Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33817 del 11/06/2013


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 33817 Anno 2013
Presidente: ZECCA GAETANINO
Relatore: VESSICHELLI MARIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
GALLACE ANTONIO N. IL 13/06/1965
avverso l’ordinanza n. 612/2012 TRIB. LIBERTA’ di CATANZARO,
del 10/01/2013
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
le
entite le conclusioni del PG Dott.

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Uditi difensor Avv.;

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owir.

Data Udienza: 11/06/2013

Fatto e diritto
Propone ricorso per cassazione Gallace Antonio, avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Catanzaro,
in data 10 gennaio 2013, con la quale è stato rigettato l’appello avanzato contro il provvedimento del locale
Gip, di rigetto di una richiesta di scarcerazione, per perdita di efficacia della misura cautelare ai sensi
dell’articolo 297 Cpp.
Il Tribunale del riesame ha posto in evidenza che l’ordinanza di cui è stata richiesta la retrodatazione era
quella, di custodia cautelare in carcere, emessa il 12 gennaio 2012 per il delitto di associazione mafiosa
contestato come commesso “dagli anni ’80 sino all’attualità”.
ordinanza di custodia cautelare, emessa nei confronti dello stesso indagato 1’8 aprile 2011, nell’ambito di un
procedimento diverso, con riferimento all’imputazione provvisoria di omicidio volontario ed occultamento
di cadavere, commessi nel 1993, ai danni di Placido Scaramuzzino.
L’istanza era stata rigettata dal Gip sul presupposto che mancasse la connessione qualificata tra i reati
oggetto delle due ordinanze e che, all’atto dell’emissione della prima ordinanza, non fossero stati acquisiti
tutti gli elementi indizianti scaturiti, invece anche a seguito di indagini successive (in particolare con la
acquisizione delle dichiarazioni di Forastefano Antonio).
Il Tribunale della libertà ha confermato il rigetto, valorizzando un dato ulteriore: e cioè quello della
mancanza del requisito dell’anteriorità del fatto oggetto della seconda ordinanza, rispetto al momento di
emissione della prima ordinanza.
Infatti, il reato di associazione per delinquere oggetto della seconda ordinanza, risultava contestato come
commesso sino al momento dell’emissione dell’ordinanza stessa- nel 2012- e quindi sino ad un momento
successivo a quello di adozione della prima ordinanza cautelare che era del 2011.
Ha citato giurisprudenza conforme in tal senso.
Ha anche motivato sulla possibilità della prosecuzione della condotta associativa anche dopo la cattura
dell’indagato, in esecuzione di un precedente titolo cautelare.
In secondo luogo, ha convalidato comunque il ragionamento del primo giudice e ha argomentato la
ragione della inesistenza del vincolo di connessione qualificata fra i reati oggetto delle due ordinanze, sia
sotto il profilo della continuazione che sotto quello della connessione teleologica; ha infine concluso per la
insussistenza, prima dell’emissione della prima ordinanza, di elementi compiuti capace di sostenere la
notizia criminis oggetto della seconda ordinanza. Al riguardo ha citato le dichiarazioni di Oppedisano Rocco
e Forastefano Antonio, successive all’emissione del primo titolo. Anche l’informativa riepilogativa della
polizia giudiziaria, contenente elementi a carico di Altamura Antonio, era successiva alla prima ordinanza.
Deduce il ricorrente l’inosservanza dell’articolo 297 c.p.p.
Sostiene che la fattispecie concreta in esame debba essere inquadrata nella ipotesi in cui più ordinanze
cautelari per reati legati da connessione qualificata siano emesse nello stesso procedimento: un’ipotesi
nella quale è prevista, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite (Rahulia), l’automatica retrodatazione a
prescindere dalla verifica del momento della desumibilità degli indizi, dagli atti.
La difesa cita anche un passo della citata sentenza delle Sezioni unite nella quale si afferma che lo stesso
principio si applica quando la descritte condizioni ricorrano in procedimenti che per qualche motivo,
divengano in un secondo tempo, diversi.

