Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3391 del 12/11/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3391 Anno 2015
Presidente: FIALE ALDO
Relatore: FRANCO AMEDEO

SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Varese;
avverso la sentenza emessa il 13 giugno 2013 dal giudice del tribunale di
Varese nei confronti di Pollicoro Vito Domenico;
udita nella pubblica udienza del 12 novembre 2014 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Gioacchino Izzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Svolgimento del processo
A Pollicoro Vito Domenico venne contestato il reato di cui all’art. 2,
comma 1 bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, per avere omesso il versamento delle ritenute previdenziali ed
assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti per il
periodo tra il febbraio 2005 ed il giugno 2005 per la somma complessiva di €
468,00, con la recidiva di cui all’art. 99, comma 4, cod. pen.
Il giudice del tribunale di Varese, con la sentenza in epigrafe, dichiarò non
doversi procedere perché il reato era estinto per prescrizione.
Il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Varese propone ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione. Osserva che erroneamente il giudice è partito dal presupposto che la data di consumazione del reato coincida con il periodo al quale si riferiscono le mensilità
contributive non corrisposte. Al contrario, così come contestato, il reato si consuma alla scadenza del termine di tre mesi dalla contestazione, entro i quali si
può provvedere alla scadenza del debito contributivo, ossia nel caso di specie
dal 10.1.2010.

Data Udienza: 12/11/2014

In secondo luogo deduce che era stata contestata la recidiva ex art. 99,
comma 4, cod. pen. ed il giudice avrebbe dovuto tenerne conto ai fini del termine di prescrizione oppure motivare sulla esclusione della recidiva. Andava poi
calcolato il termine di sospensione di cui all’art. 2, comma 1 quater, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638.
Motivi della decisione
Il ricorso del PM è infondato.
Per quanto riguarda il primo motivo, infatti, può ricordarsi che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, «Il reato di omesso versamento delle ritenute
previdenziali ed assistenziali (art. 2, comma primo bis, D.Lgs. 12 settembre
1983 n. 463, conv. in L. 11 novembre 1983, n. 638) si consuma il giorno sedici
del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi e, per le condotte
commesse fino all’8 dicembre 2005, data di entrata in vigore della legge n. 251
del 2005, é applicabile la previgente e più favorevole disciplina della prescrizione» (Sez. III, 21.2.2012, n. 10974, Norelli, Rv. 252367); «Il reato di omesso
versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2, D.L. 12 settembre 1983, n. 463, conv. in L. 11 novembre 1983, n. 638), in quanto reato omissivo istantaneo, si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso
al datore di lavoro per il versamento, termine attualmente fissato, dall’art. 2,
comma primo, lett. b) del D.Lgs. n. 422 del 1998, al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi. (In motivazione la Corte, nell’enunciare tale principio, ha ulteriormente affermato che, ai fini dell’individuazione del momento consumativo non rileva la data della notifica dell’intimazione di pagamento nei tre mesi successivi alla contestazione, termine la cui rilevanza è limitata all’eventuale sussistenza della causa di non punibilità di cui
all’art. 2, comma primo bis, del citato D.L.)» (Sez. III, 16.4.2009, n. 20251, Casciaro, Rv. 243628; conf. Sez. III, 14.12.2010, n. 615 del 2011, Ciampi, Rv.
249164).
Del tutto erroneamente, quindi, nel capo di imputazione è stata indicata
come data di consumazione il termine di tre mesi dalla notificazione dell’avviso
di accertamento, notificazione della quale peraltro nel ricorso non è nemmeno
indicato se, come e quando sia eventualmente avvenuta. Esattamente, invece, il
giudice ha ritenuto che la consumazione dell’ultimo dei reati era da fissarsi al
16 luglio 2005.
Stante la mancanza di qualsiasi indicazione, anche nel ricorso,
dell’avvenuta notificazione dell’avviso di accertamento, non è possibile nemmeno calcolare i tre mesi di sospensione del corso della prescrizione. Del resto,
anche qualora si potessero calcolare questi tre mesi, la prescrizione sarebbe comunque già decorsa alla data di emissione della sentenza impugnata.
Quanto al secondo motivo, può osservarsi che quand’anche fosse stata ritenuta la recidiva contestata, in ogni caso il termine di prescrizione sarebbe stato di sette anni e mezzo, come correttamente ritenuto dal giudice. Difatti, in
mancanza di ulteriori specificazioni nel capo di imputazione, dovrebbe ritenersi
che si tratti della recidiva di cui al comma quarto in relazione al comma primo
dell’art. 99 cod. pen., sicché l’aumento di pena avrebbe dovuto essere della metà. Il reato in questione prevede la pena della reclusione fino a tre anni oltre alla

