Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33776 del 25/03/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 33776 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: ORILIA LORENZO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
LEMMA ANTONIO N. IL 01/08/1986
D’AGOSTINO ROCCO N. IL 08/07/1986
CUCINOTTA TIZIANA N. IL 29/08/1988
CALLA’ GIANCARLO N. IL 24/12/1985
FALLETTI DIEGO N. IL 21/08/1990
avverso la sentenza n. 767/2012 CORTE APPELLO di REGGIO
CALABRIA, del 20/12/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/03/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. LORENZO ORILIA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per
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Data Udienza: 25/03/2014

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Udito, per la parte civile, l’Avv
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Ck.c4Rim.

RITENUTO IN FATTO
1.

Con sentenza 20.12.2012 la Corte d’Appello di Reggio Calabria,

sull’impugnazione proposta dagli imputati in epigrafe indicati, per quanto ancora
interessa in questa sede:
– in parziale riforma della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato dal GUP
di Palmi ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Lemma Antonio in ordine
al reato di cui al capo A) per precedente giudicato e ne ha confermat ‘hronuncia di
colpevolezza in ordine ai reati di cui ai capi D (concorso in intermediazione continuata

per l’acquisto di stupefacenti), ed E (concorso in detenzione continuata a fini di spaccio
e cessione continuata); ha negato l’attenuante del fatto di lieve entità di cui all’art. 73
comma V del DPR n. 309/1990;
– ha confermato la condanna di D’Agostino Rocco alla pena di giustizia in ordine ai
reati di cui agli artt. 110, 81 cpv, e 73 commi 1 e 4 DPR n. 309/1990 (cessione di
stupefacente e detenzione a fini di spaccio di cui al capo E) e tentato furto aggravato di
una autovettura, reato, quest’ultimo, commesso in concorso con Cucinotta Tiziana di
cui pure ha confermato la colpevolezza (capo G);
– ha confermato la colpevolezza di Callà Giancarlo in ordine al reato di acquisto di
stupefacente con finalità di spacciokdi cui al capo E).
Accogliendo poi l’appello proposto dal Procuratore Generale, la Corte di Reggio
Calabria ha dichiarato la colpevolezza di FA/t:Diego – già assolto in primo grado per il reato di detenzione e porto illegale di una pistola (a lui ascritto al capo C).
2. Per l’annullamento della sentenza propongono separati ricorsi per cassazione il
Lemma e il Callà – tramite i rispettivi difensori – nonchè, personalmente, il D’Agostino,
la Cucinotta e il Falleti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. RICORSO DEL LEMMA
2.1 II Lemma propone due censure. Con un primo motivo denunzia la violazione
dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cpp in relazione agli artt. 73 DPR n. 309/1990 e 81
cp. Rimprovera alla Corte di merito di avere omesso di motivare sulla richiesta di
applicazione della continuazione tra i fatti di cui al capo A (attività di spaccio di
stupefacenti tra Rosarno e Catanzaro dal dicembre 2009 al gennaio 2010) e i fatti della stessa indole – contestati ai capi D) ed E), essendosi limitata a recepire il ne bis
in idem per il capo A), nonostante vi fossero elementi significativi della continuazione

tra i reati (assenza di distanza temporale rilevante tra i fatti, commessi in un arco
temporale di sei mesi circa e omogeneità dei beni giuridici violati, trattandosi di
violazioni della stessa norma (l’art. 73 DPR n. 309/1990). Precisa che i crimini
commessi sono per natura e fine strettamente connessi e l’utilizzo di modalità
analoghe è legato ad una necessaria predeterminazione delle stesse; rileva inoltre che
la stessa Corte di merito, nel negare l’attenuante di cui al V comma, lo aveva definito

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uno stabile spacciatore, concetto che logicamente presuppone l’esistenza di un’unica
grande macrocondotta, essendo evidente che il concetto di stabilità coincide
concettualmente con la medesimezza del proposito criminoso e con una valutazione
complessiva della condotta.
Il motivo è infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, i motivi di appello costituiscono una
parte essenziale ed inscindibile della impugnazione e, pur nella riconosciuta libertà
della loro formulazione, debbono essere, ai sensi della lett. c) dell’art. 581 cod. proc.

