Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33870 del 06/05/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 33870 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: RAGO GEPPINO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CACCIOLA GREGORIO N. IL 28/09/1951
avverso l’ordinanza n. 1055/2013 TRIB. LIBERTA’ di REGGIO
CALABRIA, del 07/11/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GEPPINO RAGO;
t/sentite le conclusioni del PG Dott. S ci A „Sh,o_c_ ju. k Q.

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Data Udienza: 06/05/2014

RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del Riesame di Reggio
Calabria ha sostituito nei confronti di CACCIOLA Gregorio la misura della
custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari.
CACCIOLA Gregorio era stato sottoposto a cautela perché gravemente
indiziato del reato di cui all’art. 629 c.p., aggravato ex art. 7 L. 203/1991,
ovvero perché, in concorso con GARRUZZO MICHELANGELO,
«in tempi diversi, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso,

Gregorio le somme precedentemente corrisposte a saldo del contratto di
intermediazione stipulato, in data 9 luglio 2011, tra Cacciola Domenico (figlio di
Cacciola Gregorio) e la FederPetroli. In particolare, successivamente alla stipula
del predetto contratto: Cacciola Gregorio intimava a Marsiglia Carmine il
rimborso tutte le somme precedentemente corrisposte, con la minaccia che, in
caso contrario, avrebbe “preso le palle di suo ,figlio Simone e gliele avrebbe
latte trovare fuori la porta” e, successivamente e in tempi diversi, minacciava
telefonicamente di morte sia lui che i suoi familiari e lo terrorizzava
rivolgendogli frasi del seguente tenore: “ti spezzo le gambe, non ti ,faccio più
camminare, tu non sai con chi hai a che fare, non mi interessa nulla che tua
moglie è ammalata di tumore perché se vengo a trovarti a Padova non
risparmierò neppure lei; Garruzzo Michelangelo, su mandato di Cacciola
Gregorio, contattava ripetutamente il Marsiglia per sollecitarlo alla restituzione
delle somme versate dal predetto Caccio/a, rappresentandogli in modo allusivo
che quest’ultimo faceva parte di una famiglia molto importante a Rosarno che lo
avrebbe ,fatto ammazzare e che, pertanto. gli sarebbe convenuto
corrispondergli quanto richiestogli anche se si trattava di somme non dovutegli
in base agli accordi contrattuali: costringendo così Marsiglia Carmine ad
effettuare, in ,favore di Cacciola Gregorio, tre vaglia postali emessi,
rispettivamente, in data 16 marzo 2013. in data 21 marzo 2013 e in data 5
aprile 2013, per l’importo di C 500.00 ciascuno, conseguendo così un ingiusto
profitto con altrui danno. Con l’aggravante dell’aver commesso il

° fatto

avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero
rappresentando, con chiare modalità intimidatorie, da un lato, l’intervento di
conoscenti e/o amici di origini calabresi e, dall’altro. la caratura criminale della
famiglia di provenienza di Cacciola Gregorio ; avvalendosi così della forza di
intimidazione che scaturiva dal prospettare il coinvolgimento di soggetti
potenzialmente appartenenti e/o vicini all’associazione di tipo mafioso
denominata ‘ndrangheta e delle conseguenti condizioni di assoggettamento e di

costringevano Marsiglia Carmine, mediante minaccia, a restituire a Cacciola

omertà che ne derivano. Con la recidiva reiterata ed infraquinquennale per
Cacciola Gregorio. Reati commessi in Rosamo sino al 5 aprile 2013».

Contro tale provvedimento, l’imputato (con l’ausilio di un avvocato iscritto
all’apposito albo speciale) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i
seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione,
come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:
I – violazione degli artt. 273 c.p.p. – 629 c.p. – 7 I. n. 203 del 1991 – 393

(quanto alla genesi del rapporto contrattuale inter partes) sia quella della p.o.
(quanto alle minacce estorsive ed alla loro entità); nulla avvalorerebbe la
contestazione della aggravante di cui all’art. 7 cit., non potendo attribuirsi rilevo
ad una passata ed ultradecennale frequentazione con qualche pregiudicato.

