Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33782 del 24/04/2014


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 33782 Anno 2014
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: BONI MONICA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SANTAGATA FRANCESCO N. IL 28/09/1966
avverso la sentenza n. 1/2013 CORTE MILITARE APPELLO di
ROMA, del 13/03/2013
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 24/04/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MONICA BONI
Udito il Procuratore Gqnerale in persona del Dott.
31 ~AZ .03-Vi-u-v,
che ha concluso per Ap Ai
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Udito, per la pa te civile, l’Avv
Uditi difensor
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Data Udienza: 24/04/2014

Ritenuto in fatto

1.Con sentenza resa il 13 marzo 2013 la Corte di Appello militare confermava
la pronuncia in data 25 luglio 2012, con la quale il Tribunale militare di Verona
aveva dichiarato l’imputato Francesco Santangata responsabile del reato

continuata” (artt. 81 cpv. cod. pen., 47 n. 2 e 189 co. 1 e 2 c.p.m.p.), ascrittogli in
quanto, maresciallo capo dei Carabinieri in servizio presso la Stazione di
Carabinieri Barriera di Casale, il 27 settembre 2010 in Torino, per cause non
estranee al servizio e alla disciplina, con più frasi pronunciate in esecuzione di un
medesimo disegno criminoso, minacciava un ingiusto danno al maresciallo Filippo
Cardillo, comandante della stazione Carabinieri di Torino San Salvarlo e ne
offendeva il prestigio, l’onore e la dignità, rivolgendogli epiteti volgari e lesivi, e,
concesse le attenuanti generiche, dichiarate prevalenti sulle contestate aggravanti,
lo aveva condannato alla pena di mesi quattro e giorni quindici di reclusione
militare, oltre al pagamento delle spese processuali e alle altre conseguenze di
legge, concedendogli i doppi benefici di legge.
1.1 Le sentenze di merito fondavano la decisione sulle dichiarazioni, ritenute
attendibili, rese dalla parte lesa, m.11o Filippo Cardillo, secondo il quale il 27
settembre 2010 mentre si era trovato a bordo di autovettura di servizio in
uniforme era stato affiancato da una motocicletta, il cui conducente, per aver
sollevato la visiera del casco protettivo, aveva riconosciuto nel Santagata, che gli
aveva rivolto offese e minacce di ritorsioni, riguardanti anche il capitano Carubia.
1.2 Elementi di riscontro alla narrazione del Cardillo, -di cui nemmeno la
difesa aveva contestato la falsità, sostenendo piuttosto l’erronea individuazione
dell’autore delle offese e delle minacce nella persona dell’imputato-, erano stati
individuati nei risultati delle celle agganciate dai telefoni cellulari del predetto e
dell’imputato, indicativi in termini di probabilità della presenza della sua utenza al
momento del fatto in prossimità della zona di incontro col superiore e nella
documentazione inerente il rapporto redatto dal m.11o Cardillo e la nota di richiamo
del cap. Carubia e quella riguardante le note caratteristiche, ritenuta indicativa del
movente dell’azione, nonché nella falsità dell’alibi sulla sua presenza al momento
del fatto in Moncalieri, circostanza smentita dalla stessa consulenza tecnica della
difesa.
2.Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato a
mezzo del suo difensore, il quale ha lamentato con unico motivo la
contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione. Secondo il ricorrente, l a

I

continuato ascrittogli di “insubordinazione con minaccia ed ingiuria aggravata

decisione impugnata si era basata sulle stesse argomentazioni svolte dal Tribunale
Militare di Verona in primo grado, cui aveva aggiunto soltanto considerazioni di
stile ed arbitrarie; in particolare, il giudizio di colpevolezza si era fondato sulla sola
deposizione dibattimentale della parte offesa, contrastante, con le dichiarazioni
dell’imputato, con le deposizioni degli altri testimoni e con gli esiti degli

