Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3379 del 05/11/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3379 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: SAVINO MARIAPIA GAETANA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
CORTI ROBERTO N. IL 28/01/1952
avverso la sentenza n. 915/2012 CORTE APPELLO di MILANO, del
23/04/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 05/11/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIAPIA GAETANA SAVINO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. – -trztA, ec2.3—sLe.25.9—
che ha concluso per
\ C.42;.-•=1,0

e

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.
O

(1, s (-2.

,‘

Data Udienza: 05/11/2014

Ritenuto in fatto

Con sentenza emessa in data 13 maggio 2011 il Tribunale di Varese dichiarava Corti Roberto
responsabile dei reati di cui agli artt. 137 co. 1 in relazione all’art. 124 D.Lgs. 152/2006 perché in
qualità di amministratore unico dell’omonima società Corti Roberto srl esercente l’attività di
lavorazione di marmi con opificio sito in Cuveglio via Acquette n. 15 effettuava recapito in

marmo, peraltro senza che fossero trattate o filtrate, senza la prescritta autorizzazione (Capo A); di
cui all’art. 256 in relazione all’art. 192 D.Lgs. 152/2006 perché nella qualità e con le modalità sopra
descritte recapitava in acque sotterranee i rifiuti non pericolosi della lavorazione del marmo ed,
inoltre, all’interno dei mappali nn. 673, 718, 879, 1935 e 1941 di sua proprietà abbandonava alla
rinfusa ed in modo incontrollato rifiuti della lavorazione del marmo, bancali in legno, pietre, pezzi
di ferro, plastica ed altri rifiuti similari (Capo B). Condannava lo stesso alla pena di mesi tre di
arresto in relazione al reato di cui al capo A ed altrettanti mesi tre di arresto per il reato di cui al
capo B oltre al pagamento delle spese processuali.
Il giudice di prime riteneva provata la responsabilità dell’imputato con riguardo ai reati allo stesso
ascritti sulla base delle risultanze processuali e soprattutto sulla base di due sopralluoghi effettuati
rispettivamente dall’ARPA e dall’Ufficio tecnico del Comune di Cuveglio di Varese presso la ditta
dello stesso. In particolare durante il primo sopralluogo, in data 8 aprile 2008, si accertava che le
acque reflue provenienti dalla lavorazione del marmo unitamente a quelle domestiche venivano
riversate nella fognatura comunale senza alcun preventivo trattamento; che nel cortile antistante la
ditta si trovava un impianto di decantazione non funzionante poiché non collegato al ciclo aziendale
né allacciato alle utenze elettriche ed idrauliche; che sui terreni antistanti l’azienda erano depositate
ingenti quantità di marmi e di rifiuti non pericolosi derivanti dalle lavorazioni aziendali quali pezzi
di marmo, materiali lapidei ed altri scarti di lavorazione mentre i rifiuti inerti e le polveri di marmo
invece di essere smaltiti a norma di legge venivano impiegati come materiale di riempimento e
livellamento di limitrofe aeree boschive, alcune delle quali, peraltro, neppure di proprietà del Corti;
che il registro carico-scarico, regolarmente vidimato, era del tutto in bianco. A ciò si aggiunga che
l’odierno imputato, presente al momento del sopralluogo, non aveva presentato copia
dell’autorizzazione allo scarico delle suddette acque.
Durante il secondo sopralluogo in data 30 aprile 2008, invece, si accertava che nell’area di
pertinenza dell’edificio adibito alla lavorazione dei marmi era presente un macchinario per il taglio
di blocchi di pietra senza dispositivi per la raccolta delle acque del processo che venivano recapitate
in una vasca di raccolta e deposito dei fanghi allacciata alla fognatura comunale; che sui terreni

fognatura di acque reflue derivanti dal processo di lavorazione contenenti residui polverosi del

antistanti la ditta, alcuni di proprietà di terzi, continuavano ad essere presenti lastre e blocchi di
pietra e di marmo unitamente a scarti dell’attività di lavorazione del marmo ed a residui di attività
edilizia come, tara l’altro, dei sanitari; che non sussisteva, agli atti del Comune di Cuveglio, alcuna
richiesta o autorizzazione al recapito degli scarichi della ditta nella fognatura comunale, essendo
stato rilasciato un mero nulla osta all’esercizio dell’attività produttiva.
Proposto Appello, la Corte di Appello di Milano, con sentenza emessa in data 23 aprile 2013, in
parziale riforma della pronuncia di primo grado rideterminava la pena inflitta all’imputato in mesi