In data 29 aprile 2014 sono stati presentati motivi nuovi, con i quali – sia
pur all’esito di sedici pagine di deduzioni – vengono riproposte le doglianZe già
costituenti motivo di ricorso.

All’odierna udienza camerale, si è proceduto al controllo della regolarità
degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe,
e questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da
dispositivo in atti.

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato.

I LIMITI DEL SINDACATO DI LEGITTIMITA’ SULLA MOTIVAZIONE
DELLE ORDINANZE APPLICATIVE DI MISURE CAUTELARI PERSONALI

1. E’ necessario preliminarmente determinare i limiti entro i quali questa
Corte Suprema può esercitare il sindacato di legittimità sulla motivazione delle
ordinanze applicative di misure cautelari personali.

1.1. Secondo l’orientamento che il Collegio condivide e reputa attuale anche
all’esito delle modifiche normative che hanno interessato l’art. 606 c.p.p. (cui
l’art. 311 c.p.p. implicitamente rinvia), in tema di misure cautelari personali,
allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del
provvedimento emesso dal Tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei
gravi indizi di colpevolezza, alla Corte Suprema spetta <>.

1.4. Alla luce di queste necessarie premesse va esaminato l’odierno ricorso.

2. Deve premettersi che l’assunto iniziale del ricorrente appare del tutto
destituito di fondamento: la motivazione dal Tribunale del riesame (f. 3 ss.; f.
13 ss.) appare certamente non illogica, quanto alla ricostruzione della genesi
della vicenda contrattuale sottostante alle vicende de quibus (si ammette, in
concreto, che CACCIOLA DOMENICO, figlio dell’odierno indagato, sarebbe
rimasto vittima di una truffa contrattuale ordita in suo danno da MARSIGLIA
CARMINE, odierna p.o., fisiologicamente reticente in proposito), oltre che delle
successive vicende, oggetto dell’odierno procedimento, ricostruite
essenzialmente attraverso il racconto del MARSIGLIA, motivatamente ritenuto
in parte qua attendibile.

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provvedimento del Tribunale del riesame che deduca per la prima volta vizi di

Lo stesso indagato, a ben vedere, non nega di essere autore delle condotte
delle quali è accusato – non avendo, peraltro, in proposito dimostrato nei modi
di rito alcun travisamento- ma insiste nell’enfatizzare le pregresse condotte
truffaldine del MARSIGLIA (come se lo legittimassero a qualsiasi tipo di
reazione, il che non è), oltre che nel contestare la qualificazione dei fatti
accertati – quantomeno al livello di quella gravità indiziaria ad un tempo
necessaria e sufficiente nell’ambito del sub procedimento cautelare – come
estorsione in luogo che come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con

In ordine a tale ultimo profilo, il ricorso è ammissibile, pur se infondato.

2.1. E’ necessario premettere che, a parere del collegio, i delitti di cui agli
articoli 393 e 629 c.p. si distinguono in relazione all’elemento psicologico: nel
primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione
ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di
soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione
giudiziaria; nell’estorsione, invece, l’agente persegue il conseguimento di un
profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto (Sez. II, sentenza n.
22935 del 29 maggio – 12 giugno 2012, CED Cass. n. 253192).
Per ritenere configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni
in luogo di quello di estorsione, occorre, pertanto, che l’agente sia
soggettivamente – pur se erroneamente – convinto dell’esistenza del proprio
diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale (Sez. II,
sentenza n. 12329 del 4. – 29 marzo 2010, CED Cass. n. 247228).