scontata la “falsità” dell’alibi dell’imputato sulla

presenza in luogo incompatibile

con l’incontro col Cardillo sulla scorta delle mere risultanze delle celle telefoniche
senza però considerare altre eventualità, ossia:
– l’erronea indicazione della data dell’incontro a Moncalieri da parte dei testi Tripedi
e Corrado, con la conseguente trasformazione del preteso “alibi falso” in “alibi
fallito” ed in questo caso con la sua efficacia probatoria neutra;
– il materiale possesso dei telefoni cellulari in capo ad altri soggetti diversi dal
Tripedi, dal Corrado o dallo stesso ricorrente, il che attribuirebbe efficacia
probatoria scagionante all’alibi.
Inoltre, non rispondeva al vero che, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte
di Appello, la mera produzione della consulenza tecnica di parte sulle celle
telefoniche avesse il significato di ammissione del possesso da parte dell’imputato
e dei testi delle utenze telefoniche loro intestate, perché era stata effettuata al fine
di dimostrare che: o l’esame delle celle era inattendibile e, pertanto, esso non
poteva essere usato ai fini della sentenza e la decisione doveva fondarsi soltanto
sulle risultanze delle dichiarazioni testimoniali; oppure l’esame delle celle doveva
essere considerato un dato non sconfessabile e allora esso contrastava, oltre che
l’alibi della difesa, anche la stessa ricostruzione dell’accusa e della persona offesa.
La sentenza impugnata era affetta da manifesta erroneità laddove aveva
ritenuto che le celle avessero fedelmente riportato le posizioni delle utenze mobili
dell’imputato e del Cardillo e dimostrato la falsità dell’alibi del primo, mentre dallo
studio dei relativi dati poteva soltanto inferirsi che essi non si erano trovati
assieme nel giorno e nell’ora di verificazione dei fatti di reato, in quanto le loro
utenze non avevano mai agganciato la stessa cella ed erano rimaste a distanza
notevole l’una dall’altra.
Inoltre, pur avendo affermato che le informazioni acquisite al riguardo erano
riferite ai soli momenti in cui era in corso una conversazione, circostanza non
ricorrente quando si erano verificati i fatti, per cui vi era l’elevata probabilità della
compresenza di entrambi gli utilizzatori delle utenze sul luogo ed al momento dei
fatti stessi, i giudici di appello non avevano motivato sulle ragioni per le quali
nell’orario del preteso incontro o comunque in prossimità dello stesso non fossero

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accertamenti effettuati sulle celle telefoniche. La Corte d’Appello aveva dato per

stati in atto una chiamata, un tentativo di chiamata o un qualsiasi altro evento a
livello di telecomunicazione.
Parimenti erronea era la valutazione della rilevanza probatoria dell’alibi falso,
che, stante la riconosciuta facoltà all’imputato di difendersi, mentendo, può
acquisire rilievo solo ove la sua allegazione non trovi giustificazione in un’errata

Considerato in diritto

li ricorso è inammissibile.
1.L’unico motivo proposto dal ricorrente contesta la tenuta logica della
motivazione della sentenza impugnata per avere confermato il verdetto

di

responsabilità a suo carico.
1.1Censura in primo luogo il giudizio di attendibilità espresso con riferimento
al riconoscimento personale, operato dalla parte lesa, m.11o Filippo Cardillo, che ha
riferito di avere individuato con certezza l’individuo che si era accostato alla
vettura di servizio dallo stesso condotta a bordo di una motocicletta e, alzatosi la
visiera del casco protettivo, gli aveva rivolto le espressioni minacciose ed offensive
riportate nell’imputazione. Come correttamente rilevato dalla Corte militare, le
contestazioni difensive non sono dirette a negare la verificazione dell’episodio, in
quanto oggetto di pura invenzione, oppure di una denuncia calunniosa, quanto la
sua riconducibilità alla persona dell’imputato.
Ad avvalorare tale assunto il ricorso richiama dunque i punti specifici di
denunciata incoerenza ed inattendibilità intrinseca della deposizione della parte
lesa, critica la ritenuta loro inidoneità a minare il fondamento del giudizio di reità e
sostiene essere tale testimonianza in contrasto con le dichiarazioni dei testi della
difesa e con i dati ricavati dai tabulati dei traffico telefonico riferiti alle celle di
aggancio dei telefoni cellulari in uso al Cardillo, ad esso ricorrente ed ai testimoni
esaminati nel corso del primo grado del processo.
1.2 Sotto il primo profilo il ricorso si rivela carente nell’illustrazione delle
specifiche ragioni di critica e svincolato dal percorso argomentativo posto a
giustificazione della decisione impugnata, che ha preso in esame in modo attento
ed analitico le singole doglianze, contenute nell’atto di appello, osservando con
motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, che:
-il riconoscimento delle fattezze dell’imputato era stato effettuato dal Cardillo non
immediatamente, ma soltanto quando il motociclista affiancatosi aveva sollevato la
visiera del casco, consentendogli la visuale del suo volto;

