Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 34039 del 27/02/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 34039 Anno 2014
Presidente: SIOTTO MARIA CRISTINA
Relatore: ROCCHI GIACOMO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
FERRARI GIUSEPPINA N. IL 05/07/1952
FALLIMENTO CLUB ASTORY S.R.L.
INTESA SAN PAOLO S.P.A.
DEUTSCHE BANK MUTUI SPA
BANCA POPOLARE DI MILANO S.C.A.R.L.
avverso il decreto n. 27/2012 CORTE APPELLO di MILANO, del
30/10/2012

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sentita la r azione fatta dal Consigliere Dott. GIACOMO ROCCHI
lette/se ite le conclusioni del PG Dott.

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Uditi difens e Avv.;

Data Udienza: 27/02/2014

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, con decreto del 30/10/2012, in parziale
riforma del decreto del Tribunale di Milano che aveva applicato la misura
di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno per la
durata di anni quattro a Raccagni Stefano e disposto la confisca di beni allo
stesso riconducibili, revocava la confisca di una polizza intestata a Ferrari
Giuseppina, ordinandone la restituzione all’intestataria; inoltre, dichiarava ed

concessi a Club Astory e Immobiliare Tar.Co e, per l’effetto, revocava l’ordine
di cancellazione delle ipoteche iscritte a favore del predetto istituto bancario su
alcune unità immobiliari; confermava nel resto il decreto impugnato.

Il Tribunale di Milano aveva disposto la confisca di numerosi beni immobili,
ritenuti direttamente o indirettamente riconducibili a Raccagni e frutto o
reimpiego di illecite attività; aveva, inoltre, dichiarato il difetto di buona fede
di alcuni istituti bancari nella concessione di alcune linee di credito a società
riconducibili al proposto.
Raccagni, soggetto di rilevante pericolosità sociale, aveva avviato iniziative
economiche di notevole consistenza pur privo di alcun capitale di investimento,
impostandole in modo che la provenienza delle somme non fosse di fatto
ricostruibile; sussistevano, quindi, i presupposti per la confisca.
Con riferimento alla posizione delle banche ricorrenti nel presente
procedimento, il Tribunale aveva rilevato che i mutui erano stati erogati senza
rispettare le norme della buona tecnica bancaria: le società che ottenevano i
finanziamenti non erano in condizioni adeguate e il mutuo erogato era spesso
sovradimensionato rispetto all’effettiva entità dell’operazione finanziata e al
valore del bene offerto in garanzia. Raccagni otteneva il finanziamento gonfiando
il valore degli immobili da acquistare e dare in garanzia ovvero elargendo
denaro ad alcuni funzionari di banca. I beni immobili venivano acquistati anche
ricorrendo a risorse diverse dal finanziamento bancario.

La Corte territoriale richiamava il principio secondo cui il diritto reale di
garanzia può sopravvivere alla confisca della cosa soltanto in presenza di
affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che renda
scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza; con riferimento all’argomento
difensivo comune a tutte le banche – secondo cui l’organo che aveva deliberato
la concessione della linea di credito non era a conoscenza delle carenze
istruttorie da parte dei funzionari che avevano operato nelle fasi precedenti 2

accertava la buona fede di Unicredit Banca d’Impresa nell’erogazione dei mutui

la Corte osservava che la negligenza in una qualunque delle fasi deve essere
addebitata alla banca e, quindi, esclude un affidamento incolpevole della
stessa, salvo il caso in cui il funzionario è in malafede o addirittura causo con il
soggetto che chiede la linea di credito.
Appare opportuno analizzare singolarmente i singoli provvedimenti adottati
in relazione ai ricorsi proposti.

alla società Club Astorv S.r.l., che aveva usufruito, per quanto qui interessa,

della possibilità dì accollo di un mutuo concesso a Makeall da parte di Deutsche
Bank Mutui.
Il Fallimento Club Astory aveva proposto appello avverso la confisca degli
immobili, adottata senza tenere conto delle posizioni creditorie, diverse dalle
banche, insinuate al passivo.
La Corte territoriale rigettava l’impugnazione, osservando che il Fallimento
Club Astory non era titolare di alcun diritto reale sui beni oggetto di confisca:
trattandosi di beni di provenienza illecita e riconducibili a Raccagni, detti beni
non avrebbero dovuto nemmeno entrare nel patrimonio della società e, pertanto,
non potevano garantire le obbligazioni assunte.
In effetti, la procedura di prevenzione patrimoniale diretta alla confisca dei
beni prevale su quella fallimentare, a prescindere dal fatto che il fallimento sia
stato dichiarato prima o dopo la confisca.
3. Con riferimento agli stessi beni, il Tribunale aveva ritenuto che, nel
permettere l’accolto del mutuo concesso a Makeall da parte del Club Astory, la
Deutsche Bank Mutui avesse operato un’indagine meramente formale sul conto
di detta società, deliberando, in sostanza, un finanziamento in favore di società
la cui consistenza era attestata da documentazione frammentaria e dubbia e che
risultava amministrata da soggetto del tutto ignoto alla banca.
Il Tribunale ricordava che Club Astory aveva prodotto una situazione
patrimoniale e contabile contraffatta in relazione all’ultimo esercizio, così
ottenendo il finanziamento, ma rilevava che i bilanci degli anni precedenti erano
in perdita e che l’acquisizione della copia integrale del bilancio depositata presso
la Camera di Commercio avrebbe consentito di accertare la reale situazione della
società: doveva escludersi, quindi, l’affidamento incolpevole della banca.

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2. Soggette a confisca sono, in primo luogo, J unità immpbiliari intestate

La Corte acquisiva una relazione ispettiva della Banca d’Italia compiuta nel
2009 e trasmessa dal P.G., nonostante l’opposizione della difesa della banca.
La Banca d’Italia aveva sottolineato che la notevole espansione del
portafoglio prestiti non era accompagnata da adeguati presidi organizzativi e
meccanismi di controllo, aveva irrogato sanzioni pecuniarie e segnalato una serie
di criticità emerse dall’ispezione. Nelle osservazioni alla Relazione Ispettiva, la
Banca, sostanzialmente, aveva ammesso gli addebiti.

elemento di negligenza che non depone per la buona fede nella concessione dei
finanziamenti.
Nello specifico, l’erogazione del mutuo alla Club Astory, secondo la Corte,
risultava connotata da una serie di anomalie facilmente rilevabili che avrebbero
dovuto indurre l’istituto di credito a valutare con maggiore attenzione la pratica.
La negligenza era evidente, né la falsità dei bilanci e della perizia dimostrava
la buona fede dell’istituto, atteso che il controllo sul bilancio era agevole,
trattandosi di documentazione già posseduta. Anche la perizia sugli immobili era
stata recepita acriticamente, pur in presenza di vistose anomalie.

3.

Ricorre per cassazione il Fallimento Club Astory s.r.I., deducendo

inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 2 ter, comma 5, legge 575 del
1965 e 52, 63 e 64 D. L.vo 159 del 2011.
Il ricorrente contesta l’affermazione secondo cui i beni soggetti a confisca
non possano garantire le ragioni dei creditori: al contrario, la giurisprudenza
costante di questa Corte afferma che anche i beni di provenienza delittuosa che
siano entrati nel patrimonio della società diventano cespiti sui quali i creditori
possono soddisfare le loro ragioni.
Con riferimento ai rapporti tra confisca e procedura fallimentare, se la cosa
non è intrinsecamente pericolosa, ma la pericolosità deriva dal collegamento
con il reo, ne è ammessa la restituzione al fallimento, ove risulti assicurata
l’interruzione di tale legame. Tale principio è stato affermato anche con
riferimento alla confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 12 sexíes d.l. 306 del
1992, avendo essa natura di misura di prevenzione di carattere patrimoniale;
essa viene adottata nonostante il collegamento del bene con l’attività criminosa
del soggetto sia labile e, quindi, il bene sia connotato da una minore carica di
pericolosità.
Tali principi valgono anche per la confisca di prevenzione ex art. 2 ter legge
575 del 1965; il nuovo D. L.vo 159 del 2011 ha espressamente previsto che
i creditori in buona fede abbiano diritto ad essere soddisfatti e a non essere
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La Corte osservava che l’insufficienza dei meccanismi di controllo è un

pregiudicati dalla confisca in favore dello Stato, così cristallizzando formalmente
gli approdi già indicati dalla giurisprudenza di legittimità.
La decisione impugnata è, quindi, infondata: poiché il rapporto tra procedura
di prevenzione e procedure concorsuali è incentrato sul bilanciamento di interessi
contrapposti, deve prevalere l’interesse del ceto creditorio laddove siano con
ciò tutelate anche le esigenze della prevenzione, ovvero quelle di sottrarre al
proposto i beni che sarebbero il risultato della propria attività presuntivamente
criminosa.

essa, oltre ad essere contrastante con la decisione delle Sezioni Unite 9/7/2004,
n. 29951, è stata adottata prima dell’entrata in vigore del D. L.vo 159 del 2011.
La decisione, in palese violazione delle norme che regolano la confisca, non
spende nemmeno una parola in ordine alla posizione dei creditori diversi dalle
banche, legittimamente insinuati al passivo del fallimento, che non versano nelle
condizioni ostative di cui all’art. 2 ter legge 575 del 1965.
Il ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.
Il difensore del Fallimento Club Astory ha depositato una memoria di replica
alla requisitoria del Procuratore Generale, in cui si sottolinea che, prima del
decreto di confisca, il Giudice delegato alla prevenzione aveva autorizzato la
curatela a vendere i beni immobili sequestrati.
Non è corretto sostenere che i beni sequestrati, in quanto di provenienza
illecita, non possono essere destinati a garantire i terzi creditori: ai sensi dell’art.
2740 cod. civ., il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti
i suoi beni, presenti e futuri; in base, poi, al principio della tutela della buona
fede, il legittimo affidamento del creditore deve essere tutelato in presenza
di una situazione di apparenza generata dal debitore: anche un bene che non
appartiene al debitore, ma formalmente figuri nel suo patrimonio, deve svolgere
la medesima garanzia di cui all’art. 2740 cod. civ. nei confronti del creditore in
buona fede. In caso contrario, viene ad essere ostacolata la libera circolazione
dei beni. Si tratta di principio ripetutamente affermato dalla Cassazione civile.
Sotto il profilo penalistico, il medesimo principio ha indotto la Cassazione
penale a ritenere sussistente il reato di bancarotta per distrazione anche quando
i beni sottratti o dissipati siano di provenienza delittuosa.
Inoltre il D. L.vo 159 del 2011 stabilisce che i creditori in buona fede, a
causa del loro incolpevole affidamento, hanno diritto ad essere soddisfatti e,
perciò, a non essere pregiudicati dalla confisca in favore dello Stato.