Il collegio è consapevole dell’esistenza di un opposto orientamento, che
valorizza, ai fini della predetta distinzione, la materialità del fatto (cfr., tra le
altre, Sez VI, sentenza n. 32721 del 21 giugno – 7 settembre 2010, CED Cass.
n. 248169, per la quale «Ai fini della distinzione tra esercizio arbitrario delle
proprie ragioni ed estorsione nel caso che il soggetto possa far valere il suo
diritto dinanzi all’autorità giudiziaria, occorre avere riguardo al grado di gravità
della condotta violenta o minacciosa che, se manifestata in modo gratuito o
sproporzionato rispetto al fine, ovvero tale da non lasciare possibilità di scelta
alla vittima, integra gli estremi del più grave delitto di estorsione»), ma
reputa tale orientamento non rispondente al dato normativo, poiché gli articoli
393 e 629 c.p. inequivocabilmente descrivono la materialità degli elementi
costitutivi dei reati de quibus in termini identici, evocando i medesimi concetti

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violenza alle persone.

di «violenza» o «minaccia», senza alcun riferimento al “quantum” di
forza coercitiva impiegata dal soggetto agente.

E, d’altro canto, c’è un ulteriore dato normativo a quanto risulta fin qui
ingiustificatamente trascurato dalla giurisprudenza: invero, sia l’art. 393,
comma 3, c.p. che l’art. 629, comma 2, c.p. (in quest’ultimo caso, mediante
richiamo dell’art. 628, comma 3, n. 1 c.p.) prevedono che la pena è aumentata
«se la violenza o minaccia è commessa con armi».

qui si contesta, la violenza o minaccia alla persona commessa con armi,
all’evidenza di particolare gravità, in ipotesi (in relazione all’arma adoperata:
ma la circostanza aggravante speciale de qua non legittima distinzioni tra armi
bianche ed armi da fuoco) sproporzionata rispetto al fine, e comunque sempre
tale da non lasciare possibilità di scelta alla vittima (secondo

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plerumque accidit, disarmata), dovrebbe sempre integrare gli estremi del più
grave delitto di estorsione, il che, per legge, non è.

I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione si
distinguono, pertanto, non per la materialità del fatto, che può essere identica,
ma per l’elemento intenzionale che, qualunque sia stato il livello di intensità o
gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto
quando abbia di mira l’attuazione di una pretesa non tutelabile davanti
all’autorità giudiziaria (così, da ultimo, Sez. IL sentenza n. 51433 del 4 – 19
dicembre 2013); alla speciale veemenza della comportamento violento o
minaccioso potrà, al più, riconoscersi valenza di elemento sintomatico del dolo
di estorsione, null’altro.
Va, conclusivamente, ribadito il seguente principio di diritto, già affermato
da questa Sezione (sentenza n. 705 del 10 gennaio 2014, CED Cass. n.
258071:

«I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o
minaccia alle persone e di estorsione (la cui materialità è descritta dagli artt.
393 e 629 cod. pen. nei medesimi termini) si distinguono in relazione
all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un
profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo
diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare
oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il
conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia.

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(In

Il riferimento appare decisivo, atteso che, a parere dell’orientamento che

motivazione la Corte ha evidenziato che l’elevata intensità o gravità della
violenza o della minaccia di per sé non legittima la qualificazione del fatto ex
art. 629 cod. pen. e tale lettura e confermata dal fatto che il legislatore
prevede che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa essere – come
l’estorsione- aggravato dall’uso di armi)».
2.2. Nel caso di specie, peraltro, pur dovendosi escludere la possibilità di

attribuire – ai fini della qualificazione giuridica dei fatti come provvisoriamente
accertati – decisivo rilievo all’entità delle minacce rivolte in danno della p.o.,

esposte nei motivi nuovi, e che sembra essenzialmente rifarsi ad un recente
precedente di questa sezione, che il collegio condivide, se correttamente
interpretato), di ricondurre tutte le vicende del genere di quelle in oggetto alla
fattispecie di cui all’art. 393 c.p.
2.2.1. Il Tribunale ha ritenuto che, nel caso di specie, «non può non