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strategia processuale dell’imputato, ma sia frutto di preordinazione

- la presenza di occhiali da sole non gli aveva impedito di riconoscere l’imputato che
già conosceva bene, avendo prestato servizio per mesi presso la caserma di cui era
comandante;
– non era stato dimostrato che l’imputato disponesse esclusivamente di un casco
integrale non dotato di visiera mobile e comunque lo stesso avrebbe potuto

– l’assenza di ricordi sull’abbigliamento e sulla marca del motociclo, nonché la
mancata annotazione della targa del veicolo non assumevano rilievo, dal momento
che il riconoscimento era avvenuto direttamente mediante la visione del volto

dell’interlocutore e non già mediante un processo ricostruttivo, consentito dal suo
vestiario o dal mezzo condotto;
-il colore della motocicletta era stato descritto come chiaro, mentre alcun elemento
dimostrava che l’imputato avesse in uso un mezzo di colore scuro ed in ogni caso
egli avrebbe potuto far uso di un veicolo altrui;
-erano irrilevanti le circostanze attinenti alla prestazione o meno del servizio di
pattuglia da parte del Cardilio, alla disponibilità di tempo per annotare la targa del
veicolo, al suo mancato fermo ed all’omessa segnalazione del fatto alla centrale
operativa in quanto, anche qualora la persona offesa fosse incorsa in negligenza o
fosse venuta meno ai propri doveri, ciò non privava il riconoscimento effettuato di
attendibilità, ma anzi l’ammissione di aver tenuto un comportamento suscettibile di
rimprovero ne rafforzava la genuinità, mentre la ricerca di ulteriori riscontri era
resa superflua dalla certezza dell’individuazione personale.
1.2.1 Ebbene, nessuna di tali osservazioni è stata oggetto di replica e di
confutazione con il ricorso, le cui ragioni di critica si esauriscono nel riprodurre i
motivi di appello e nel dolersi del loro mancato accoglimento senza nulla
aggiungere per smentire la pertinenza e la significativa concludenza dei rilievi
condotti dai giudici di appello.
1.2.2 Inoltre, il ricorrente non affronta il tema del movente dell’azione
criminosa, che i giudici di merito hanno individuato nel rancore e nei propositi
ritorsivi, maturati dall’imputato nei confronti del Cardillo e del capitaftvoCarubia,
significativamente accomunati quali destinatari delle espressioni di disprezzo e
nella prospettazione di future iniziative vendicative, perché autori di atti di
richiamo al rispetto dei doveri d’istituto, indirizzati all’imputato pochi giorni prima
dei fatti e di note caratteristiche negative a suo carico, eventi che sono stati
ritenuti tali da rendere plausibili iniziative antigiuridiche quali quelle denunciate dal
Cardillo, manifestazione di risentimento e desiderio di rivalsa. Sul punto la difesa
nulla oppone, non esamina la documentazione acquisita e non replica nemmeno
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utilizzare in quel frangente un casco altrui;

per contrastare in alcun modo la funzione di conferma che essa offre al portato
conoscitivo offerto dalla deposizione del m.11o Cardillo.
2. Il ricorrente deduce piuttosto il contrasto con quanto affermato dai testi a
discarico, affidando la censura a rilievi sull’utilizzo probatorio dei dati relativi alle
celle di aggancio dei cellulari per dimostrare che l’alibi prospettato non era falso,