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La decisione di questa Sezione menzionata dalla Corte non è pertinente:

Nel caso di specie, i beni immobili oggetto di sequestro sono stati acquistati
dal Club Astory con validi titoli giuridici e grazie alle erogazioni di regolari mutui
bancari; i creditori insinuati al Fallimento avevano, quindi, fatto incolpevole
affidamento su tali modalità di acquisto, non avendo avuto nessuna possibilità
di verificare l’eventuale illecita provenienza dei beni acquistati dal debitore: la
consultazione dei registri immobiliari, infatti, non avrebbe evidenziato alcuna
irregolarità.
I terzi in buona fede, quindi, devono potersi soddisfare sui beni facenti parte

La curatela ricorrente contesta, inoltre, la tesi sostenuta dal Procuratore
Generale secondo cui le ragioni della prevenzione prevarrebbero sempre su
quelle del fallimento, con conseguente totale svalutazione dell’interesse del ceto
creditorio.
Tale tesi non tiene conto della

ratio della confisca come misura di

prevenzione: quando il bene è pericoloso solo in relazione al reo e non
intrinsecamente, esso può essere restituito al fallimento ogni qual volta vi sia la
garanzia che esso sia sottratto al soggetto socialmente pericoloso. Ciò è stato
affermato da questa Corte per la confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 12 sexies
legge 356 del 1992. Non è, quindi, esatto affermare che la finalità della misura
di prevenzione sia di escludere dal circuito economico la ricchezza di origine
illecita, così da rendere diseconomica la produzione illecita della ricchezza: la
finalità, piuttosto, è quella di neutralizzare il grado di pericolosità del bene;
ma per ottenere tale risultato non è sempre necessario sacrificare il legittimo
affidamento dei creditori.
La curatela ricorrente richiama la disciplina dettata dal D. L.vo 159 del 2011,
che dimostra come la presunta illecita provenienza dei beni riferibili al proposto
sia circostanza recessiva rispetto alla buona fede dei creditori, i quali hanno
diritto di rivalersi su di essi.

4. Ricorce per cassazione la Deutsche Bank Mutui S.p.A., deducendo distinti
motivi.
In un primo motivo la ricorrente deduce violazione di legge processuale e, in
particolare, dell’art. 603, commi l e 3 cod. proc. pen., con conseguente nullità
del decreto impugnato.
La produzione documentale della Relazione ispettiva della Banca d’Italia
avvenuta in sede di appello è stata operata in violazione di legge, del principio
del contraddittorio e dei principi in materia di formazione della prova e del
convincimento del giudice.
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del patrimonio della fallita.

Il documento, redatto nel 2009 e messo a disposizione della Procura della
Repubblica il 26/4/2011, si trovava nella disponibilità della pubblica accusa già
prima della decisione di primo grado: non si trattava, quindi, di prova nuova e,
pertanto, la relativa produzione avrebbe potuto essere ammessa solo se richiesta
nell’atto di appello o nei motivi nuovi. Il P.M. non poteva, quindi, produrre
il documento, sia perché non era parte appellante, sia perché la produzione
avrebbe dovuto essere richiesta entro quindici giorni prima dell’udienza; al
contrario, la produzione era avvenuta solo quattordici giorni prima dell’udienza
all’udienza.
La motivazione del decreto impugnato – secondo cui la ricorrente aveva
avuto il tempo per contro dedurre in merito al predetto documento – dimostra
la violazione di legge: non esiste, infatti, una norma che subordini la produzione
di un documento alla semplice concessione di un termine alla controparte per
controdedurre.
La tardiva produzione da parte della Procura della Repubblica ha anche
privato la ricorrente di un grado di giurisdizione: se la produzione fosse stata
operata nel corso del giudizio di primo grado, la Deutsche Bank Mutui avrebbe
potuto in quella sede difendersi. I quattordici giorni per controdedurre, quindi,
non potevano affatto compensare la perdita di un grado di giudizio, né si
comprendeva quali controdeduzioni irrituali la banca avrebbe potuto fare.
La motivazione nel merito dimostrava, poi, che la Corte territoriale aveva
utilizzato la relazione ispettiva della Banca d’Italia per creare un pregiudizio in
sfavore della banca appellante che aveva influenzato la successiva valutazione.
In un secondo motivo, la ricorrente deduce violazione di legge ed, In
particolare, erronea applicazione dell’art. 2 ter, comma 5, legge 575 del 1965.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, il terzo, che pure abbia
oggettivamente tratto un vantaggio dalla costituzione di garanzie su beni
connessi ad attività illecita, ben può qualificarsi come “estraneo al reato”
ed ottenere una tutela del proprio diritto reale, allorché lo stesso sia stato
totalmente inconsapevole della possibile provenienza illecita dei beni posti a
garanzia del proprio credito.
Il concetto di estraneità al reato ha, quindi, una duplice connotazione,
oggettiva e soggettiva.
La ricorrente sottolinea, peraltro, che le pronunce emesse da questa Corte
si sono soffermate sempre sul profilo soggettivo; ma il terzo è estraneo se,
oggettivamente, non ha ricevuto alcun vantaggio dall’altrui attività illecita. La
condizione di buona fede non è richiesta quando l’estraneità del terzo risulti già

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e, comunque, il documento era stato fatto proprio dalla Procura Generale solo

dal mero fatto di non avere tratto alcun vantaggio dal reato: e il vantaggio deve
essere provato dalla Pubblica accusa.
La Corte territoriale aveva omesso di accertare l’esistenza di un vantaggio
oggettivamente conseguito dalla Deutsche Bank Mutui in relazione all’attività
illecita posta in essere da Raccagni; vantaggio che manca del tutto.
L’errore di fondo è stato quello di equiparare la posizione degli istituti di
credito che traggono un vantaggio economico, costituendo garanzie su beni
che sono stati acquistati da appartenenti ad associazione mafiose con i proventi
garanzie a soggetto accusato di avere poste in essere un’associazione che
aveva, come finalità, proprio il compimento di sistematiche condotte di truffa in
danno degli istituti bancari. Il Tribunale di Milano aveva chiarito che tutti i beni
acquistati erano proventi di truffe e appropriazioni indebite.
Deutsche Bank Mutui, quindi, non solo non aveva tratto vantaggio dalla
garanzia concessa, ma è persona offesa delle condotte di truffa e appropriazione
indebita poste in essere da Raccagni: è, quindi, persona estranea al reato.
La prospettazione della Corte porta al principio paradossale per cui un
soggetto truffato non ha diritto alla restituzione del bene di cui il medesimo è
stato spogliato per effetto della truffa, se si riesce a dimostrare che lo stesso è
stato eccessivamente ingenuo.
In ogni caso, il decreto impugnato è errato anche nel ricostruire il profilo
soggettivo.
La ricorrente ricostruisce i motivi per cui Unicredit è stata riconosciuta
in buona fede e sottolinea che la sua posizione era del tutto analoga: anche
nell’articolazione gerarchica della Deutsche Bank Mutui è stata segnalata
la presenza di un funzionario infedele, Marco Franceschini, componente del
Comitato Crediti, Responsabile dell’Area Commerciale: era colui che si occupava
dell’istruttoria delle pratiche di erogazione dei finanziamenti e, quindi, era in una
posizione centrale. Egli, nel perseguimento di un interesse personale e in base
ad un accordo con Raccagni, costantemente inquinava l’istruttoria precedente
l’apertura della linea di credito, ingannando gli altri membri del Comitato Crediti
per acquisire il loro consenso.
Il sillogismo utilizzato dalla Corte territoriale, secondo cui le anomalie della
gestione finanziaria potevano essere riscontrate dagli organi di controllo, è del
tutto privo di fondamento e di riscontri: Franceschini sommava a sé un ruolo
decisionale, unitamente ad altri soggetti, ed un ruolo concernente la prodromica
attività di istruzione delle pratiche, fase in cui si annidava l’attività fraudolenta.
La sua condotta era più insidiosa di quella tenuta dal funzionario di Unicredit.
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dell’attività malavitosa con quella degli istituti di credito che hanno concesso

In un terzo motivo la ricorrente deduce omessa motivazione in ordine
alla sussistenza del requisito della buona fede del terzo nel procedimento di
prevenzione.
Non solo la Corte territoriale non aveva preso in considerazione il motivo di
appello concernente la mancanza di un vantaggio conseguito dall’altrui attività
delittuosa, nemmeno con una motivazione sintetica, ma anche in relazione
all’analisi dei singoli finanziamenti il decreto adduceva argomenti privi dei