Tale retrodatazione era stata sollecitata con riferimento alla data di esecuzione di una precedente

Anche con riferimento a tale ipotesi, peraltro, è necessario che ricorra il requisito della anteriorità dei fatti
contestati nella seconda ordingiza, rispetto al momento di emissione della prima ordinanza.
Sotto tale ultimo profilo la difesa sostiene che sussiste requisito dell’anteriorità nonostante la
contestazione aperta del reato Cui ha fatto ricorso il pubblico ministero.
Ed infatti fa presente che gli elementi indiziari per entrambi i reati in contestazione sono rappresentati
dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia rese nel 2009 ( Taverniti e Loielo) : e ciò era tanto vero
che, sulla base di quelle dichiarazioni, si era proceduto all’iscrizione delle notizie di reato sia per il delitto
associativo che per l’omicidio.
Successivamente era stato effettuato lo stralcio con riferimento a tale secondo reato, ma siffatta scelta
E, oltretutto, le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia citati si riferivano, al più tardi, al 1999 e non vi
erano dichiarazioni di altri collaboratori su condotte dell’indagato successive a tale data, essendo stato, lo
stesso, detenuto sin dal 1994.
Diversamente da quanto affermato dal Tribunale, poi, Forastefano nulla aveva dichiarato con riferimento la
posizione del ricorrente.
In secondo luogo la difesa sostiene che fra i due reati oggetto delle distinte ordinanze debba individuarsi da
connessione qualificata.
Infatti la difesa aveva evidenziato come l’omicidio in contestazione dovesse intendersi programmato
nell’esatto momento in cui, a s uito dell’ l’attentato al fratello di Loielo, si erano venuti formando due clan
per il controllo del territorio , facenti capo, l’uno, al Loielo e l’altro ai Maiolo.
In altri termini era possibile affermare che, sin dall’inizio, almeno nelle loro linee essenziali, erano stati
programmati e voluti in uno unitario disegno criminoso, sia il reato associativo che il reato fine.
La difesa contesta anche la modalità con la quale il Tribunale ha stabilito il momento della disponibilità
negli atti, degli indizi concernenti la seconda ordinanza.
In particolare gli elementi valorizzati in tal senso dal Tribunale, e cioè le dichiarazioni dei collaboratori
Forastefano e Oppedisano, non potevano avere rilievo in quanto, come detto, non riguardavano la persona
del ricorrente.
A sostegno del proprio assunto la difesa cita le dichiarazioni rese dall’ispettore Cosco, già sottoposte al Gip,
secondo cui la redazione delle informative relative ad entrambi i reati era stata avviata
contemporaneamente.
Poteva quindi sostenersi che lo stralcio del procedimento riguardante l’omicidio era stato una scelta del
Pubblico ministero in violazione dell’articolo 297, essendo completi a quel tempo gli elementi anche per la
contestazione del reato associativo.
Per tale motivo non può attribuirsi rilievo alla data di formale deposito della ordinanza riepilogativa
essendo invece fondamentale, a tale fine, considerare il momento in cui l’autorità giudiziaria, già in
possesso di determinati elementi, era in grado di dedurre da essi le opportune conclusioni in punto di
sussistenza dei indizi gravi.
Il ricorso è infondato deve essere rigettato.
Non appare superabile, dal punto di vista dei rilievi del ricorrente, il punto centrale del provvedimento
impugnato, consistente nell’affermazione secondo cui manca, nel caso di specie, il requisito della
anteriorità del reato oggetto dell’ordinanza cautelare di cui si richiede la retrodatazione, rispetto al
momento di emissione della precedente ordinanza cautelare.
Tale affermazione è stata fondata, nel provvedimento impugnato, sul rilievo che l’ordinanza cautelare del
2012 è stata adottata con riferimento ad un’ipotesi di reato associativo ex articolo 416 bis c.p., da ritenersi
commesso, con contestazione aperta, quantomeno fino alla data di emissione del provvedimento stesso e

procedurale non poneva nel nulla il fatto obiettivo che le notizie di reato erano entrambe già complete.