al capo B, concedeva al Corti la sospensione condizionale della pena e disponeva la correzione
dell’errore materiale relativo alla data di nascita dell’imputato. Confermava nel resto l’impugnata
sentenza.
Avverso tale pronuncia il difensore dell’imputato ha interposto ricorso per cassazione per i seguenti
motivi:
1) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli arti. 42 c.p. e 533 c.p.p. in ordine al
reato di cui al capo A) dell’imputazione. In sostanza la difesa lamenta la violazione della regola
dell’al di la di ogni ragionevole dubbio nella misura in cui la Corte di Appello, confermando sotto
tale profilo, la pronuncia del giudice di prime cure, ha dichiarato la penale responsabilità
dell’imputato in assenza dell’effettiva prova dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 137 co.
1 D.Lgs. 152/2006.
Nota, infatti, la difesa che la Corte territoriale ha ritenuto le risultanze processuali sufficienti a
dimostrare l’intervenuto recapito nelle fognature comunali da parte dell’imputato di acque reflue
derivanti dal processo di lavorazione in assenza del provvedimento di autorizzazione richiesto dalla
legge e quindi del reato di cui all’art. 137 co. 1 D.Lgs. 152/2006 sebbene non fosse stata raggiunta
prova alcuna della elemento soggettivo della contravvenzione in esame ma, addirittura, fosse
emersa la buona fede soggettiva del Corti.
Sul punto la difesa richiama la sentenza costituzionale n. 364/1998 in tema di ignoranza legis
inevitabile in ossequio alla quale in materia di contravvenzioni, qualora sussista una peculiare
complessità del dato normativo di riferimento (come nel caso di specie) circa il cd. danno
ambientale, l’errore dell’agente in buona fede è scusabile.
Orbene precisa il difensore che l’imputato era in possesso di regolare nulla osta allo svolgimento
dell’attività di lavorazione lapidee rilasciato dal Comune di Cuveglio in data antecedente
l’accertamento effettuato e che tale autorizzazione prevedeva che gli scarichi delle acque reflue
provenienti dalla suddetta lavorazione e lo smaltimento dei relativi rifiuti fossero effettuati nel
rispetto dei limiti previsti dal regolamento adottato dall’ente gestore. Ne consegue l’esclusione del
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due di arresto in relazione al reato di cui al capo A e mesi due di arresto in relazione al reato di cui

difetto autorizzatorio contestato durante il primo sopralluogo. Peraltro, continua la difesa,
l’imputato aveva ricevuto dei pareri favorevoli per l’esercizio dell’attività in questione emessi in
data 27 gennaio 2006 dal Servizio di igiene e sanità pubblica della ASL di Varese ed in data 18
aprile 2006 dall’ARPA. Negli stessi, come risulta agli atti, si stabiliva che “gli scarichi in fognatura
comunale dovranno avvenire nel rispetto dei limiti previsti dal vigente regolamento dell’ente
gestore”.
Infine, conclude la difesa, anche ove la predetta autorizzazione all’esercizio dell’attività ed al

oggettivamente in errore il fatto che l’ulteriore istanza, volta a conseguire il perfezionamento
dell’autorizzazione già rilasciata, avanzata in data 4 settembre 2008 (dopo il primo sopralluogo
dell’ARPA) sia rimasta senza alcun seguito o riscontro da parte del Comune di Cuveglio (VA)
nonostante il chiaro tenore del diritto positivo di riferimento secondo cui l’ente di riferimento deve
provvedere entro 90 giorni dalla ricezione della relativa domanda ex art. 124 D.Lgs. 152/2006.
Dunque, secondo la difesa, emerge chiaramente la buona fede del Corti suffragata dall’induzione in
errore o comunque dall’affidamento ingenerato dalla PA: di conseguenza anche volendo
riconoscere la sussistenza dello stesso fatto di reato per assenza di autorizzazione si deve comunque
escludere l’imputabilità soggettiva dello stesso in capo all’agente. Invero, quindi, il reato di cui al
capo A non può ritenersi accertato in tutti i suoi elementi costitutivi secondo lo standard previsto
dall’art. 533 c.p.p.; cioè al di la di ogni ragionevole dubbio.
2) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 42 c.p. e 533 c.p.p. in ordine al
reato di cui al capo B) dell’imputazione. In particolare la difesa ravvisa una contraddittorietà nella
motivazione della Corte di Appello che prima rettifica le conclusioni del giudice di prime cure
quanto alla natura dei materiali rinvenuti nei fondi limitrofi al capannone adibito alla lavorazione
dei marmi qualificandoli non quali rifiuti ma come “lastre di marmo”, “scarti di lavorazione” e
quindi sempre in termini di materiale potenzialmente riutilizzabile dall’impresa del Corti e poi
ravvisa ugualmente la responsabilità dello stesso in relazione al reato di deposito incontrollato ed
abbandono di rifiuti a lui contestato al capo B. Ne consegue la violazione della norma incriminatrice
predetta che punisce, appunto, l’abbandono di materiali rientranti nel concetto di “rifiuto” e non lo
spargimento, la diffusione o la disseminazione di qualsivoglia materiale derivante da propri processi
di produzione e/o lavorazione.
3) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 133 e 69 c.p. per omessa e/o
inesatta applicazione dei criteri legali inerenti il trattamento sanzionatorio.
4) Violazione di legge in relazione all’art. 157 c.p. per intervenuta prescrizione delle
contravvenzioni contestate.
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recapito in fognatura dovesse considerarsi non conforme ai requisiti previsti dalla legge “induce