In particolare, con riferimento ai singoli beni confiscati:
– Mutuo Immobiliare Dante S.r.l. garantito da ipoteca su immobile sito in
Riccione, Via Cimarosa, 12. Il finanziamento era stato concesso sulla base di una
perizia immobiliare rivelatasi ex post falsa. Le considerazioni della Corte sulla
possibilità per la banca di accorgersi della falsità della perizia erano illogiche: la
perizia era basata sui valori di mercato dell’immobile, né era ipotizzabile che la
banca verificasse la effettività di destinazione d’uso dell’immobile per il quale
concedeva il mutuo; o meglio: era il geom. Forte incaricato di verificare tale
destinazione e non era pensabile che i componenti della Commissione Crediti
dovessero a loro volta controllare la perizia di Forte. La perizia di Forte, benché
falsa, era stata confermata successivamente all’erogazione del mutuo, da due
perizie della Pirelli Real Estate e, inoltre, l’analisi sulla società finanziata era
stata effettuata, mentre Franceschini aveva nascosto il rapporto infragruppo tra
venditrice ed acquirente.
– Mutuo concesso alla Ponente Ligure s.r.I., garantito da ipoteca, per
immobile in Spotorno, Piazza Colombo, 2. Contrariamente a quanto sostenuto
dalla Corte territoriale, detto mutuo non era mai stato citato nella relazione della
Banca d’Italia, né menzionato come operazione anomala. La stima di valore
dell’immobile era stata desunta dalla valutazione di un perito (la Pirelli Real
Estate); la possibilità di vendita frazionata era stata attestata dallo stesso perito
e dal notaio. Non vi era alcuna colpa della Deutsche Bank Mutui. Contrariamente
a quanto affermato nel decreto, la banca aveva compiuto un’ampia istruttoria
sulla compagine sociale, documentata nel giudizio di primo grado: ma la Corte
territoriale non aveva nemmeno preso in considerazione la documentazione
prodotta.
– Mutuo erogato alla società Club Astory, garantito da due ipoteche su due
immobili di Milano. La circostanza che la società mutuataria avesse falsificato
i bilanci di esercizio e che la perizia del geometra Forte fosse stata falsificata
dimostra la buona fede di Deutsche Bank Mutui. L’affidamento è incolpevole per
definizione, in quanto la falsificazione ha impedito l’effettività dei controlli. Tali
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requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicità richiesti dalla legge.

controlli erano stati effettuati, mediante l’acquisizione del Modello Unico della
società (che confermava il risultato del bilancio di esercizio); né era in alcun
modo possibile per la banca verificare la effettiva esigibilità dei crediti posti a
bilancio dalla società; ritenendo il contrario, si porrebbe a carico delle banche
una probatio diabolica. Allo stesso modo, è impensabile attribuire alla banca la
colpa di non essersi accorta della falsificazione della perizia del geom. Forte.
– Accollo da parte della società Club Astory del mutuo erogato in favore
della Makeall, garantito da un immobile posto in Brescia, Via Giacosa. La
cosicché l’atto, sotto il profilo delle garanzie, era neutro. La banca non erogava
un finanziamento alla società accollante, ma ne prendeva atto e, con il
comportamento prudente, non liberava l’originario debitore.
– Accollo da parte della società Palmieri Sesta del mutuo erogato in
favore della società Makeall, garantito da immobile sito in Misano Adriatico.
Le considerazioni sono identiche, trattandosi di accollo non liberatorio e,
quindi, neutro sotto il profilo delle garanzie per l’istituto di credito; nessun
finanziamento era stato erogato alla società Palmieri Sesta.
La ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.
Il difensore della ricorrente ha fatto pervenire memoria di replica alla
requisitoria del Procuratore Generale.
La ricorrente contesta di avere affermato che il procedimento di prevenzione
sia regolato integralmente dalle regole che presiedono l’assunzione probatoria
del processo penale; piuttosto, occorre individuare il criterio di compatibilità
da adottare in una situazione di incertezza come quella oggetto del presente
procedimento. Laddove la legge speciale non disciplina uno specifico punto,
devono essere applicate in via sussidiaria le norme del codice di rito.
Contrariamente a quanto sostenuto dai Procuratore Generale, il rinvio non è
solo al Titolo I del Libro IX, ma a tutto il Libro e alle regole presenti nei titoli
successivi che costituiscono l’esplicitazione delle regole di carattere generale.
Il Procuratore Generale non aveva in alcun modo obiettato alla censura
di violazione del principio del doppio grado di giurisdizione, che imponeva alla
Procura di produrre il documento, di cui era già in possesso, nell’ambito del
giudizio di primo grado.
Quanto alla trattazione della buona fede del terzo, la ricorrente aveva
adeguatamente trattato sia il profilo oggettivo della mancanza di un vantaggio
dall’altrui illecito, sia quello soggettivo.
La Corte aveva correttamente affermato che la mala fede dei funzionari
o la loro collusione con il soggetto che richiede il finanziamento eliderebbe il

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Corte territoriale non ha tenuto conto che si trattava di accollo non liberatorio,

rapporto organico, perché il dipendente agisce nel perseguimento di un interesse
personale, in danno della banca; ma non aveva poi applicato il principio al caso
del funzionario infedele Marco Franceschini, che aveva un ruolo fondamentale
non solo nella concessione del mutuo alla Ponente Ligure, ma nelle concessioni di
tutti i finanziamenti.
La ricorrente, infine, nega che la censura mossa con il terzo motivo di
ricorso attenga alla manifesta illogicità della motivazione: al contrario, era
stata dedotta l’esistenza di una motivazione apparente; la mera presenza
motivazione quando il provvedimento è privo di quei requisiti minimi di coerenza,
completezza e logicità, tale da non consentire la ricostruzione di un valido iter
logico seguito dal giudice.
Il ricorrente insiste nelle conclusioni adottate.
5. Ricorre per cassazione la Banca Popolare di Milano S.c.a.r.I., deducendo
distinti motivi.
La ricorrente deduce difetto assoluto di motivazione in relazione alle
doglianze sollevate con l’atto di appello circa la sussistenza della buona fede
della banca in ordine all’erogazione del mutuo in favore della società Ramada
s.r. l..
La Corte aveva semplicemente recepito quanto già affermato dal tribunale di
Milano, senza tenere in alcun conto i motivi di appello della ricorrente.
Le considerazioni di carattere generale non si attagliavano affatto alla BPM;
per di più il finanziamento alla RAMADA era l’unico trattato dalla ricorrente. La
BPM aveva depositato tutta la documentazione idonea a dimostrare la buona
fede di tutti i dipendenti: nessun sospetto poteva avere la banca sul fatto che la
società fosse riconducibile al Raccagni, che non emergeva da alcun atto; nessuna
irregolarità di tipo societario poteva essere addebitata alla RAMADA; nessuna
connivenza di funzionari con Raccagni era emersa all’interno della BPM, nessuna
operazione irrealizzabile, perché in palese contrasto con gli strumenti urbanistici,
era prospettata.
Tutto ciò viene ignorato dal decreto impugnato. In particolare, nell’atto
di appello, la banca aveva dimostrato che l’operazione era stata oggetto di
compiuta valutazione e, in particolare, che la somma erogata era pari ad
euro 305.000, la restante somma essendo prevista in relazione agli S.A.L.;
la banca non poteva conoscere la differenza tra il prezzo di vendita indicato
nel preliminare e quello indicato nel rogito; né poteva addebitarsi all’istituto
il pagamento di una somma inferiore a quella indicata nel contratto di
compravendita: la decisione di erogare la somma richiesta alla società Ramada si
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fisica di una motivazione non è sufficiente ad evitare il vizio di mancanza di

fondava su un preliminare di compravendita assolutamente regolare e sul parere
incontestabile di un noto professionista.
Il dipendente della banca, Roberto Fiaider, aveva riferito che la Ramada
era stata presentata dall’avv. Addabbo che, in passato, aveva presentato
numerosi clienti regolari alla banca e si era occupato di recupero crediti per
conto dell’istituto: si trattava, pertanto, di soggetto affidabile; lo stesso Addabbo
aveva avuto una sola vicenda di ritardato pagamento di un assegno di euro 500.
In ogni caso gli elementi forniti dall’Addabbo erano ulteriori per la concessione

garanzia e la relazione notarile sull’immobile oggetto del contratto. Le ulteriori
informazioni sulle altre società coinvolte non avevano evidenziato elementi di
criticità. Nessuna ricerca era effettuata sulla persona di Gibellini che non aveva
mai legalmente rappresentato la società.
In sostanza, sussisteva la buona fede della BPM, così come delineata dalla
sentenza di questa Corte n. 29378 del 2010.
In effetti, in nessun punto del decreto impugnato emerge la sussistenza di
criticità in capo a Ramada S.r.l. con riferimento alla ritenuta riconducibilità di tale
società a Stefano Raccagni; su questo punto la Corte avrebbe dovuto motivare:
ma tale riferibilità non era in alcun modo conosciuta o conoscibile dalla BPM.
La ricorrente ribadisce l’assoluto difetto di motivazione su questo punto
decisivo.

