euro) e la spesa indicata nel buono d’ordine (978 euro).
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del maresciallo Daniele Garzia, dimostrative dell’acquisto da parte dell’imputato,

4.6. Vizio di motivazione in relazione al reato sub capo E).
Lamenta il ricorrente che la Corte ha omesso di dare adeguata risposta sulle
specifiche censure mosse nell’atto d’appello ed, in particolare, sulla circostanza
che nessuna delle due fatture di pagamento del televisore al plasma (del valore
di 3389 euro) – che, secondo l’ipotesi d’accusa, era destinato all’abitazione del
A.A., con spesa fittiziamente imputata all’acquisto di dispositivi
informatici – sia riconducibile al B.B., essendo i documenti entrambi
intestati all’Università e sottoscritte dal Segretario Amministrativo Luigi Carità e

“Euroelettronica s.r.l.” n. 326 del 26 aprile 2007 – estranea al capo di
imputazione ma valorizzata dal Tribunale come elemento a carico – stata emessa
a fronte di un ordine dettagliato.
4.7. Vizio di motivazione in relazione al reato sub capo G).
Rileva il ricorrente che la Corte ha confermato la condanna del B.B. con
riferimento al peculato avente ad oggetto l’acquisto di un telefono cellulare e
relativa scheda SIM forniti da “Euroelettronica s.r.l.”, seppure in mancanza di
prova circa l’effettiva imputazione degli oneri di acquisto di tali beni
all’Università.
4.8. Violazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. quanto al
capo di sentenza n. 3 (“Sulla qualificazione giuridica dei fatti accertati di cui ai
capi da A ad H”).
Deduce il ricorrente che il Giudice d’appello ha disatteso la censura relativa
alla erronea qualificazione giuridica di tutte le contestazioni ascritte all’imputato
sulla base dell’inesatto presupposto che gli imputati – in particolare B.B. avessero, in ragione delle cariche rivestite, la disponibilità giuridica del denaro
dell’Università, mentre le spese sostenute venivano rimborsate dall’ente all’esito
degli artifici e raggiri da loro posti in essere: i fatti andavano pertanto
riqualificati come truffa aggravata ai sensi degli artt. 640 e 61 n. 9 cod. pen.
4.9. Violazione di legge penale in relazione all’art. 62 n. 4 cod. pen. quanto
al capo di sentenza n. 4 (“Sull’eventuale riconoscimento di attenuanti, sul
trattamento sanzionatorio e sulle altre questioni da esaminare”).
Il ricorrente si duole della denegata applicazione dell’indicata circostanza
attenuante, dovendosi avere riguardo, in caso di più episodi di peculato in
continuazione tra loro, al danno patrimoniale cagionato per ogni singolo reato.

5. Nel ricorso presentato nell’interesse di D.D., l’Avv. Andrea
Sambati ha chiesto che la sentenza sia cassata per i seguenti motivi.
5.1. Violazione di legge processuale in relazione all’art. 267, comma 1, cod.
proc. pen. e carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
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dal Direttore del Dipartimento Prof. Anna Lucia De Nitto ed essendo la fattura di

Rileva il ricorrente che le intercettazioni telefoniche venivano disposte con
finalità meramente esplorativa poiché, all’epoca della richieste e della relativa
autorizzazione, in atti v’era già una consulenza tecnica disposta dal pubblico
ministero che delineava alcuni profili di responsabilità penale nei confronti di
alcuni degli imputati.
5.2. Violazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. con
riferimento al reato di cui al capo C) e carenza, contraddittorietà e manifesta
illogicità di motivazione.