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quindi sino al gennaio 2012, con la conseguenza che si tratterebbe di reato permanente la cui
consumazione si è protratta ben oltre la data di emissione della prima ordinanza custodiale, del 2011.
Il Tribunale ha posto in evidenza, per sostenere tale assunto, il fatto che l’indagato è stato raggiunto da
dichiarazioni di più collaboratori di giustizia e che, come ipotizzato dal Pubblico ministero nella
formulazione dell’imputazione con contestazione aperta, può sostenersi che la partecipazione alla detta
associazione sia rimasta ferma anche a seguito dell’arresto dell’indagato per altro titolo, non risultando la
prova della sua estromissione o del suo recesso volontario.
Correttamente, il giudice del merito, si è allineato alla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai
fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il
singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo
indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della
cessazione del carattere permanente del reato soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra
ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato caso per caso in virtù di condotta
esplicita, coerente e univoca e non in base a elementi indiziari di incerta valenza, quali quelli della età, del
subingresso di altri nel ruolo di vertice e dello stabilimento della residenza in luogo in cui si assume non
essere operante una famiglia di “cosa nostra”. Sez. 2, Sentenza n. 25311 del 15/03/2012 Ud. (dep.
27/06/2012) Rv. 253070.
Pertanto il Tribunale, quantomeno ai fini della soglia indiziaria richiesta nell’incidente cautelare, ha
plausibilmente osservato che, non risultando agli atti un esplicito ed univoco atto di recesso del ricorrente
da sodalizio criminoso, era plausibile inferire il mantenimento della sua permanenza in esso e quindi la
mancanza del requisito dell’anteriorità della condotta.
Il contrario rilievo difensivo non può essere apprezzato.
Ed infatti esso è fondato su un preteso vizio di motivazione che avrebbe riguardato il motivo di appello con
cui era stato dedotto che, a parlare del coinvolgimento dell’indagato nel sodalizio mafioso, erano stati due
soli collaboratori di giustizia le cui dichiarazioni erano state raccolte nel 2009 e facevano riferimento ad un
inserimento protratto al massimo fino al 1999.
È infatti evidente che la prospettazione difensiva non valeva ad incidere sul ragionamento seguito,
plausibilmente, dal giudice del merito, con la conseguenza che la mancanza di motivazione esplicita sul
punto è superata dalla illustrazione di un ragionamento indiziario diverso e capace di superare l’obiezione
difensiva.
Invero non avrebbe potuto essere decisivo il rilievo secondo cui i collaboratori avevano descritto un
comportamento associativo dell’indagato riferibile, al massimo, agli anni 90, una volta che non sia dedotto
dalla difesa altresì che, dalle stesse dichiarazioni, fossero ricavabili elementi certi di recisione di quel vincolo
nell’epoca successiva e una volta che il Tribunale ha fatto ricorso alla considerazione logica- come detto
condivisa dall’intera giurisprudenza di legittimità- secondo cui l’appartenenza di un soggetto ad
un’associazione di stampo mafioso, può ritenersi obiettivamente conclusa non già in mancanza di prove del
contrario ma soltanto sulla base di elementi concreti e positivamente accertati di un recesso attivo o di una
obiettiva impossibilità di prosecuzione della partecipazione.
Essendo tale requisito imprescindibile e pregiudiziale per l’esame ulteriore della questione posta dalla
difesa, il rilievo della assenza di un vizio della motivazione del Tribunale riguardo all’elemento stesso,
comporta la irrilevanza delle ulteriori questioni e il rigetto del ricorso.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Manda la cancelleria
per le comunicazioni di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p.

.1.41.

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