La ricorrente richiama l’entrata in vigore del D. L.vo 159 del 2011, che
richiede prove e non presunzioni, sospetti, valutazioni induttive. Nel caso
di specie la Corte territoriale aveva rovesciato l’onere della prova in capo ai
soggetti terzi che dovevano essere tutelati da inutili e ingiusti pregiudizi e che,
fin dall’inizio, avevano depositato tutta la documentazione idonea a dimostrare la
propria buona fede e correttezza.
La ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.

Il difensore della ricorrente ha depositato una memoria di replica alla
requisitoria del Procuratore Generale.
In particolare, la ricorrente sottolinea che la sproporzione tra il capitale
sociale della società (euro 10.000) e l’entità del mutuo bancario (euro 600.000)
non è un dato rilevante, atteso che il capitale sociale non ha mai costituito una
garanzia per gli Istituti di credito; le garanzie patrimoniali erano costituite dai
diritti reali di garanzia, quale l’ipoteca volontaria sottoscritta contestualmente
al contratto di mutuo. La condotta di BPM era conforme alle linee guida che
vigevano all’epoca di concessione del mutuo; la banca aveva dato prova del

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della linea di credito rispetto alla valutazione peritale dell’immobile dato a

fatto che i dati storici a disposizione ben giustificavano il riposto affidamento,
così come seri e riconosciuti professionisti avevano ritenuto la fattibilità
dell’operazione commerciale.
La società Ramada era riferibile a Roberto Bonavita che non aveva niente a
che fare con Raccagni; nessun controllo la banca doveva effettuare su Gibellini
e su Addabbo, rispetto al quale nessun elemento di criticità era riscontrabile
all’epoca di concessione del mutuo.

In un primo motivo si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art.
2 ter legge 575 del 1965: la confisca e i provvedimenti ad essa conseguenti sono
stati applicati in assenza dei presupposti stabiliti dalla legge ed in contrasto con
la ratio e le finalità sottese agli istituti.
I beni immobili delle società Malipiero, I Santi 2007 e Immobiliare
Pietra, riconducibili a Raccagni, erano stati acquistati esclusivamente grazie

ai finanziamenti erogati dalla banca mutuante. I finanziamenti erano stati
rimborsati in minima parte, cosicché i beni non potevano qualificarsi come frutto
di attività illecite, né costituirne il presupposto. La banca aveva effettivamente
sostenuto il costo dell’acquisto, cosicché la confisca e la cancellazione dell’ipoteca
costituiva sanzione ingiustificata e sproporzionata, non coerente con la natura, la
funzione e lo scopo della misura.
Il Tribunale, in sede di confisca, aveva affermato che le somme impiegate
per l’acquisto degli immobili, che provenivano esclusivamente dai mutui erogati
dalle banche, in ragione delle modalità con cui i finanziamenti bancari erano stati
ottenuti erano provento di truffe e appropriazioni indebite commessi in danno
delle banche. Quindi le banche, non solo erano terzi creditori, ma anche persone
offese dei reati.
La confisca ex art. 2 ter legge 575 del 1965 deve sottrarre definitivamente
i beni al prevenuto; l’acquisizione allo Stato è una conseguenza della
sottrazione, non l’obiettivo della confisca. Il diritto del terzo, quindi, non può
essere sacrificato se non quando tale sacrificio sia necessario e funzionale al
perseguimento dello scopo.
Nel caso di terzi creditori, il rischio è che si tratti di prestanome che
permettano al proposto di sottrarre i beni alla confisca e di procurarsi denaro
fresco di provenienza lecita; ma il limite è la sostanziale incolpevolezza del
terzo, situazione di fronte alla quale l’intervento sanzionatorio dello Stato deve
arrestarsi (Corte Costituzionale, n. 1 del 1997); le Sezioni Unite, con la sentenza
n. 9 del 1999 hanno individuato la categoria del terzo estraneo all’illecito:
non può non essere tutelato il soggetto che non ha tratto vantaggio dall’altrui

13

6. Ricorre per cassazione Intesa San Paolo S.o.A., deducendo distinti motivi.

attività criminosa; inoltre il sacrificio del terzo deve essere limitato allo stretto
necessario.
Sono quindi diverse le ipotesi in cui il terzo creditore concede il credito ad un
soggetto acquisendo, a garanzia del proprio credito, un’ipoteca su un bene che il
primo aveva già nella sua disponibilità e che si suppone costituire il reimpiego di
capitali illecitamente conseguiti e quelle – oggetto del presente procedimento – in
cui il bene sul quale è stata iscritta l’ipoteca è stato acquistato proprio grazie al
finanziamento concesso dalla banca.

di prevenzione mira a scongiurare: la banca aveva infatti acquisito ipoteche su
beni il cui acquisto era stato finanziato con denaro dalla stessa erogato; quindi
nella certezza della lecita provenienza del medesimo; né emergeva che il denaro
utilizzato per pagare le rate del mutuo fosse di provenienza illecita, tenuto conto
che tali rate erano state corrisposte in minima parte.
La confisca e l’ordine di cancellazione delle ipoteche erano del tutto
ingiustificati, tenuto conto che il Tribunale aveva affermato esplicitamente che gli
istituti di credito erano i soggetti passivi dei reati da cui avrebbero tratto origine
i proventi confluiti negli immobili sottoposti a confisca. Eppure il Tribunale aveva
ritenuto che la cancellazione delle ipoteche non si traducesse in una ingiustificata
punizione nei confronti delle banche, vittime dell’attività delittuosa, atteso
l’effetto di inquinamento che una siffatta realtà produce nel mondo della regolare
attività di impresa. Secondo il Tribunale, l’apertura di credito accordata dagli
istituti bancari al proposto è ciò che permette allo stesso di stare sul mercato e
di continuare a nuocere. Cosicché l’erogazione del credito da parte della banca
non può essere ridotta ad un fatto che riguarda in via esclusiva l’istituto di
credito.
La Corte territoriale non aveva preso effettivamente in considerazione i
motivi di appello su questo punto: ma, se è lo stesso giudicante a ritenere che,
nella maggior parte dei casi, vi fossero state vere e proprie truffe perpetrate ai
danni delle banche, ciò comporta che la falsa apparenza ha provocato l’errore del
soggetto passivo, inducendolo a compiere un atto di disposizione patrimoniale
da cui scaturirà il danno per il medesimo e il correlativo vantaggio per il soggetto
attivo del reato.
La motivazione del tribunale era inconferente rispetto al tema della tutela
dei diritti del terzo e conduceva ad esiti non ragionevoli: l’acquisizione del bene
in favore dello Stato e in danno del terzo creditore che materialmente aveva
sostenuto il costo di acquisto. Ma la banca era soggetto estraneo al reato,
essendone la vittima; né la tutela della persona offesa della truffa è legata alla
diligenza della stessa.
14

In questa seconda ipotesi, non si versa in quelle situazioni che la disciplina

La cancellazione delle ipoteche non ha niente a che vedere con la finalità
della confisca: evitare che il bene confiscato torni nella disponibilità del proposto.
In un secondo motivo, il ricorrente deduce mancanza ed apparenza della
motivazione. La Corte d’appello si era limitata a ritenere irrilevanti o già
esaminate e risolte nel primo giudizio i motivi di appello: ma si tratta di un
richiamo meramente formale, che nasconde l’assenza di motivazione. Né le
questioni dedotte con l’atto di appello possono dirsi irrilevanti.

Il difensore di Intesa San Paolo S.p.A. ha depositato memoria con motivi
nuovi.
Replicando alla requisitoria del Procuratore Generale, il difensore sottolinea
di aver evidenziato una peculiarità della vicenda: i beni sui quali vengono iscritte
le ipoteche sono stati acquistati proprio grazie ai finanziamenti concessi dalle
banche. La S.C., per questi casi, ha affermato che occorre verificare la lecita
acquisizione dei mezzi finanziari utilizzati per far fronte agli imponenti debiti
contratti, cioè per pagare le rate di mutuo: ma se, come nel caso di specie, il
finanziamento bancario non è stato estinto o è stato rimborsato solo in minima
parte, non può essere affermato che il bene è stato acquistato con capitali di
provenienza illecita e che esso rappresenti, per l’intero, il reimpiego di detto
denaro: non è quindi legittima la confisca del bene e la cancellazione integrale
dell’ipoteca. Se le rate del mutuo non vengono onorate, il reimpiego dei capitali
di provenienza illecita non può dirsi avvenuto.
Né si tratta di considerazioni di fatto, perché è un dato di fatto che le
somme utilizzate per l’acquisto dei beni provengano in esclusiva dall’erogazione
dei mutui. Questa Corte, anche recentemente, ha ribadito che la confisca di
prevenzione consente di colpire solo i beni che si ha motivo di ritenere siano
frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.
Di conseguenza la confisca avrebbe essere disposta

pro quota,

in

proporzione all’entità delle somme corrisposte, e solo proporzionalmente avrebbe
dovuto essere ridotto il valore della garanzia rappresentata per la banca dal
bene. Ciò avrebbe ridotto il sacrificio del terzo allo stretto necessario.
Con riferimento alla società Malipiero S.R.L. la cancellazione integrale
dell’ipoteca è ulteriormente illegittima, atteso che la confisca è stata disposta
solo per la quota di proprietà del 40% sugli immobili. In effetti, la cancellazione
dell’ipoteca non avrebbe potuto essere disposta in misura eccedente la quota
oggetto delle misure ablative.

15

Il ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato.