provato il proprio coinvolgimento nel peculato de quo, pur dando atto del fatto
che era B.B. a gestire le finanze del Rettorato e che, in tale veste, questi
aveva disposto il pagamento senza necessità di rivolgersi al D.D., che non
aveva alcun potere in ordine ai pagamenti delle forniture. D.D. si era di fatto
limitato ad effettuare la prenotazione della cena per l’anniversario del B.B.,
per mera cortesia verso quest’ultimo, senza ulteriore coinvolgimento nella
vicenda e senza partecipare al convivio. Ad avviso del ricorrente, è inoltre illogico
il ragionamento della Corte là dove ha desunto la consapevolezza della illiceità
della richiesta del B.B. dalla circostanza che – come emerge dalle
intercettazioni – quest’ultimo invitasse l’imputato a cambiare stanza, mentre tale
circostanza può spiegarsi in via alternativa anche con una richiesta a mero titolo
di cortesia. L’imputato si duole, infine, dell’omesso esame del ristoratore
Maurizio Vergari, unico soggetto in grado di indicare l’autore del pagamento della
cena e le relative modalità.
5.3. Violazione di legge penale in relazione all’art. 314 cod. pen. con
riferimento al reato di cui al capo G) e carenza, contraddittorietà e manifesta
illogicità di motivazione.
Il ricorrente censura la motivazione della sentenza impugnata là dove si
sono trascurate le circostanze specificamente dedotte nell’atto d’appello in
merito all’acquisto del telefono, argomentando in termini apodittici che il prezzo
dell’apparecchio veniva addebitato all’Università. Non è inoltre provato che
l’utenza cellulare utilizzata dalla signora Maria Cocciolo De Luca – badante della
madre del A.A.- fosse intestata al D.D., profilo dedotto in appello e non
affrontato dalla Corte di merito.
5.4. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 314 e 640 cod. pen. e
carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione.
Il ricorrente denuncia l’erronea valutazione compiuta dai giudici di merito in
punto di qualificazione giuridica dei fatti, evidenziando che gli imputati non
avevano la disponibilità del denaro utilizzato per l’acquisto dei beni e che il
pagamento veniva disposto all’esito di una laboriosa procedura cui prendevano
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Il ricorrente si duole del fatto che i Giudici di merito abbiano ritenuto

parte soggetti estranei al delitto mediante l’emissione di ordini di pagamento,
sicchè risulta integrato il reato di truffa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono in parte fondati e la sentenza impugnata deve essere
annullata senza rinvio nei confronti di D.D., B.B. e
A.A. in ordine ai reati sub capi A) e B), limitatamente al fatto del 30

aggravata – essi risultano estinti per prescrizione. La sentenza deve essere
altresì annullata nei confronti degli stessi imputati in ordine ai reati di cui ai capi
A) e G), con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce per nuovo
giudizio.
Vanno invece rigettati i ricorsi di B.B. e A.A. con riferimento ai reati
di peculato commessi il 3 marzo 2007 (capo B) ed il 12- 20 giugno 2007 (capo
H), con rinvio ad altra sezione della medesima Corte d’Appello per la
determinazione della pena.

2. Sono destituite di fondamento le doglianze in rito con riguardo alla
inutilizzabilità

delle

intercettazioni

dedotta

da

A.A.

e

D.D.

(rispettivamente col primo e secondo motivo e col secondo motivo di ricorso sub
punti 3.1 e 3.2 e 5.1 del ritenuto in fatto).

3.

Non coglie nel segno la contestata utilizzabilità degli esiti delle

intercettazioni in quanto autorizzate – secondo l’assunto dei ricorrenti – in
relazione a reati diversi ed avulsi da qualunque connessione o collegamento,
oggettivo, probatorio o finalistico rispetto al reato di peculato oggetto di
condanna – segnatamente per i reati di cui agli artt. 48, 476 e 479 cod. pen.
(concernenti una delibera del Consiglio comunale relativa all’approvazione di una
relazione tecnica).
3.1. Per un verso, la prima doglianza di A.A. risulta generica – il che
rende il motivo già di per sé inammissibile -, là dove il ricorrente incentrano le
proprie considerazioni sul principio di diritto applicabile, ma dimentica di indicare
le telefonate che risulterebbero attinte da sanzione di inutilizzabilità e dunque da
espungere dal compendio probatorio a carico, omettendo altresì di delineare in
termini esatti i riverberi che l’eventuale inutilizzabilità potrebbe dispiegare sul
giudizio di penale responsabilità.
3.2. Per altro verso, la tesi sostenuta dal A.A. risulta contraria alla
costante giurisprudenza di questa Corte, alla stregua della quale gli esiti delle
11

marzo 2007, nonché sub capi C) ed E) perché – riqualificati i reati come truffa

intercettazioni autorizzate sono sempre utilizzabili per la prova di altri reati del
medesimo procedimento purchè si tratti di delitti per i quali le intercettazioni
stesse avrebbero potuto essere autorizzate, cioè a condizione che ricorrano
rispetto a questi ultimi le condizioni ex art. 266 cod. proc. pen. Al riguardo si è
difatti afffermato che, in tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della
prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento
concernente uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono
utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento,

origine,

l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati

espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, l’indispensabilità e
l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza

(ex plurimis Sez. 6, n. 53418 del

04/11/2014, De Col e altri, Rv. 261838; Sez. 2, n. 1924 del 18/12/2015 dep. 19/01/2016, Roberti e altri, Rv. 265989).
Ora, non è revocabile in dubbio che tale condizione sussista nel caso di
specie, nel quale le intercettazioni sono state ritualmente autorizzate per i reati
di falso materiale ed ideologico in atto pubblico, di tal che i relativi esiti risultano
legittimamente utilizzabili anche per tutti gli altri reati oggetto di accertamento
nell’ambito del medesimo procedimento, segnatamente ai fini della prova del
delitto di cui all’art. 314 cod. pen., rispetto al quale il mezzo di ricerca della
prova avrebbe potuto essere autonomamente disposto a mente dell’art. 266 cod.
proc. pen.
3.3. E ciò a tacer del fatto che gli episodi di peculato sono emersi
chiaramente nell’ambito del medesimo filone d’investigazione riguardante
esponenti della politica e dell’Università salentina, di tal che si versa in un caso di
indagini strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e
finalistico al reato alla cui definizione il mezzo di ricerca della prova era stato
(originariamente) predisposto, nel quale pertanto – secondo il consolidato
insegnamento di questa Corte – non sussisterebbe comunque un “diverso
procedimento” ai fini del divieto di utilizzazione contemplato dall’art. 270,
comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 43434 del 05/07/2013, Bianco, Rv.
257834).

4. E’ destituito di fondamento anche l’eccepito vizio di motivazione dei
decreti autorizzativi delle intercettazioni, con riguardo al profilo della gravità
indiziaria e della indispensabilità delle intercettazioni ai fini delle indagini.
Oltre a replicare profili di censura già mossi in appello ed a non confrontarsi
con le puntuali considerazioni svolte in risposta dalla Corte territoriale nelle
pagine 15 e 16 della sentenza in verifica, i ricorrenti – incorrendo in un evidente
12

mentre nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab

strabismo argomentativo – lamentano il difetto di motivazione con riguardo alla
fattispecie incriminatrice di cui all’art. 314 cod. pen., nel mentre la completezza
e correttezza delle giustificazioni a corredo dei provvedimenti autorizzativi vanno
apprezzate con riguardo al diverso reato di falso, in relazione al quale – si
ribadisce – venivano disposte le operazioni intercettive. E – proprio avendo
riguardo a tale notitia criminis – il decreto autorizzativo risulta adeguatamente
motivato in relazione tanto ai gravi indizi di colpevolezza, quanto al profilo
concernente l’assoluta indispensabilità dell’attività di intercettazione,

danno della pubblica amministrazione commessi da soggetti operanti in posizione
di rilievo in una struttura tendenzialmente chiusa qual è un ente locale, l’attività
di captazione costituisca uno strumento fondamentale – spesso l’unico utile – ai
fini del compiuto accertamento dei fatti-reato e dell’identificazione dei soggetti in
essi coinvolti.

5. Tutte le doglianze mosse dai ricorrenti in merito alla ricostruzione in fatto
delle vicende oggetto di contestazione non sfuggono ad una preliminare ed
assorbente censura di inammissibilità, posto che esse, per un verso, non si
confrontano con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della
cognizione (sopra sintetizzata nei paragrafi 2 nel ritenuto in fatto) e, dunque,
omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la
sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv.
243838). Per altro verso, sono volte a sollecitare una rilettura delle emergenze
processuali, non consentita in questa Sede, dovendo la Corte di legittimità
limitarsi a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per
verificare la completezza e l’insussistenza di vizi logici ictu °cui/ percepibili, senza
possibilità di valutare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni
processuali (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
Ciò vale con specifico riguardo alle censure mosse da A.A. con il motivo
sub punto 3.3 del ritenuto in fatto, da B.B. con i motivi riassunti nei punti
4.3, 4.5 e 4.6 del ritenuto in fatto e da D.D. con il motivo di cui al punto 5.2
del ritenuto in fatto, a fronte della esaustiva e non manifestamente irragionevole
motivazione svolta in risposta dal Collegio di merito, come sopra riassunta nei
paragrafi 2 del ritenuto in fatto.