ossia che i testi a discarico abbiano errato nel collocare l’incontro a Moncalieri con
l’imputato il giorno del preteso incontro col Cardillo e che altri abbiano avuto il
possesso materiale dei telefoni cellulari in uso ai predetti testi ed all’imputato, il
che priverebbe i dati relativi alle celle dagli stessi agganciate di valenza idonea a
dimostrare la falsità dell’alibi, ossia che quel giorno essi non si erano trovati affatto
a Moncalieri, ma non si erano mossi da Torino.
2.1 Va però rilevato che la deduzione di tali evenienze come eventuali e non
certe già in sé destituisce di fondamento le relative argomentazioni, dal momento
che le mere congetture, seppur plausibili in astratto, devono essere confrontate
con le informazioni probatorie acquisite nel processo. Nel caso specifico, secondo
quanto riportato testualmente nella sentenza di primo grado, la cui motivazione è
stata richiamata integralmente in quella di appello, -che va esaminata come un
unico corpo argomentativo ai fini del sindacato di legittimità sulla logicità della
motivazione-, i testi a discarico hanno riferito con precisione la data del pranzo a
Moncalieri a casa del Corrado come avvenuto la domenica 27 settembre 2010 in
ragione del fatto che il giorno seguente l’imputato avrebbe compiuto gli anni, per
cui essi avevano inteso festeggiare l’evento con quella riunione che avrebbe dato
modo ai partecipanti anche di vedere un’autovettura americana d’epoca appena
restaurata. Ebbene, proprio il riferimento alla ricorrenza ed al motivo della riunione
conviviale quali elementi che avevano consentito di focalizzare il ricordo su
quell’incontro induce ad escludere la possibilità di un errore involontario, nel quale
sarebbero incorsi entrambi i testi, ma anche l’imputato che li aveva indicati perché
riferissero notizie capaci di avvalorare la tesi difensiva del riconoscimento non
veritiero operato dalla parte lesa, stante la sua fisica assenza da Torino quel
pomeriggio.
2.2 Quanto poi all’altra obiezione circa il possesso materiale dei telefoni
cellulari, la difesa asserisce in primo luogo che la produzione della relazione del
proprio consulente tecnico non costituiva in sé ammissione dell’effettivo utilizzo
delle utenze da parte del ricorrente e degli altri soggetti, sottoposti a
monitoraggio. E’ agevole replicare che, per quanto attiene al Santagata, l’indagine
aveva riguardato il telefono cellulare assegnatogli dall’ufficio per ragioni di servizio

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ma al più non riscontrato. Prospetta dunque come possibili due ipotesi alternative,

e già la sentenza di primo grado aveva riportato anche l’acquisizione della notizia
circa i contatti intercorsi quel giorno con altre utenze di soggetti a lui riconducibili,
il che fonda la ragionevole considerazione che l’unico soggetto abilitato e ad
averne avuto di fatto la disponibilità fosse l’imputato stesso, il quale peraltro non
ha mai dedotto di avere lasciato l’apparecchio a casa senza averlo condotto con sé

in uso a terzi. Per quanto attiene alle utenze nel possesso dei testi, il ricorso non
afferma e non dimostra che essi quel giorno fossero privi dei loro apparecchi e