Avverso la considerazione del Procuratore Generale, secondo cui non vi è
prova che Intesa San Paolo sia stata vittima di condotte truffaldine, la ricorrente
ribadisce che, al contrario, presupposto del provvedimento del Tribunale,
confermato dalla Corte d’appello, è proprio la provenienza delle somme utilizzate
per l’acquisto dei beni immobili da truffe o appropriazioni indebite.
Il Tribunale, nell’evidenziare le varie ipotesi, afferma esplicitamente che gli
istituti bancari sono soggetti passivi delle condotte penalmente illecite ascritte al
proposto. Quindi le banche sono soggetti estranei al reato.

delle banche, pur persone offese dei reati, come conseguenza della loro
negligenza: si tratta di ragioni ultronee rispetto alla funzione propria della
confisca, che è quella di colpire i fenomeni di arricchimento delittuoso, privando i
soggetti della disponibilità di beni di origine illecita e riconducendone la proprietà
allo Stato.
La confisca non può danneggiare i terzi estranei al reato e che non abbiano
tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa o che, comunque, siano in buona
fede. La vittima non ha tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa e, quindi,
non può subire gli effetti della confisca.
La buona fede sussiste anche con riferimento alla provenienza delle rate
dei mutui che venivano pagate, atteso che la provenienza da reato non è stata
provata e i rimborsi avvenivano con modalità tali da non destare sospetto
alcuno.
L’affermazione secondo cui la banca avrebbe oggettivamente sostenuto
l’attività delinquenziale del proposto è chiaramente inaccettabile e conduce ad
esiti non ragionevoli.

Quanto al secondo motivo di ricorso, la ricorrente osserva che la definizione
delle banche come persone offese dai reati era stata esposta solo con il
provvedimento di primo grado, cosicché la questione era nuova e i conseguenti
motivi di appello non potevano essere ignorati dalla Corte territoriale.
Sussisteva, quindi, il vizio di assenza di motivazione, integrante violazione di
legge.
La ricorrente insiste nelle conclusioni adottate con il ricorso.

7. Ricorre per cassazione il difensore di Ferrari Giuseppina avverso la
confisca di una quota intestata alla Carini S.p.A., del capitale sociale della
Immobiliare Pietra S.r.l. e corrispondente quota di proprietà su alcuni immobili
ubicati in Pietra Ligure. Il ricorso è esplicitamente limitato alla confisca della
quota di capitale sociale della società.
16

La ricorrente contesta la motivazione del Tribunale in ordine al sacrificio

Secondo la ricorrente, la Corte di appello di Milano aveva errato nel ritenere
tale quota nell’esclusiva disponibilità di Raccagni Stefano e solo formalmente
intestata alla madre Ferrari Giuseppina. L’esiguità del valore dell’investimento
(euro 3.000) combinata con l’accertato grado di capacità patrimoniale
dell’interessata non sostenevano affatto la tesi dell’intestazione fittizia.
La motivazione del decreto impugnato è apparente ed omissiva del requisito
essenziale della decisione. Nel decreto del Tribunale si trovano indicazioni
sulle capacità reddituali e patrimoniali dei coniugi Raccagni Franco e Ferrari

non aveva accertato l’apparenza fittizia dell’intestazione. Inoltre il capitale
sociale investito dalla Ferrari non aveva provenienza illecita, ma era stato
ugualmente colpito dalla confisca.
In ogni caso l’investimento era stato di sole euro 3.000, somma
assolutamente compatibile con le dimostrate capacità patrimoniali della Ferrari,
come la stessa Corte aveva confermato nel disporre la restituzione alla Ferrari
della polizza di euro 5.000, ritenendo l’entità della somma compatibile con un
piccolo risparmio di somme accantonate nel tempo dai coniugi.
La ricorrente conclude per l’annullamento del decreto impugnato o
comunque per la revoca dello stesso.

8. Il Procuratore Generale, nella requisitoria scritta, conclude per la
declaratoria di inammissibilità o comunque per il rigetto di tutti i ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi degli istituti bancari.
Il Tribunale di Milano, nel descrivere l’attività complessiva di Raccagni,
osservava che lo stesso non aveva risorse economiche proprie, ma che si era
dimostrato in grado di movimentare ingenti somme di denaro, adoperate per
costituire società, per acquistare immobili e per avviare cantieri edili.
Ricostruire la provenienza di tali risorse non era possibile.
Tuttavia, in un secondo passaggio, i giudici di primo grado affrontavano
il tema delle somme versate dagli istituti di credito, ritenendo “indubbio” che
essi avessero messo a disposizione di Raccagni considerevoli somme di denaro
ed aggiungendo che “spesso le operazioni immobiliari si reggono giusto (cioè:
soltanto) sulla concessione dei mutui”.
Il Tribunale mostrava analoga certezza sul fatto che i mutui fossero stati
erogati senza rispettare le norme della buona tecnica bancaria, sia per i soggetti
che li chiedevano, sia perché il mutuo erogato era sovradimensionato rispetto
17

Giuseppina, tali che gli stessi possono essere ritenuti agiati. La Corte territoriale

all’effettiva entità dell’operazione finanziata e del valore del bene offerto in
garanzia. Questo risultato era ottenuto mediante truffe (gonfiando il valore
dell’immobile, fatto oggetto in precedenza di vendite fittizie) oppure elargendo
denaro ad alcuni funzionari di banca affinché sostenessero l’erogazione di mutui
che, secondo la buona tecnica bancaria, non avrebbero dovuto esserlo.
In questo secondo caso, il funzionario “corrotto” contribuiva ad indurre in
errore l’organo collegiale che doveva decidere l’erogazione del mutuo oppure
provvedeva direttamente quando la somma rientrava nella sua competenza, così
In definitiva, secondo il Tribunale, le somme impiegate da Raccagni ottenute
da finanziamenti bancari erano di provenienza illecita, in quanto provento di
truffa o di appropriazione indebita.
Analoga provenienza illecita avevano le somme prelevate da una delle
società del gruppo e versate ad altre, riscontrandosi appropriazione indebita,
infedeltà patrimoniale o, nel caso di fallimento (come nel caso della società Club
Astory), bancarotta fraudolenta per distrazione.
In un ulteriore passaggio il Tribunale individua un’altra fonte di
finanziamento illecito di cui avevano goduto le società di Raccagni: le somme
versate dai privati promittenti acquirenti degli immobili acquistati con il denaro
dei mutui e dei quali veniva promessa la vendita previa ristrutturazione, in
una “catena di Sant’Antonio” che prevedeva, in realtà, l’abbandono di ogni
progetto.
Nell’affrontare il tema della buona fede e dell’affidamento incolpevole degli
istituti di credito che avevano concesso mutui ipotecari per l’acquisto degli
immobili, il Tribunale metteva in evidenza il palese utilizzo di prestanome del
tutto all’oscuro dell’attività delle società.
Ripercorrendo la giurisprudenza di questa Corte sulla nozione di “buona
fede” del terzo, il Tribunale affermava che non può ipotizzarsi una condizione
di buona fede e di affidamento incolpevole allorquando un determinato fatto
illecito non sia stato conosciuto ma risultava pur sempre conoscibile se non
avesse spiegato incidenza sulla rappresentazione del reale uno stato soggettivo
addebitabile ad una condotta colposa.
Poiché i mutui bancari erano stati erogati in presenza di importanti
anomalie che avrebbero potuto essere individuate dalla banca interessata, non
sussisteva l’affidamento incolpevole del creditore ipotecario; né la presenza di un
funzionario infedele poteva ritenersi assorbente, atteso il controllo demandato
all’organo collegiale che doveva deliberare la concessione del mutuo e la
presenza di obblighi di controllo sulle decisioni dei funzionari.
18

rendendosi colpevole di appropriazione indebita ai danni della banca.

Il Tribunale affrontava il tema – che in questa decisione assume valenza
decisiva – del ruolo assunto dagli istituti bancari: persone offese di truffe e
appropriazioni indebite, vale a dire quelle condotte illecite in conseguenza delle
quali si procedeva alla confisca dei beni sequestrati.
Di fronte al quesito se la confisca, con la cancellazione delle ipoteche sugli
immobili, costituisse una ingiustificata punizione di soggetti vittime dell’attività
delittuosa, il Tribunale dava una risposta negativa.
di impresa era particolarmente elevata e gli effetti potevano dirsi devastanti:
essi non si fermavano alla distrazione del denaro ottenuto dalla banca per una
somma superiore al valore effettivo dell’immobile ipotecato, ma proseguivano
con la realizzazione di abusi edilizi, con l’appalto di lavori a imprese con
successivo abbandono del cantiere, con reati di falso in bilancio, massicce
violazioni di leggi fiscali e numerosi reati societari e fallimentari.
Ebbene: le banche, con le aperture di credito a Raccagni e alle sue società,
avevano permesso loro di continuare a “stare sul mercato” e di continuare a
nuocere con queste varie modalità: quindi, l’erogazione del finanziamento non
era un fatto che riguardava in via esclusiva l’istituto di credito. L’attività della
banca, di rilievo costituzionale, è di immettere sul mercato dei risparmi dei
cittadini, ponendo ogni diligenza al fine di assicurare un impiego delle risorse
corretto dal punto di vista economico, ricomprendendosi in tale punto di vista
non solo la ragionevole previsione del rientro del finanziamento e della sua
rimuneratività, ma anche la regolare impostazione dell’operazione che viene
ad essere finanziata. Ove la banca venga meno a tale dovere di diligenza, non
potrà invocare tutela nel procedimento di prevenzione, un procedimento volto ad
arginare gli effetti di quella attività delinquenziale che essa, con il proprio agire,
ha oggettivamente sostenuto.
La Corte territoriale condivideva l’insegnamento giurisprudenziale secondo
cui il diritto reale di garanzia può sopravvivere alla confisca della cosa soltanto in
presenza di affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza
che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza.
La decisione della Corte si discostava da quella del Tribunale con riferimento
alla presenza all’interno dell’istituto bancario di un funzionario colluso: secondo
la Corte, infatti, in questo caso il rapporto organico si interrompe in quanto
il funzionario agisce nell’interesse proprio o di un terzo e non nell’interesse
dell’ente, al quale reca invece danno: occorreva, allora, stabilire se gli organi
di controllo della banca fossero in grado di accorgersi dell’anomaliaCdi porvi
19

In effetti, l’influenza del “gruppo Raccagni” sul mondo della regolare attività

rimedio.