considerarsi che gli indagati hanno dimostrato una forma intimidatoria
rilevante, tipicamente mafiosa che induce il Collegio a riportare tutta la
complessiva condotta nell’ambito della fattispecie estorsiva, confermando la
ricostruzione giuridica operata dal GIP. Elementi cui ancorare tale
argomentazioni sono costituiti non solo dalla deliberata volontà degli indagati di
raggiungere il proprio obiettivo (anche considerato nella loro ottica legittimo),
quale la restituzione della somma versata di 15000 euro, con modalità
eccessive che esulano da ogni, anche minimo ricorso, agli strumenti di accordo
pacifico o giudiziale e che si spingono tino all’evocazione non solo del male
maggiore per le persone offese (la morte) ma anche al probabile intervento a
sostegno di una consorteria criminosa mafiosa, in grado di sostenere le pretese.
che per le loro intimidatorie e sproporzionate, modalità appaiono certamente
ingiuste nei confronti del MARSIGLIA e della di lui famiglia. L’attività posta in
essere dagli indagati, tra cui l’odierno ricorrente, pertanto. integra gli estremi
del reato di estorsione continuata, trattandosi di una condotta strumentale al
conseguimento di un ingiusto profitto. Del resto, per come sopra rilevato,
l’esame della scrittura privata stipulata, in data

9 luglio 2011, tra Cacciola

Domenico (figlio di Cacciola Gregorio) e la FederPetroli Italia, il cui contenuto
era volutamente generico, porta il Collegio a considerare, per come anche l’atto
dal GIP, il corrispettivo di C 15.000, previsto in favore della suddetta società in
alcun modo condizionato dalle successive vicende inerenti la gestione
dell’impianto di distribuzione essendo convenuto esclusivamente per retribuire
l’attività di intermediazione ed assistenza dalla medesima svolta

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sarebbe inaccoglibile la pretesa (desumibile in particolare dalle argomentazioni

nell’individuazione dell’impianto e nella stipula del contratto con la società
petrolifera. La richiesta dell’integrale restituzione della somma di 15.000, da
Caccíola Gregorio complessivamente corrisposta al Marsiglia in esecuzione del
citato contratto di intermediazione, costituisce pertanto una pretesa indebita,
espressa anche in modalità tali che, secondo la giurisprudenza sopra
richiamata, inducono il Collegio a ritenerla sussunta nella fattispecie contestata
di estorsione».

Invero, il Tribunale sembra evocare la problematica civilistica del se, e in
che termini, spetti al mediatore la provvigione nei casi in cui il contratto si riveli
poi affetto da una causa di invalidità; tuttavia, nel caso di specie, se è vero che
il MARSIGLIA pose in essere raggiri ed artifici per far concludere a DOMENICO
CACCIOLA il contratto al fine di percepire l’importo stabilito per la mediazione,
appare evidente che il predetto CACCIOLA, rimasto vittima di una vera e
propria truffa contrattuale, avrebbe certamente il diritto a vedersi restituire
l’intero importo versato in esecuzione di un contratto che – com’è tipico della
c.d. truffa contrattuale -, in difetto dell’inganno del quale era rimasto vittima
non avrebbe stipulato.
2.2.3.

Peraltro, correttamente, infatti, il Tribunale del riesame ha

valorizzato, quali indici del dolo di estorsione, una serie di elementi invero
inequivocabili.
Invero, le minacce:
– erano state formulate in danno della p.o. non dall’interessato (DOMENICO
CACCIOLA), ma da terzi estranei al rapporto obbligatorio de quo (il padre
GREGORIO e MICHELANGELO GARRUZZO);
– riguardavano non il truffatore-debitore CARMINE MARSIGLIA, ma terzi a
loro volta estranei al rapporto obbligatorio de quo, ed ignari (il figlio Simone – le
cui palle l’indagato si era ripromesso di far ritrovare al MARSIGLIA fuori la porta
di casa -; la moglie, pur ammalata di tumore e ciononostante minacciata di
morte);
– erano state formulate con metod0 mafioso (per modalità, contenuto ed
evocazione dell’appartenenza di GREGORIO CACCIOLA ad una famiglia
malavitosa molto importante in Rosarno)

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2.2.2. Trattasi di argomentazioni solo in parte condivisibili.