6. E’ di contro fondato, nei termini di seguito precisati, il motivo comune ai
tre ricorrenti, con il quale si è eccepita l’erronea applicazione di legge penale con
riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti quale peculato anziché quale truffa

13

rispondendo ad una condivisibile massima d’esperienza che, in caso di delitti in

aggravata (motivo dedotto da A.A. sub punto 3.4, da B.B. sub punto 4.8
e da D.D. sub punto 5.4).
6.1. Con riguardo al discrimen fra il peculato e la truffa aggravata ai sensi
dell’art. 61 n. 9, cod. pen., occorre chiarire che – secondo il consolidato
insegnamento di questa Corte di legittimità – si ha il peculato allorquando il
pubblico ufficiale si appropria del denaro di cui abbia già il possesso anche solo
mediato e gli artifici e raggiri sono realizzati soltanto per effettuare l’illegittima
appropriazione oppure per occultarla; sia ha invece la truffa allorquando gli

disponibilità del danaro che il pubblico ufficiale non ha. In particolare, si è
affermato che l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa
aggravata, ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle
modalità del possesso del denaro o d’altra cosa mobile altrui oggetto di
appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o
comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi
invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se
lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi
del bene. (Fattispecie in cui l’impiegata di un ufficio postale faceva sottoscrivere
in bianco agli utenti quietanze di pagamento di buoni postali scaduti,
appropriandosi della differenza tra le somme effettivamente maturate in favore
di ciascuno e quelle poi reinvestite nella emissione di nuovi buoni postali). (Sez.
6, n. 35852 del 06/05/2008, Savorgnano, Rv. 241186). Pertanto, ai fini della
distinzione tra peculato e truffa non rileva il rapporto cronologico tra
l’appropriazione e la condotta ingannatoria ma il modo in cui il funzionario
infedele viene in possesso del danaro o del bene del quale si appropria: sussiste
il delitto di peculato quando l’agente fa proprio il bene altrui del quale abbia già il
possesso per ragione del suo ufficio o servizio e ricorre all’artificio o al raggiro
(eventualmente consistente nella produzione di falsi documentali) per occultare
la commissione dell’illecito; mentre vi è truffa, quando il pubblico agente, non
avendo tale possesso, se lo procura mediante la condotta decettiva (Sez. 6, n.
10309 del 22/01/2014, P.M. in proc. Lo Presti e altro, Rv. 259507). Ancora, si è
affermato che è configurabile il delitto di peculato quando il pubblico ufficiale o
l’incaricato di pubblico servizio pone in essere la condotta fraudolenta al solo fine
di occultare l’illecito commesso, avendo egli già il possesso o comunque la
disponibilità del bene oggetto di appropriazione, per ragione del suo ufficio o
servizio; se, invece, la medesima condotta fraudolenta è finalizzata
all’impossessamento del denaro o di altra utilità, di cui egli non ha la libera
disponibilità, risulta integrato il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61 n.
14

artifici e raggiri costituiscono lo strumento per ottenere il possesso o la

9 cod. pen. (In applicazione del principio la Corte ha ravvisato il delitto di truffa
aggravata nella condotta del pubblico ufficiale il quale, al fine di conseguire
indebitamente la disponibilità di un telefono cellulare ulteriore rispetto a quello
risultante dalla fattura rilasciata dal venditore, aveva presentato una fattura
falsa al funzionario contabile, per ottenere un rimborso maggiore rispetto alla
spesa sostenuta). (Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Campanile, Rv. 260154).
Tirando le fila degli arresti giurisprudenziali sopra rammentati, si può
dunque affermare che la linea di discrimine fra i reati di peculato e di truffa