L’impostazione adottata dai giudici di merito è errata e determina – con
riferimento ai provvedimenti emessi nei confronti di tutti gli istituti bancari
ricorrenti – una palese violazione di legge, con conseguente inevitabile
annullamento con rinvio del decreto impugnato.

Inevitabile è prendere l’avvio dal dictum delle Sezioni Unite Bacherotti più

confisca non determina l’estinzione del preesistente diritto di pegno costituito
a favore di terzi sulle cose che ne sono oggetto quando costoro, avendo tratto
oggettivamente vantaggio dall’altrui attività criminosa, riescano a provare di
trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole (Sez. U, n.
9 del 28/04/1999 – dep. 08/06/1999, Bacherotti, Rv. 213511).
La decisione prende l’avvio dal riconoscimento che “la giurisprudenza di
legittimità, sia penale che civile, è consolidata nel senso che nessuna forma di
confisca può determinare l’estinzione dei diritti reali di garanzia costituiti sulla
cosa, in puntuale sintonia col principio generale di giustizia distributiva per cui
la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici delle posizioni
giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all’illecito”.
Ebbene, di fronte alle tesi che avevano sostenuto “la prevalenza delle
esigenze di tutela della collettività salvaguardate dalla confisca rispetto
all’eventuale pregiudizio del terzo” e alla posizione di una parte della
dottrina, “che ha qualificato la misura patrimoniale in esame come “una sorta
di espropriazione per pubblico interesse”, corrispondente ad una generale
finalità di prevenzione penale, “che consentirebbe sinanco l’ablazione, senza
alcun ristoro, degli eventuali diritti dei terzi sul bene confiscato”, le Sezioni
Unite riaffermavano “il costante indirizzo giurisprudenziale favorevole al
riconoscimento della tutela dei diritti reali di garanzia costituiti a favore dei terzi
sulle cose oggetto della confisca”.
Quanto alla funzione della confisca, “la sua causa giuridica non è costituita
dall’acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, con il sacrificio dei diritti
dei terzi, ma è identificabile, invece, nell’esigenza, tipicamente preventiva, di
interrompere la relazione del bene stesso con l’autore del reato e di sottrarlo alla
sfera di disponibilità di quest’ultimo. Va riconosciuto, pertanto, che l’acquisizione
del bene allo Stato è una conseguenza della sottrazione, non già l’obiettivo
della confisca, il cui “fine primario e immediato è la spoliazione del reo nei
diritti che egli ha sulla cosa …. e l’acquisto di tali diritti da parte dello Stato
costituisce soltanto una conseguenza necessaria di tale spoliazione” (Cass.,

20

volte menzionato nei provvedimenti e negli atti dei ricorrenti: l’applicazione della

Sez. I, 20 dicembre 1962, Stringari, cit.): di talché il richiamo al bilanciamento
tra interesse pubblico e interesse privato, risolto dalla legge con la prevalenza
attribuita al primo sul secondo, può essere pertinente soltanto nell’ottica della
specifica funzione che tipizza la confisca e, quindi, ha un senso rispetto ai
diritti del condannato sulla cosa e non anche riguardo alle situazioni giuridiche
soggettive dei terzi”.
Dopo aver ricordato che l’intrinseca criminosità della cosa, che attribuisce
alla confisca l’effetto di escludere la sopravvivenza di qualsiasi diritto dei terzi,

poste dall’art. 240 cod. pen., sono riconducibili le “cose, la fabbricazione, l’uso,
il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato” (comma 2
n. 2), sempreché tali attività non siano consentite neppure con autorizzazione
amministrativa (comma 4), la Corte ribadiva che, al di fuori di questa ipotesi, “la
confiscabilità dipende unicamente dalla relazione in cui i beni si trovano col
responsabile del delitto (nel caso in questione: di usura): di talché l’obbligo
di confisca viene meno nell’ipotesi di “appartenenza” di detti beni a persone
estranee al reato”.

Peraltro, la cosa confiscata deve appartenere, nel senso dianzi chiarito,
a “persona estranea al reato”.
Le Sezioni Unite aderivano all’interpretazione secondo cui non può
considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi
e utilità (Cass., Sez. II, 14 dicembre 1992, Tassinari, rv. 193422, cit.;
Cass., Sez. III, 19 gennaio 1979, Ravazzani, rv. 141690): osservavano che
non può “privilegiarsi la tutela del diritto del terzo allorquando costui abbia
tratto vantaggio dall’altrui attività criminosa e dovendo, anzi, riconoscersi la
sussistenza, in una simile evenienza, di un collegamento tra la posizione del
terzo e la commissione del fatto-reato. L’attendibilità di tale opzione ermeneutica
è confortata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che – nel dichiarare
l’incostituzionalità delle disposizioni che regolano la confisca di opere d’interesse
artistico o storico esportate abusivamente, ha escluso la compatibilità con l’art.
27, comma 1 Cost. di norme che prevedono la confisca anche quando le cose
risultino di proprietà di chi non sia autore del reato “o non ne abbia tratto in
alcun modo profitto” (Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 2), offrendo, così, un
inequivoco spunto a favore della tesi secondo cui non può reputarsi estranea al
reato la persona che abbia ricavato un utile dalla condotta illecita del reo, come
si verifica, appunto, qualora sulle cose che rappresentano il “provento” del reato \.
sia stato costituito il diritto di pegno a garanzia di un proprio credito.”

21

corrisponde ad una nozione ben definita nella quale, in base alle regole generali

Estraneo al reato, peraltro, deve ritenersi

anche chi ha tratto “un

vantaggio dall’altrui attività criminosa, purché sussista la connotazione
soggettiva identificabile nella buona fede del terzo, ossia nella non conoscibilità con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – del predetto
rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso
dal condannato. La coessenziale inerenza del requisito della buona fede e
dell’affidamento incolpevole alla condizione della persona estranea al reato, cui
appartengono le cose confiscate, rappresenta l’inevitabile corollario della

assolutamente incompatibile col principio di personalità della responsabilità
penale, sancito dall’art. 27, comma 1 Cost. In questi precisi termini è
univocamente orientata la giurisprudenza della Corte costituzionale, nella quale,
in più occasioni, è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 301 del d.P.R. n.
43 del 1973 nella parte in cui prevedeva il sacrificio del diritto dei terzi sulle cose
utilizzate da altri per il contrabbando, ancorché ai primi non fosse imputabile un
difetto di vigilanza (Corte cost., 17 luglio 1974, n . 229; Corte cost., 29
dicembre 1976, n. 259; Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 2, cit.). Il principio è
stato successivamente ribadito nella sentenza con cui è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della I. 30.12.1991, n. 413, che ha
modificato il citato art. 301 del d.P.R. n. 43 del 1973: in quest’ultima decisione è
stato precisato che “il proprietario della cosa sottoposta a confisca obbligatoria,
se estraneo al reato e indenne da colpa, finisce con l’essere colpito a titolo di
responsabilità oggettiva, con conseguente violazione dell’art. 27, primo comma
della Costituzione” ed è stato posto in risalto che la salvaguardia del preminente
interesse pubblico, sotteso alla previsione dell’illecito, non può giustificare il
sacrificio inflitto al terzo di buona fede, la cui posizione “è da ritenere protetta
dal principio della tutela dell’affidamento incolpevole, che permea di sé ogni
ambito dell’ordinamento giuridico” (Corte cost., 10 gennaio 1997, n. 1).”

Le Sezioni unite richiamavano la decisione della Corte Costituzionale in
materia di confisca antimafia: “Lungo la stessa linea interpretativa si muove
la pronuncia intervenuta in materia di confisca antimafia, ai sensi dell’art. 3
quinquies della I. 31.5.1965, n. 575, nella quale è stato affermato che non
possono considerarsi “terzi” né ricorre la condizione della estraneità rispetto alle
persone che svolgono attività economiche agevolative del fenomeno mafioso,
mancando una situazione soggettiva di “sostanziale incolpevolezza” (Corte
cost., 20 novembre 1995, n. 487). Nella nozione di estraneità al reato non può
mancare, dunque, un’impronta di carattere soggettivo, identificabile nella buona
fede del terzo.