E’ pur vero che, di volta in volta, la giurisprudenza di questa Corte Suprema
ha ritenuto di per sé non incompatibile con il reato di cui all’art. 393 c.p. il fatto
che la condotta illecita fosse posta in essere da terzi estranei al rapporto
obbligatorio sottostante, ovvero in danno di terzi estranei al rapporto
obbligatorio sottostante, ma nel caso di specie le predette circostanze entrambe concorrenti -, se valutate tenendo conto, come osservato dal
Tribunale (f. 15 ss.) della «portata delle minacce che, per come dichiarato in
modo credibile dalla persona offesa e riscontrato, si sono estrinsecate in forma

mafioso, da incutere una forza intimidatoria che va al di là del recupero di
somme sulla base di un preteso diritto>>,

appaiono costituire indici

inequivocabili del dolo di estorsione, ovvero della coscienza e volontà di
coartare irresistibilmente la volontà della p.o., onde vincerne ogni possibile
resisteruid, iìiduteiìdoa

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avve;eisi degii oidììiari tirriedi civilislici (ovvero a

non contestare in alcun modo l’avversa pretesa, a non formulare eccezioni né
domande riconvenzionali) e ad accondiscendere supinamente alle avverse
pretese.
Ciò integra per i soggetti agenti il profitto indebito, e per la p.o. il danno
ingiusto, richiesti dall’art. 629 c.p.

Va, in proposito, formulato il seguente principio di diritto:
«Integra gli estremi dell’estorsione (e non dell’esercizio arbitrario delle
proprie ragioni con minaccia alle persone), aggravata dall’aggravante del c.d.
“metodo mafioso”, la condotta consistente in minacce, formulate da terzi
estranei al rapporto obbligatorio sottostante, ed in danno di terzi congiunti del
debitore, a loro volta estranei al rapporto obbligatorio sottostante, quando le
minacce siano particolarmente gravi (la moglie del debitore, ammalata di
cancro, era stata ciononostante minacciata di morte; il figlio, di gravi lesioni agli
organi genitali) e si siano estrinsecate attraverso l’evocazione dell’appartenenza
di uno degli indagati ad una famiglia calabrese delinquenziale di tipo mafioso,
in tal modo esercitando una forza intimidatoria estrema, indice del fine di
procurare al creditore un profitto ingiusto con danno del debitore (indotto ad
accondiscendere supinamente alle avverse pretese, senza avvalersi degli
ordinari rimedi civilistici, ovvero a non contestare in alcun modo l’avversa
pretesa, ed a non formulare eccezioni né domande riconvenzionali), senz’altro

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tale, attraverso l’evocazione di una famiglia calabrese delinquenziale di tipo

esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un
preteso diritto>>.
2.2.4. Quanto alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 cit., il Tribunale ha
posto in rilievo numerosi indici, tra i quali appaiono sufficienti a legittimare la
contestazione le modalità ed il contenuto delle minacce rivolte ai congiunti del
debitore (di morte e di amputazione di arti vitali, secondo una dinamica
motivatamente ritenuta tipicamente mafiosa), oltre che l’evocazione
dell’appartenenza di GREGORIO CACCIOLA ad una famiglia malavitosa molto

3. Il rigetto, nel suo complesso, del ricorso comporta la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, udienza camerate b maggio 2014

Il Con gliere estensore

Il Presidente
Mario Gentile

importante di Rosarno.

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