all’incaricato di un pubblico servizio sia o meno ravvisabile una disponibilità
originaria, materiale e/o giuridica, della risorsa economica oggetto di
appropriazione, di tal che, nel caso sanzionato dall’art. 314 cod. pen., l’attività
decettiva non è strumentale al conseguimento della somma, ma è volta soltanto
ad occultare l’appropriazione medesima, mentre nel caso sanzionato dal
combinato disposto degli artt. 640 e 61 n. 9 cod. pen., l’azione fraudolenta
costituisce un antecedente logico – e non necessariamente cronologico all’appropriazione, essendo appunto finalizzata ad ottenere la disponibilità delle
risorse economiche oggetto di appropriazione.
6.2. In applicazione di tali principi di diritto, giudica il Collegio che
possano ritenersi correttamente inquadrati sotto la fattispecie di cui all’art. 314
cod. pen. i soli fatti oggetto del presente procedimento nei quali l’agente risulta
essersi appropriato di somme di denaro di cui aveva già la disponibilità,
dovendosi di contro ravvisare la truffa aggravata nelle ipotesi in cui gli artifici e
raggiri siano stati indirizzati non a coprire l’illegittima sottrazione, ma a
conseguire le risorse oggetto di appropriazione.
Ineccepibilmente i Giudici della cognizione hanno pertanto ritenuto
integrato il delitto di peculato con riguardo all’appropriazione delle somme dirette
a coprire i costi della cena del 30 marzo 2007 sub capo B) nonchè del viaggio e
del pasto sub capo H). Suddetti pagamenti venivano difatti compiuti dal Rettore
utilizzando – all’evidenza in modo illegittimo – la carta di credito dell’Università
per scopi – insindacabilmente stimati dai decidenti di merito – privati, anzichè
per fare fronte a spese connesse alle consentite finalità istituzionali. Non è
revocabile in dubbio che la disponibilità di una carta di credito “istituzionale”, là
dove costituisce mezzo di pagamento con piena efficacia liberatoria, conferisca al
possessore la possibilità di disporre immediatamente delle risorse economiche
dell’ente conferente, almeno sino al raggiungimento del plafond. Nell’ambito di
tali vicende criminose, la condotta fraudolenta posta in essere dal A.A., in
concorso con B.B. quanto al capo B), è stata posta in essere “a valle”
rispetto all’appropriazione di somme di denaro dell’Università di cui il primo
15

aggravata va tracciata avendo riguardo al fatto se in capo al pubblico ufficiale o

imputato aveva la disponibilità in virtù del legittimo possesso dell’indicato mezzo
di pagamento – in tutto equivalente alla disponibilità di moneta sonante dell’ente
-, al solo fine di occultare l’illecito già commesso.
Devono, di contro, essere riqualificate quali truffa aggravata le ulteriori
condotte nelle quali l’agente otteneva beni – segnatamente, le lampade ed il
televisore sub capi A) e E) – ovvero fruiva di servizi – quali le cene del 3 marzo
2007 di cui al capo B) e di quella sub capo C) – sulla base di mandati di
pagamento emessi da parte dell’Università all’esito di una procedura disciplinata

da falsità ideologica quanto alla finalità istituzionale dell’impegno di spesa (cene)
ovvero alla natura e/o della finalità dei beni oggetto di approvvigionamento
(lampade per uso privato anziché per l’Università e toner per stampanti in luogo
del televisore al plasma destinato al A.A.).
Infatti, in tali casi, per fare fronte alle spese per i suddetti beni e servizi,
i soggetti qualificati non impiegavano risorse economiche di cui avevano già la
disponibilità, materiale e/o giuridica, ma ponevano in essere condotte
fraudolente volta ad ottenere il compimento di atti di disposizione aventi natura
costitutiva da parte dell’Università ed a procurarsi dunque la disponibilità delle
somme necessarie per coprire spese estranee alle finalità istituzionali.
Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare in altra pronuncia, l’art.
314 c.p. punisce l’abuso del possesso e non la fraudolenta acquisizione, e
dunque necessita di una situazione possessoria che preceda la condotta
antigiuridica e, d’altra parte, è indiscutibile che il legislatore abbia inteso
specificamente punire l’abuso funzionale dell’agente pubblico (art. 61 c.p., n. 9),
anche con riferimento al delitto di truffa, il quale è aggravato quando colpisce il
patrimonio dello Stato o di un altro ente pubblico (art. 640 c.p., comma 2, n. 1).
“La norma dell’art. 314 c.p., sanziona l’abuso del possessore e colpisce in
particolare il “tradimento” di fiducia del soggetto al quale l’ordinamento conferito
la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli. Se le caratteristiche
della procedura impongono all’agente di procurarsi atti di disposizione rimessi ad
altri soggetti, e se questi atti presentano valore costitutivo al punto da richiedere
(fuori dall’ipotesi di concorso nel reato) un’attività decettiva fondata sulla frode,
sembra chiaro per un verso come non vi sia stato pieno affidamento
dell’amministrazione nei confronti dell’interessato, e per altro verso come manchi
l’abuso del possesso da parte del funzionario infedele (sussistendo invece l’abuso
della funzione)” (in motivazione della sentenza Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014,
P.M. in proc. Currao, Rv. 260505).
6.3. Tanto premesso in punto di riqualificazione giuridica dei suddetti fatti
ai sensi del combinato disposto degli artt. 640 e 61 n. 9, cod. pen., avendo
16