22

impossibilità di attribuire alla confisca una base meramente oggettiva,

La configurazione di detta nozione su basi esclusivamente oggettive,
indipendenti cioè dall’affidamento incolpevole, oltre a contrastare con i principi
accolti dall’ordinamento in ordine alla circolazione giuridica dei beni mobili,
condurrebbe a risultati lesivi del principio di personalità della responsabilità
penale sancito dall’art. 27, comma 1 Cost., sicché è obbligo dell’interprete
ricostruire la portata della norma in termini compatibili coi principi costituzionali
e, correlativamente, non dare seguito a soluzioni ermeneutiche che si
tradurrebbero nella lesione di quegli stessi principi (cfr., da ultimo, Corte cost.,

Le Sezioni Unite stabilivano anche il riparto in materia probatoria: “Infine,
è necessario precisare che i terzi che vantino diritti reali hanno l’onere di
provare i fatti costitutivi della pretesa fatta valere sulla cosa confiscata, essendo
evidente che essi sono tenuti a fornire la dimostrazione di tutti gli elementi che
concorrono ad integrare le condizioni di “appartenenza” e di “estraneità al reato”,
dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere
di confisca esercitato dallo Stato. Ai terzi fa carico, pertanto, l’onere della prova
sia relativamente alla titolarità dello “ius in re aliena”, il cui titolo deve essere
costituito da un atto di data certa anteriore alla confisca (…), sia relativamente
alla mancanza di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa
o, nell’ipotesi in cui un simile nesso sia invece configurabile, all’affidamento
incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile
l’ignoranza o il difetto di diligenza.”

La lettura di questa decisione mostra l’erroneità dell’argomentazione sulla
base della quale il Tribunale prima e la Corte territoriale poi hanno ritenuto di
ordinare la cancellazione dell’ipoteca sugli immobili confiscati iscritta all’atto della
concessione del mutuo, concesso per il loro acquisto.
Il Tribunale riteneva (pag. 27), infatti – per fondare il provvedimento
di confisca di prevenzione – che le somme ottenute grazie a finanziamenti
bancari non fossero di provenienza lecita in ragione delle modalità con le
quali tali finanziamenti siano stati ottenuti: “esse sono provento di truffa o di
appropriazione indebita”; l’affermazione veniva ripresa nel prosieguo: “quando
è invece accertata la provenienza delle somme da finanziamento bancario,
l’indagine deve essere indirizzata a stabilire se le erogazioni siano effetto di
condotte truffaldine o di appropriazione indebita:
operazione, che l’esito è generalmente positivo”.

23

si vedrà, operazione per

22 giugno 1998, n. 232).”

Questo primo passaggio, per il Tribunale, era sufficiente: i beni sequestrati e
di cui veniva ordinata la confisca erano frutto di attività illecita o ne costituivano
il reimpiego: sussisteva, quindi, il presupposto per la confisca degli immobili ai
sensi dell’art. 2 ter legge n. 575 del 1965.
Acquisito questo primo elemento (riguardante Stefano Raccagni e le società
allo stesso facenti capo), il secondo passaggio riguardava la sussistenza della
buona fede da parte delle banche che avevano concesso i mutui.

estraneità oggettiva degli istituti bancari ai reati posti in essere da Raccagni.
Come si è visto ripercorrendo la sentenza delle Sezioni Unite, infatti, il tema
della buona fede entra in gioco solo se il terzo ha tratto oggettivamente un
vantaggio dall’altrui attività criminosa; si tratta, cioè, di una estensione ulteriore

a vantaggio dei terzi del concetto di “estraneità”: non sono estranei soltanto i
terzi che non hanno tratto alcun vantaggio dall’attività illecita del proposto, ma

anche coloro che, pur avendone tratto un vantaggio, erano in buona fede.
Nel caso di specie – è superfluo dirlo, perché è pacifico ed affermato
esplicitamente nei decreti – gli istituti bancari sono stati

vittime e persone

offese di truffe ovvero di appropriazioni indebite poste in essere con il tramite di
funzionari infedeli.
La mancanza di un qualsiasi vantaggio per le banche derivante dall’attività
di Raccagni e delle sue società si evince dalla banale constatazione che gli
istituti bancari avevano erogato denaro di loro proprietà confidando sulla
sua regolare restituzione e, comunque, sul valore sufficiente degli immobili
ipotecati per recuperare il credito in caso di mancato spontaneo adempimento
al contratto di mutuo; le rate di mutuo non erano state rimborsate se non in
minima parte, mentre gli accertamenti dimostravano che gli immobili ipotecati
avevano un valore nettamente inferiore a quanto creduto (si sta compiendo una

generalizzazione: i singoli casi presentano alcune differenze).

Ciò significa che i singoli istituti bancari rischiano di non recuperare se non
in parte la somma erogata, ricevendo, pertanto, un danno patrimoniale spesso
assai notevole.

Si deve aggiungere un’ulteriore considerazione: a parte i singoli
funzionari “infedeli”, nessuna posizione di

agevolazione o affiancamento o

collusione dei singoli Istituti Bancari con l’attività di Raccagni emerge; si tratta
di banche che, in un modo o nell’altro, vengono coinvolte in progetti urbanistici
e relativi acquisti di immobili, in qualche modo vengono ingannate e che, alla

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Manca, invece, del tutto un accertamento intermedio: la verifica della

fine – proprio perché ingannate – erogano denaro che (contrariamente a quanto
poteva attendersi) prende strade assai differenti (conti correnti a San Marino,
trasferimento di denaro da una società all’altra, pagamento di creditori ecc.).
Nessun Istituto bancario – per quanto emerge dal decreto del Tribunale era consapevole del “disegno” complessivo di Raccagni e degli uomini che lo
circondavano.
Tale precisazione appare necessaria in quanto, se è vero che, per
ritenere la mancanza di buona fede, non è necessario riscontrare nel terzo un

diligenza da parte del terzo titolare di ius in re aliena, tuttavia la mancanza di
tale atteggiamento doloso contribuisce ancora di più a delineare il ruolo delle
banche: vittime di reati altrui.

La decisione di omettere ogni verifica del dato

oggettivo dell’estraneità

del terzo all’attività illecita del sottoposto a misure di prevenzione personali e
patrimoniali ha permesso al Tribunale e alla Corte territoriale di dar corso ad una
disanima della buona fede dei singoli istituti bancari dal contenuto e dagli esiti a
dir poco grotteschi.
In sintesi (e sempre generalizzando):

sono stati analizzati i singoli casi

per verificare se il soggetto che era stato ingannato, magari con l’aiuto di un
funzionario infedele, avesse o meno responsabilità nell’esserlo stato! Si è, quindi,
implicitamente affermato che, se il truffatore era sì, abile nel convincere la
banca a concedere il mutuo, ma non talmente abile da non lasciare intravedere
la truffa sottostante, l’istituto ha la responsabilità per non essersi avveduta
dell’inganno; mentre, se il disegno truffaldino era perfetto, tale responsabilità
non sussisterebbe.

L’esito è paradossale: le persone offese dei reati di truffa e appropriazione
indebita le quali – anche se solo in parte – avevano l’aspettativa di recuperare
il maltolto mediante la vendita degli immobili su cui avevano iscritto l’ipoteca al
momento della concessione del mutuo, si vedono sottratta dallo Stato questa

possibilità.

La debolezza della motivazione (pag. 38) del decreto del Tribunale (la Corte
tralascia del tutto la questione) risulta con ogni evidenza: la “colpa” degli istituti
bancari deriverebbe dal loro ruolo costituzionale. Poiché, in base all’art. 47 della
Costituzione, “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme
e disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”, l’erogazione dei mutui
non è un “fatto che riguarda in via esclusiva l’istituto di credito”: esso non solo

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atteggiamento doloso, ma è sufficiente una violazione colposa del dovere di

deve “assicurare un impiego delle risorse corretto dal punto di vista economico”,
ma deve fare una “ragionevole previsione del rientro del finanziamento e della
sua rimuneratività nonché della regolare impostazione dell’operazione che viene
ad essere finanziata”; sì, perché “l’apertura di credito accordata dagli istituti
di credito al proposto è ciò che permette allo stesso di stare sul mercato e di
continuare a nuocere” e, quindi, la banca ha “oggettivamente sostenuto con il
proprio agire l’attività delinquenziale” del Raccagni.
Verrebbe da osservare che tutti i truffati “sostengono oggettivamente”

loro denaro o dei loro beni e che il successo nelle truffe permette ai truffatori
di “restare sul mercato” e continuare nell’attività illecita …
Ma, appunto, il Tribunale si sostituisce palesemente agli organi di vigilanza
bancaria, ritenendo che le banche siano vittime “diverse”, meritevoli di
punizione: in realtà ad essere applicata è una sanzione

extra ordinem, non

prevista dalla legge, che non attribuisce alcun potere in questo senso al Giudice
della prevenzione.

Una riflessione ulteriore si impone.
Il decreto del Tribunale di Milano svolge preliminarmente un’ampia
trattazione (pag. 16) sulla possibilità di applicare le misure di prevenzione
patrimoniale anche a coloro che – come Raccagni – rientrano nella categoria
di cui all’art. 1, comma 1, n. 2 legge 1423 del 1956 (soggetti che vivono
abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose); viene
affrontata la tematica concernente la portata degli artt. 19, comma 1, legge
152 del 1975, 14 legge 55 del 1990 e 11 ter di. n. 92 del 2008 conv., con
modificazioni, nella legge 125 del 2008.
Non occorre riprendere la questione, atteso che – come dà atto lo stesso
Tribunale – l’abrogazione dell’art. 14 legge cit. toglie ogni dubbio sull’applicabilità
della confisca anche a quella categoria di soggetti.

Ma il tema rileva sotto un altro profilo: poiché le attività illecite che rilevano
ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale sono assai
differenti tra loro, occorre particolare attenzione a non applicare in modo
automatico i principi, sulla base dei quali i terzi “fiancheggiatori” degli indiziati di
appartenere ad associazioni mafiose subiscono gli effetti della confisca dei beni
se non dimostrano la loro buona fede, a fattispecie del tutto differenti quale,
appunto, la presente in cui le banche sono vittime di truffe o appropriazioni
indebite e nelle quali i beni vengono confiscati a coloro che le hanno ingannate.