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multa. Con l’aumento per la recidiva, pertanto, la pena detentiva edittale massima sarebbe stata di quattro anni e mezzo. Conseguentemente, applicando sia
la vecchia sia la nuova normativa sulla prescrizione, il termine prescrizionale
sarebbe stato in ogni caso di sette anni e mezzo.
Qualora invece si dovesse ritenere che — pur in mancanza di specifica contestazione — si trattasse della recidiva di cui all’art. 99, comma quarto in relazione al comma secondo, cod. pen., allora, con l’aumento di due terzi per la recidiva, il massimo della pena detentiva edittale sarebbe stato di anni cinque di
reclusione. In tal caso, però, si sarebbe dovuto applicare — perché più favorevole — il nuovo testo dell’art. 157 cod. pen., e non quello vigente al momento della
commissione del reato, con la conseguenza che il termine prescrizionale sarebbe stato ugualmente di sette anni e mezzo.
Il pubblico ministero ricorrente sostiene invece che, trattandosi di una circostanza aggravante ad effetto speciale, «il giudice avrebbe dunque dovuto, non
già calcolare la recidiva sul termine di anni sei elevato di un quarto, bensì calcolare il termine di prescrizione tenendo conto dell’aumento massimo di pena
derivante dall’applicazione della recidiva». Secondo il pubblico ministero ricorrente, pertanto, «il massimo della pena edittale ai fini del calcolo della prescrizione è non già di anni sei ma di anni 10 nel caso di recidiva reiterata infraquinquennale o specca e di anni nove nel caso di recidiva reiterata ex art.
99 commi primo e quarto c.p.».
Se ben si comprende, quindi, la tesi del ricorrente sarebbe la seguente:
poiché si tratta di reato con pena edittale inferiore a sei anni, il termine minimo
di prescrizione del reato è di sei anni. Su questo termine prescrizionale si dovrebbe quindi applicare l’aumento per la recidiva della metà o di due terzi a seconda del tipo di recidiva. Quindi, il termine minimo di prescrizione per il reato
aggravato dalla recidiva sarebbe appunto di nove o di dieci anni. Nel caso di interruzione, su questi termini dovrebbe poi applicarsi l’aumento di un quarto.
La tesi è chiaramente infondata, perché in tal modo l’aumento per la recidiva (ai fini del calcolo della prescrizione) viene applicato non sulla pena edittale massima del reato base bensì sul termine di prescrizione del medesimo reato. Il testo del primo comma dell’art. 157 cod. pen. non sembra lasciare dubbi
sulla sua interpretazione nello stabilire che «la prescrizione estingue il reato
decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla
legge». La regola fondamentale è dunque che il reato si estingue con il tempo
corrispondente al massimo della pena edittale. Per calcolare il termine prescrizionale occorre perciò individuare qual è il massimo della pena edittale (e non
qual è il termine minimo di prescrizione). Per il reato in esame, il massimo della
pena edittale è appunto di tre anni per il reato base e, nel caso di reato aggravato
dalla recidiva, di cinque ovvero di sei anni. E’ questo pertanto il tempo necessario per prescrivere. Poiché nella prima di queste due ultime ipotesi il massimo
della pena edittale per il reato aggravato dalla recidiva è di cinque anni, deve
poi trovare applicazione l’altra regola posta, in via subordinata, dalla seconda
parte del primo comma dell’art. 157, secondo cui la prescrizione estingue il reato decorso «comunque un tempo non inferiore a sei anni». Del resto appare anche significativo il fatto che la norma di cui alla prima parte del primo comma

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dell’art. 157 usa l’articolo determinativo, appunto ad indicare che il tempo corrispondente al massimo della pena edittale da prendere in considerazione (per il
reato base o aggravato) è univoco; mentre la norma della seconda parte del
comma si applica ad un numero indeterminato di casi in cui la pena massima è
inferiore a sei anni per i delitti ed a quattro anni per le contravvenzioni. Questa
interpretazione appare confermata anche dal secondo comma dell’art. 157, il
quale pone la regola che per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha
riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza
tener conto di attenuanti ed aggravanti, mentre per stabilire la pena massima nel
caso di aggravante ad effetto speciale — qual è nella specie la recidiva – «si tiene
conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante». Questa norma
stabilisce in maniera inequivocabile che si deve tenere conto dell’aumento massimo per la recidiva appunto per determinare la pena massima editale stabilita
dalla legge per il reato aggravato, pena massima in base alla quale va poi determinato il tempo necessario a prescrivere ai sensi del primo comma dell’art.
157.
Il ricorso del pubblico ministero deve pertanto essere rigettato.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso del pubblico ministero.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 12
novembre 2014.

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