dal Regolamento interno, dietro la presentazione di documentazione connotata

riguardo al tempus commissi delicti, i reati sub capi A), B) – limitatamente
all’episodio del 30 marzo 2007 -, C) ed E) risultano estinti per intervenuta
prescrizione ai sensi dell’art. 157 cod. pen. La sentenza impugnata deve pertanto
essere annullata senza rinvio in relazione a detti capi.
Giusta la declaratoria della prescrizione, le ulteriori censure mosse in
relazione ai reati estinti assumono rilievo – e vengono pertanto di seguito
disaminate – ai soli fini della responsabilità civile da essi conseguenti, non

7. Sono destituiti di fondamento i motivi di ricorso con i quali B.B. ha
eccepito l’omessa motivazione sui rilievi dedotti in appello in relazione al capo
A), quanto al contenuto della testimonianza resa dal maresciallo Daniele Garzia
ed alla inoffensività del fatto (punti 4.1 e 4.2 del ritenuto in fatto).
Ed invero, quanto al primo profilo, la Corte, dopo avere evidenziato le
risultanze delle captazioni e, soprattutto, l’assoluta coincidenza fra il numero di
codice dell’articolo delle lampade rinvenute nella disponibilità della figlia
dell’imputato e quello riportato nello scontrino allegato alla richiesta di rimborso
della spesa, ha implicitamente risposto alla deduzione mossa nell’atto d’appello
là dove ha concluso che, sulla scorta dei convergenti elementi acquisiti, “è
inimmaginabile che il B.B. potesse avere effettuato quello stesso giorno un
acquisto di dieci lampade dalla ditta Forel a propria spese” (v. pagine 18 e 19
della sentenza). Circostanza che – a ben vedere – non si trae neanche dalla
disamina delle complessive dichiarazioni dibattimentali del Garda, riportate solo
per stralci nel ricorso innanzi a questa Corte.
Quanto al secondo rilievo, il Collegio di merito, nel denegare l’applicazione
della circostanza attenuante ex art. 62 n. 4 cod. pen., ha dato conto della
sussistenza dei presupposti del danno lieve con riguardo all’episodio sub capo A)
(v. pagina 38), con ciò riconoscendo – con considerazioni non manifestamente
irragionevoli – che il fatto, pur lieve, è comunque connotato da offensività,
trattandosi dell’appropriazione di beni dotati di un valore apprezzabile.

8. E’ inammissibile la doglianza mossa nel secondo motivo del ricorso di
D.D. (punto 5.2 del considerato in fatto), con riguardo alla richiesta di
sentire, in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, il teste Maurizio
Vergara, titolare del ristorante, rilevante ai fini della prova del reato di cui al
capo C).
Nel riproporre la stessa censura già dedotta col gravame, il ricorso non si
confronta con la puntuale risposta data sul punto dalla Corte (a pagina 26 del
provvedimento), là dove ha evidenziato la completezza del quadro probatorio e
17

emergendo rispetto ad essi una situazione di evidente innocenza degli imputati.

la non necessità a fini di prova della sollecitata audizione del testimone Vergara.
Decisione inappuntabile in quanto perfettamente in linea con il disposto dell’art.
603, commi 1 e 2, cod. proc. pen., alla stregua del quale l’assunzione di nuove
prove in appello è subordinata alla valutazione del giudicante di non essere in
grado di decidere allo stato degli atti, salvo che non si tratti di prove
sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado – situazione peraltro non
sussistente nella specie -, nel quale caso il giudice dispone la rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495, comma 1, cod. proc.

della sollecitata rinnovazione istruttoria, è dunque rimesso alla valutazione del
giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata
(Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Rv. 229666; Sez. 6, n. 5782 del 18/12/2006,
Rv. 236064).