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l’attività delinquenziale dei truffatori, permettendo loro di impossessarsi del

Ciò si osserva con riferimento alla sentenza di questa Corte menzionata
(pag. 35) nel decreto del Tribunale e ritenuta particolarmente significativa in
quanto “la fattispecie era affine a quella in esame”: si tratta di Sez. 5, n. 15328
del 18/03/2009 – dep. 09/04/2009, Banca Della Campania Spa, Rv. 243610,
così massimata: “In tema di confisca quale misura di prevenzione patrimoniale,
ex art. 2 ter L. n. 575 del 1965, sussiste a carico del terzo, titolare di un diritto
reale di garanzia sul bene oggetto del provvedimento di confisca di prevenzione,
l’onere di dimostrare di avere positivamente adempiuto con diligenza agli

affidamento “incolpevole” ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza
relativamente alla effettiva posizione del soggetto nei cui confronti si acquisisce
il diritto di garanzia. (Fattispecie in cui si è escluso l’assolvimento di detto
obbligo gravante su un istituto di credito – creditore ipotecario di una società che
aveva conseguito una apertura di credito di svariati miliardi, concedendo ipoteca
su diversi immobili divenuti oggetto di provvedimento definitivo di confisca, ex L.
n. 575 del 1965 – evidenziando che già sulla base dei risultati della istruttoria
predisposta dalla banca, funzionale alla valutazione del “merito creditizio”,
emergeva la scarsa entità del capitale sociale rispetto alle fonti di finanziamento
e la percezione dell’influenza di vicende “extracaratteristiche” non
sufficientemente specificate e che, pertanto, il terzo creditore di fatto disponeva
di tutti gli strumenti utili alla formulazione di un giudizio di “non illibatezza”
dell’operatore commerciale)”.
La lettura della motivazione della sentenza fa emergere la evidente diversità
delle due situazioni: la Corte, infatti, evidenziava che “le assai significative
risultanze della attività di indagine eseguita dalla Guardia di finanza in relazione
a fatti risalenti ad epoche anche coincidenti con quelle che avevano visto
il sorgere e il consolidarsi dei rapporti finanziari tra la banca ed il Rea; si
delineavano già allora in maniera incisiva ed evidente una serie di anomalie
che erano riscontrabili dalla sola lettura dei bilanci e della movimentazione
bancaria della società cliente sicché proprio considerando che la SBE e le
altre società del gruppo Rea erano correntiste della banca e che questa aveva
concesso la apertura di credito stimando i flussi economico-finanziari di tutte le
società in questione, appare evidente che l’analisi congiunta dei detti elementi
conoscitivi già all’epoca dei fatti avrebbe dovuto necessariamente condurre ad
una valutazione di non regolarità e linearità del complesso delle operazioni. Ne
emergeva un quadro che vedeva il Rea protagonista di una vertiginosa ascesa
economica, trasformandosi in breve tempo da bracciante agricolo in ricco
imprenditore, amministratore di numerose società immobiliari e finanziarie oltre
che titolare di una delle più prestigiose concessionarie Mercedes del meridione.

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obblighi di informazione e di accertamento e quindi di avere fatto

Le indagini di cui si da conto dimostrarono che le società finanziarie risalenti
al proposto avevano da sempre gestito direttamente o per il tramite di società
finanziarie da esse dipendenti immensi capitali, apparentemente sorti dal nulla,
dei quali non fu possibile appurare la legittima provenienza”.
Veniva menzionata anche una relazione istruttoria della stessa Banca
creditrice ove, a proposito di una delle società del gruppo Rea, si poneva in
risalto la scarsa entità del capitale sociale rispetto alle fonti di finanziamento e
la percezione della influenza determinante di “vicende extra caratteristiche non

Il Tribunale aveva ritenuto, pertanto, esistente la consapevolezza, da
parte dell’istituto di credito, in ordine alla non regolarità dei flussi economici e
finanziari delle società del debitore, deducendo la disponibilità in capo all’istituto
bancario “di tutti gli strumenti utili e funzionali alla formulazione di un giudizio
di “non illibatezza” dell’operatore commerciale suo interlocutore”.

Come si vede, si trattava di un affiancamento permanente e di una notevole
agevolazione da parte di un istituto bancario nei confronti di un soggetto le
cui proprietà e disponibilità emergevano palesemente come di assai dubbia
provenienza, anche tenuto conto della rapidità con cui un bracciante agricolo era
diventato un ricco imprenditore.
Il caso, a ben vedere, sembra esemplare per segnare i confini del concetto
di “estraneità”: in primo luogo, le ricchezze e gli immobili di cui il soggetto
disponeva non erano di provenienza della banca, ma, appunto, erano di
origine assai dubbia (e, quindi, verosimilmente illecita); in secondo luogo, la
banca si trovava di fronte alla scelta se affiancare e sostenere un soggetto del
genere, “chiudendo gli occhi” di fronte all’origine delle sue ricchezze, pur di
ottenere un proprio vantaggio (derivante dai rapporti di apertura di credito per
ingentissime somme) oppure di tenersi lontana da un soggetto del genere e
rinunciare ai relativi guadagni; in terzo luogo, la banca aveva la possibilità di fare
una scelta informata perché il suo rapporto con il cliente proseguiva da lungo
tempo.
Ecco che la banca, operando una determinata scelta imprenditoriale, aveva
contribuito a immettere nel circuito economico generale le ricchezze di origine
illecita, poiché quegli immobili già di proprietà del cliente si “trasformavano”
in denaro contante mediante le aperture di credito. La banca, in altre parole,
non rischiava il “suo” denaro ma elargiva disponibilità economiche a chi
– autonomamente, ma con modalità sospette – aveva già in precedenza
accumulato notevoli ricchezze.

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sufficientemente specificate”.

In un quadro come quello oggetto di quel procedimento aveva una
motivazione la discussione in ordine alla “buona fede” della banca; discussione
che, appunto, non si giustifica affatto nel presente procedimento per le
motivazioni già addotte.

Il decreto impugnato deve essere, quindi, annullato limitatamente alle
statuizioni adottate nei confronti degli istituti bancari ricorrenti. Il motivo
principale accolto assorbe quelli ulteriori singolarmente formulati dai ricorrenti.

bancari rimasti vittime dei delitti di truffa o appropriazione indebita all’atto
dell’erogazione dei mutui, in forza dei quali erano state iscritte ipoteche sugli
immobili confiscati, devono essere considerati terzi estranei ai reati posti in
essere dal soggetto nei cui confronti è applicata la misura di prevenzione
patrimoniale e, pertanto, nei loro confronti non può essere ordinata la
cancellazione della trascrizione dell’ipoteca nei registri immobiliari.

2. Il ricorso della curatela del Fallimento Club Astory s.r.l. deve essere
rigettato.

Questa Corte ha recentemente affermato che la procedura di prevenzione
patrimoniale diretta alla confisca di beni prevale su quella fallimentare, sia
quando il fallimento sia stato dichiarato prima del sequestro preventivo, sia
quando sia stato dichiarato successivamente, dovendo essere privilegiato
l’interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia rispetto all’interesse
meramente privatistico della “par condicio creditorum” perseguito dalla
normativa fallimentare (Sez. 1, n. 16797 del 22/03/2011 – dep. 02/05/2011,
Tanzarella e altri, Rv. 250327). Il superiore interesse muove dall’esigenza di
evitare che il bene venga rimesso in circolazione e meno che meno ritorni nella
disponibilità del presunto mafioso, atteso che se è vero che il fallito perde la
amministrazione e la disponibilità del bene, è altrettanto vero che la titolarità
rimane in capo suo e che la disponibilità dello stesso può essere riacquistata, una
volta che risulti un attivo al termine della procedura concorsuale.
Tale interpretazione muove da un equo bilanciamento degli interessi
e dunque non si scontra con i diritti dei terzi, sicuramente compressi ma
non “indebitamente”.

Come esattamente rilevato dalla Corte territoriale, i beni erano entrati nel
patrimonio della società in maniera illecita e, quindi, non potevano garantire in
alcun modo i suoi creditori.
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Il Giudice di rinvio si atterrà al principio di diritto per cui gli istituti

3. Il ricorso di Giuseppina Ferrari è, infine, inammissibile per difetto di
procura speciale rilasciata al difensore che l’ha proposta.

Come segnalato dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, questa
Corte ha ripetutamente affermato che in tema di procedimento di prevenzione,
il difensore del terzo interessato, non munito di procura speciale, non è
legittimato a ricorrere per cassazione avverso il decreto che dispone la misura di

Ardito e altro, Rv. 257812; Sez. 6, n. 46429 del 17/09/2009 – dep. 02/12/2009,
Pace e altri, Rv. 245440), con conseguente inammissibilità del ricorso.

Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in
forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale
ritenuta congrua, di euro 1.000 (mille) in favore delle Cassa delle Ammende, non
esulando profili di colpa nel ricorso (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Annulla il decreto impugnato limitatamente alle statuizioni adottate nei
confronti degli istituti bancari ricorrenti e rinvia per nuovo esame alla Corte
d’appello di Milano; rigetta il ricorso della Curatela del Fallimento Club Astory
s.r.l. che condanna al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile
il ricorso di Ferrari Giuseppina che condanna al pagamento delle spese
processuali e al versamento della somma di euro 1.000 in favore della Cassa
delle ammende.

Così deciso il 27 febbraio 2014

Il Consigliere estensore

Il Presidente

prevenzione della confisca (Sez. 6, n. 44636 del 31/10/2013 – dep. 05/11/2013,

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