Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3393 del 12/11/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3393 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: GRAZIOSI CHIARA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
AMICI MARCELLA N. IL 13/01/1960
avverso la sentenza n. 128/2013 CORTE APPELLO di GENOVA, del
05/06/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/1 1/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI
Udito il Procuratore Generale in nersona del Dott.
che ha concluso per cuu,

Udito, per la parte civile, l’Avv
U it i difensor Avv.
(2)t-Q-Ati

C5>-51-

Data Udienza: 12/11/2014

287/2014

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 5 giugno 2013 la Corte d’appello di Genova, a seguito di appello
proposto da Amici Marcella avverso sentenza dell’Il luglio 2012 con cui il Tribunale di Genova
l’aveva condannata alla pena di un anno e nove mesi di reclusione e C 1000 di multa per i reati
di cui agli articoli 474 c.p. (capo A), 517 c.p. (capo B) e 648 c.p. (capo C), in riforma parziale,

reato di cui al capo B come tentativo, ha rideterminato la pena in quattro mesi di reclusione e
C 3000 di multa.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di due motivi.
Il primo motivo denuncia erronea interpretazione e travisamento delle prove, assenza di dolo
e applicabilità dell’articolo 530, comma 2, c.p.p., in quanto l’imputata era amministratrice della
società Ideai Trade Srl, ma non aveva svolto in realtà tale incarico, e nella fattispecie sarebbe
necessaria una condotta commissiva, non omissiva, la culpa in vigilando essendo configurabile
solo per l’attività dell’amministratore rientrante nel campo contabile e amministrativa/fiscale.
Il secondo motivo denuncia carenza di motivazione sulla sussistenza del reato di cui al capo B
in relazione all’effetto ingannatorio del marchio CE.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo ripropone una doglianza che era già stata presentata al giudice d’appello: a
fronte della imputazione ex articolo 517 c.p. per avere, in qualità di legale rappresentante della
suddetta Srl, messo in circolazione prodotti industriali con segni atti a trarre in inganno il
compratore sull’origine, sulla provenienza e sulla qualità del prodotto (si trattava in particolare
della importazione dalla Cina di 117 minimoto sul cui serbatoio era apposta una falsa
marcatura “CE”) – imputazione che, riqualificata a livello di tentativo, la corte territoriale ha poi
ritenuto fondata nei confronti della Amici -, l’appellante aveva dedotto di aver assunto il ruolo
di amministratrice della società su richiesta di suo marito, che, essendo già amministratore di
un’altra società, desiderava non cumulare le due cariche, ma di non avere mai in effetti svolto
l’incarico di amministratore, per cui i suoi comportamenti sarebbero stati esclusivamente di
natura omissiva; inoltre, non vi sarebbe stato l’elemento soggettivo del reato, non essendo
sufficiente il dolo eventuale. Il giudice d’appello ha confutato tale prospettazione, rilevando che
come amministratrice l’imputata non poteva essere “completamente all’oscuro delle iniziative

ha assolto l’imputata dai reati di cui ai capi A e C perché il fatto non sussiste, e, qualificato il

ed operazioni commerciali che, quand’anche disposte da altri, necessitavano pur sempre, per il
loro perfezionamento, della sua firma quale soggetto unico che poteva impegnare la società
rappresentata”, per cui non poteva non aver consapevolmente partecipato all’importazione
delle moto dalla Cina (l’appellante aveva addotto di essere consapevole dell’attività di
commercio della società come limitata a pentole da cucina e affini). La motivazione offerta
dalla corte territoriale è evidentemente congrua e priva di manifesta illogicità, e il motivo del
ricorso non la confuta specificamente, limitandosi a riproporre le stesse argomentazioni di fatto

sullo svolgimento in buona fede di funzioni di prestanome: giurisprudenza in questa sede
evidentemente non pertinente, dal momento che il sopra sintetizzato ragionamento della Corte
d’appello conduce all’accertamento di fatto – conforme a quello del primo giudice dell’esistenza di una condotta commissiva e dolosamente consapevole della ricorrente, che non
poteva certo non avvedersi di quello che sottoscriveva in nome della società come contratto di
importazione, tenuto conto anche del fatto che l’oggetto della importazione era ictu ocu/i
assolutamente diverso (nninimoto in luogo di pentole e arnesi da cucina) da quello che,
secondo la prospettazione della stessa imputata, avrebbe dovuto esser oggetto del commercio
svolto dalla società. Il motivo, quindi, è manifestamente infondato.
Il secondo motivo adduce che la condanna sarebbe “del tutto fornita di motivazione”, non
essendovi spiegazione sul motivo per il quale il marchio CE fosse falso “posto che questa difesa
in appello si era peritata di dimostrare come in effetti il marchio CE fosse pienamente
rispondente ai requisiti di forma richieste dalla normativa in materia”. La doglianza si colloca, a
ben guardare, sul piano direttamente fattuale, perché si fonda sull’asserita dimostrazione che
nella merce vi fossero i requisiti del marchio, e che quindi quest’ultimo non avesse effetto
ingannatorio. Ciò conduce il motivo alla inammissibilità, non rientrando nella cognizione del
giudice di legittimità una simile verifica degli esiti probatori.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, il
che impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione ad ogni effetto
(in particolare, la presenza di cause di non punibilità ex articolo 129 c.p.p. non è valutabile

e a richiamare giurisprudenza sulla necessità di accertamento di una condotta commissiva e

qualora non sia stato instaurato validamente un ulteriore grado di cognizione, come insegna la
giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (S.U. 22 novembre 2000 n. 32, De Luca;
in particolare, l’estinzione del reato per prescrizione è rilevabile anche d’ufficio a condizione
che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di giudizio, cioè non risulti affetto da
inammissibilità originaria come invece si è verificato nel caso de quo: ex multis v. pure S.U. 11
novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3 novembre 1998 n. 11493, Verga; S.U.
22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. III, 10 novembre 2009 n. 42839, Imperato
Franca) con conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art.616 c.p.p., al pagamento
delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte
costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di
ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della

–)

causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via
equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

e della somma di €1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma il 12 novembre 2014

Il Presidente

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali

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