9. E’ manifestamente infondato il quarto motivo (punto 4.4 del ritenuto in
fatto), con il quale B.B. ha contestato la violazione del principio di
necessaria correlazione fra contestazione e sentenza di cui all’art. 521 cod. proc.
pen., in relazione al fatto sub capo B), con specifico riguardo alle modalità di
pagamento della cena oggetto di contestazione.
Orbene, ricorre la violazione del principio invocato dalla difesa allorquando il
giudice pronunci condanna in relazione ad una fattispecie concreta, nella sua
dimensione storico-fattuale, diversa da quella descritta nel decreto che dispone il
giudizio ovvero risultante all’esito delle contestazioni suppletive. Secondo
l’insegnamento di questa Suprema Corte, espresso anche a Sezioni Unite, per
aversi mutamento del fatto occorre infatti una trasformazione radicale, nei suoi
elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi
astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto
dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne
consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto
non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra
contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso

l’iter del

processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine
all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv.
248051).
Sulla scorta delle sopra delineate coordinate ermeneutiche, nessuna
violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza è ravvisabile nel
caso in oggetto, in quanto il profilo che – a detta del ricorrente – sarebbe stato
ricostruito dai Giudici della cognizione in termini diversi da quelli contestati sub
18

pen. L’apprezzamento circa la decibilità o meno allo stato degli atti, in assenza

capo B) attiene soltanto alla modalità di pagamento della cena oggetto del
contestato peculato (rectlus della truffa), il che non intacca il fulcro storicofattuale della vicenda criminosa ed esclude che B.B. possa aver avuto una
qualunque incertezza in merito ai fatti dei quali veniva accusato e/o subito un
vulnus al suo diritto di difendersi nel processo.

10. Sono assorbiti i motivi dedotti dai ricorrenti A.A. e B.B. in merito
al denegato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (punto 3.5. di

pen. (punto 3.6 del ritenuto in fatto A.A.) e della circostanza attenuante ex
art. 62 n. 4 cod. pen. (punto 4.9 del ritenuto B.B.), ad ogni modo
argomentato dal Giudice a quo con considerazioni immuni da vizi logico giuridici
delibabili nella Sede di legittimità. Mette solo precisare che, contrariamente
all’assunto difensivo, la Corte non ha desunto la gravità dei fatti e/o del danno
con riguardo al nocumento complessivamente cagionato all’ente, ma ha
correttamente argomentato che dette circostanze non potrebbero riconoscersi in
ordine ai reati più gravi posti a base del calcolo della pena per la serie continuata
di delitti.

11. Coglie nel segno anche il motivo, comune ai ricorrenti B.B. e
D.D., concernente il reato sub capo G) della rubrica (punti 4.7 e 5.3 del
ritenuto in fatto).
Sulla scorta delle considerazioni sopra svolte in merito ai tratti distintivi fra il
peculato e la truffa aggravata, si appalesa imprescindibile ai fini del corretto
inquadramento giuridico della fattispecie concreta l’accertamento delle modalità
di pagamento del telefono cellulare e della relativa scheda SIM forniti da
“Euroelettronica s.r.l.”: è invero necessario verificare se i relativi costi siano stati
imputati all’Università secondo le procedure delineate nel Regolamento d’istituto,
sulla scorta di pezze giustificative confezionate ad arte, sì da integrare il reato di
cui agli artt. 640 e 61 n. 9 cod. pen., ovvero se il prezzo sia stato pagato con
risorse di cui i pubblici ufficiali disponevano direttamente (ad esempio,
ragionando in via meramente ipotetica, con la carta di credito di cui A.A.,
quale Rettore, aveva la disponibilità), nel qual caso – come per il pagamento
della cena del 3 marzo 2007 (capo B) e la copertura delle spese per il viaggio a
Bologna (capo G) – il fatto dovrebbe ritenersi correttamente qualificato ai sensi
dell’art. 314 cod. pen.
La sentenza deve pertanto essere annullata con rinvio in relazione a detto
capo d’imputazione.

19

A.A. del ritenuto in fatto), della circostanza attenuante ex art. 323-bis cod.

Alla liquidazione della spese della parte civile sostenute in questo grado di
giudizio provvederà la Corte d’appello all’esito del giudizio di rinvio.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di D.D.,
B.B. e A.A. in ordine ai capi A) e B), limitatamente al
fatto del 30 marzo 2007, nonché ai capi C) ed E) perché – riqualificati i reati

annulla la medesima sentenza nei confronti degli stessi imputati in ordine al
reato di cui al capo G) e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce per
nuovo giudizio;
rigetta i ricorsi di B.B. e A.A. con riferimento ai reati di peculato
commessi il 3 marzo 2007 (capo B) ed il 12- 20 giugno 2007 (capo H) e rinvia ad
altra sezione della medesima Corte d’Appello per la determinazione della pena.

Così deciso in Roma il 7 giugno 2016

Il consigliere estensore

come truffa aggravata – sono estinti per prescrizione;

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