quindi che lo studio delle celle di aggancio durante le comunicazioni con essi
effettuate sia irrilevante al fine di affermare la falsità delle loro dichiarazioni per la
loro documentata assenza da Moncalieri il giorno dei fatti sino alle ore 18.00. Non
contesta nemmeno che l’analisi del traffico relativo ai loro telefoni cellulari indichi
l’aggancio di celle sempre situate a Torino ed incorre in un equivoco interpretativo:
secondo quanto evidenziato nelle due conformi sentenze di merito, i dati offerti dai
tabulati telefonici sono stati valorizzati, non al fine di acquisire la prova della certa
presenza di imputato e persona offesa nello stesso luogo e nello stesso momento,
quanto della localizzazione del Santagata e del teste Tripedi in Torino per tutta la
giornata del 27 settembre, cosa che rendeva impossibile la loro permanenza a
Moncalieri, distante 16 km. da Torino e rendeva palesemente falso l’alibi offerto.
2.3 Del resto appare logica l’affermazione, leggibile nella sentenza
impugnata, secondo la quale, se la consulenza di parte non avesse riguardato le
celle agganciate dal telefono dell’imputato ed in suo possesso, non avrebbe avuto
alcuna utilità esplicativa e la sua produzione in giudizio sarebbe rimasta priva di
qualsiasi interesse processuale.
2.4 Sostiene poi la difesa che il convincimento, espresso dai giudici di
merito, circa la compresenza dell’imputato e del Cardillo sul luogo ed al momento
del fatto non sarebbe fondato su dati certi perché le informazioni fornite dalle celle
telefoniche indicavano tutt’altro, ossia la loro notevole distanza l’uno dall’altro
perché presenti in vie cittadine situate a diversi chilometri del tessuto urbano
torinese. Va replicato che tutte le obiezioni svolte in ricorso non tengono conto
che, anche secondo la stessa ricostruzione dei movimenti effettuati dall’imputato,
prospettata con l’impugnazione, resta fermo un dato di evidente significatività,
ossia la sua presenza in Torino in ora corrispondente grosso modo al fatto e non in
Moncalieri, così come era in Torino anche il teste Tripedi.
25 Pertanto, correttamente si è ritenuto da parte dei giudici di merito che il
suo alibi fosse privo di qualsiasi attendibilità, ossia falso, e non soltanto
indimostrato e che il suo fallimento dovesse essere considerato quale un elemento
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nel corso degli spostamenti effettuati quel 27 settembre, né di averlo consegnato

indiziario a suo carico. Sul punto, non è rintracciabile nel percorso argomentativo
della sentenza impugnata alcun errore di diritto, dal momento che si è affermato
nella giurisprudenza di legittimità che “Il fallimento della prova d’alibi costituisce
un indizio di reità che confluisce, unitamente a tutti gli altri, nella valutazione
globale e senza che occorra un più intenso livello di persuasività, essendo

seria ed univoca” (Cass. sez. 1, n. 46797 del 06/11/2012, Pandaj, rv. 254558;
sez. 1, n. 5631 del 17/01/2008, Maccioni e altri, rv. 238647; sez. 1, n. 17261 del
01/04/2008, Guede, rv. 239624; sez. 2, n. 5060 del 15/12/2005, Solimando ed
altri, n/. 233230; sez. 2, n. 11840 del 04/02/2004, Gallazzi e altro, rv. 228386).
A giustificazione di tale assunto si è sostenuto che l’alibi falso è sintomatico, a
differenza di quello non provato, del tentativo dell’imputato di sottrarsi
all’accertamento della verità, per cui va considerato come un indizio, inidoneo a
fondare da sè il giudizio di colpevolezza, ma segmento di un complesso quadro
dimostrativo concorrente con gli altri elementi acquisiti.
Non vale al ricorrente richiamare il diritto a mentire ed a difendersi nel modo
ritenuto più opportuno, né lamentare l’omessa considerazione delle ragioni del
mendacio, in quanto nel caso specifico non si è rappresentata alcuna
giustificazione che consenta di non imputare tale comportamento al tentativo di
impedire la verifica del reale accadimento dei fatti, il che è tanto più vero se si
considera che l’alibi è stato fornito nel corso del procedimento da soggetto non
privo di cognizioni legali.
Per le considerazioni esposte deve ritenersi che l’impugnazione sia
inammissibile perché manifestamente infondata in tutte le sue deduzioni, il che
comporta di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
e, in relazione ai profili di colpa insiti nella proposizione di siffatto ricorso, al
versamento della somma, che si reputa equo determinare in euro 1.000,00 alla
Cassa delle Ammende.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 24 a e rile 2014.

sufficiente che converga con gli altri a costituire un quadro di gravità indiziaria

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