Ritenuto in diritto

Il primo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato in quanto l’impugnata sentenza spiega
in maniera del tutto logica e non contraddittoria che la ditta del Corti scaricava nella fognatura
comunale, cui era allacciata, insieme con le acque domestiche anche le acque reflue industriali
senza alcun preventivo trattamento, visto che al momento del sopralluogo l’impianto di

della teste Borlandelli che aveva effettuato il primo sopralluogo).
In tale situazione, continua la Corte di Appello, è chiaro che la ditta in questione non potesse avere
alcuna autorizzazione allo scarico delle acque in fognatura e che non si poteva ritenere equiparabile
alla specifica autorizzazione imposta dalla legge quella relativa all’esercizio dell’attività di
lavorazione dei marmi rilasciata alla Corti s.r.l. in data 12 settembre 2006 né si poteva ritenere
l’imputato comunque legittimato ad effettuare gli scarichi in fognatura, come rilevato dalla teste
Borlandelli, la frase “gli scarichi in fognatura comunale dovranno avvenire nel rispetto dei limiti
previsti dal vigente regolamento dell’ente gestore” non significa che l’impresa è automaticamente
autorizzata ad effettuare gli scarichi ma soltanto che la stessa, una volta ottenuta l’autorizzazione
agli scarichi, comunque dovrà effettuarli nel rispetto dei limiti di legge.
Al pari infondato risulta anche il secondo motivo di ricorso relativo all’abbandono incontrollato di
rifiuti. Contrariamente a quanto afferma la difesa, infatti, la Corte di appello non disconosce la
presenza nei terreni antistanti la zona di lavorazione di materiale qualificabile come rifiuto ma
precisa solo che accanto a materiali propriamente rientranti in tale concetto vi erano anche materie
prime o comunque riutilizzabili nell’attività svolta dalla ditta Corti. Si legge infatti nell’impugnata
sentenza che, in base alla deposizione della teste Borlandelli, il materiale rinvenuto era in parte
costituito da lastre depositate che non costituiscono rifiuti ma depositi ed in altra parte costituito da

“scarti di polveri, scarti della lavorazione aziendale, rifiuti inerti della lavorazione aziendale e
polveri di marmo delle pulizie delle vasche” – alcuni dei quali, peraltro, schiacciati e livellati a
conferma della loro presenza risalente nel tempo – di certo non qualificabili come materia prima o
materiali comunque riutilizzabili dall’azienda.
Infondato risulta infine anche il terzo motivo relativo al trattamento sanzionatorio. Come è noto,
infatti, la determinazione della pena come pure l’applicazione delle attenuanti generiche incidendo
su aspetti di merito sono sottratti al sindacato di questa Corte, qualora, come nel caso di specie, non
siano frutto di valutazioni arbitrarie.

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decantazione era presente ma non attivo perché non collettato (così come risulta dalla deposizione

Quanto alla intervenuta prescrizione, oggetto del quarto ed ultimo motivo, si precisa che per
entrambi i reati la stessa è intervenuta successivamente alla pronuncia di secondo grado
(rispettivamente in data 2 agosto 2014 e 2 agosto 2013). Dunque, stante la manifesta infondatezza
dei precedenti motivi, l’inammissibilità del ricorso che ne consegue prevale sulla intervenuta
prescrizione
P.Q.M.

alla somma di euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, in data 5 novembre 2014.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre

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