pen., articolati in maniera specifica: devono cioè indicare chiaramente, a pena di
inammissibilità, le ragioni su cui si fonda la doglianza. In mancanza di ciò, viene meno
l’obbligo del giudice di fornire una risposta a tutte le questioni proposte, in quanto tale
obbligo trova un limite nella genericità della censura. Ne consegue che la denuncia di
difetto di motivazione della sentenza di appello, in ordine a motivi genericamente
formulati, non ha alcun fondamento, a nulla rilevando che il giudice di merito non
abbia in concreto rilevato tale vizio (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 4713 del 28/03/1996 Ud.
dep. 09/05/1996 Rv. 204548).
Nel caso in esame, il primo giudice (v. pag. 164 sentenza) aveva escluso la
continuazione col reato di cui al capo A considerando il diverso contesto, sotto il profilo
logistico e temporale, nonché la diversità dei soggetti coinvolti (evidenziando in
proposito che in un caso il Lemma agiva quale longa manus del Ceravolo, negli altri
spacciava in proprio).
Con l’atto di appello il Lemma si era limitato a definirsi un microspacciatore
osservando che le condotte poste in essere facessero parte di un medesimo disegno
criminoso, evidenziando l’irrilevanza del fatto (considerato dal primo giudice) che vi
fossero diversi soggetti coinvolti.
Come si vede, si era in presenza di una censura formulata del tutto
genericamente, che contrapponeva una propria diversa interpretazione della vicenda
data dal Tribunale. Sulla scorta del richiamato principio di diritto, la mancanza di una
specifica risposta dal parte della Corte d’Appello non incide, dunque, sulla completezza
della motivazione.
2.2 Con un secondo motivo il Lemma denunzia la violazione dell’art. 606 comma 1
lett. b) ed e) cpp in relazione all’art. 73 comma V DPR n. 309/1990 rilevando che il
parametro della stabilità della dedizione allo spaccio – utilizzato dalla Corte unitamente
al dato quantitativo per negare l’attenuante – non solo non è univoco (trattandosi al
più di tre episodi contenuti in uno strettissimo arco temporale), ma trascura il fatto che
la ripetitività dei comportamenti non entra a pieno titolo nella nozione di modalità del
fatto, che invece attiene alle circostanze del fatto ed alle caratteristiche della singola
azione di spaccio. Contesta altresì l’affermazione riguardante il quantitativo, a suo dire,
modico e semmai rilevatore di una attività di microspaccio ed osserva che la semplice
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ripetitività della condotta non è un parametro al quale attribuire forza qualificatrice
dell’esclusione dell’attenuante invocata.
Il motivo è infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di sostanze
stupefacenti, ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante del
fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice è
tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi normativamente indicati, quindi,
sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli

che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze
stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendo conseguentemente escludere
il riconoscimento dell’attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti ad
escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di ‘lieve entità (cfr. Sez. 4,
Sentenza n. 6732 del 22/12/2011 Ud. dep. 20/02/2012 Rv. 251942; Sez. U, Sentenza
n. 35737 del 24/06/2010 Ud. dep. 05/10/2010 Rv. 24791; Sez. 4, Sentenza n. 43399
del 12/11/2010 Ud. dep. 07/12/2010 Rv. 248947).
Nel caso che ci occupa, la Corte calabrese (v. pag. 20) ha negato l’attenuante
considerando innanzitutto il quantitativo di sostanza ceduta (67,68 grammi per la
cessione di cui al capo D e cocaina per 1.000 euro per la cessione di cui al capo E,
come si evince dai capi di imputazione e dal corpo della sentenza); ha considerato
inoltre il fatto che gli imputati Lemma e D’Agostino erano stabilmente dediti all’attività
di spaccio: ha in definitiva tenuto conto sia degli elementi concernenti l’oggetto
materiale del reato sia di quelli concernenti l’azione, attraverso una motivazione
certamente succinta, ma giuridicamente corretta oltre che priva di salti logici.
Pertanto, il sindacato non è consentito in questa sede, a meno di non interferire nel
potere di accertamento in fatto riservato al giudice di merito.
2. RICORSO DEL D’AGOSTINO
Il D’Agostino propone un lungo motivo contenente tre censure: violazione dell’art.
606 lett. b) ed e) cpp in relazione agli artt. 125 e 546 comma 1 lett. e) cpp ed in
relazione agli artt. 110, 81 cpv, 624 e 625 n. 2 e 7 cp, 73 commi 1 e 4 DPR n.
309/1990; violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) cpp in relazione all’erronea
interpretazione ed applicazione degli artt. 110, 81 cpv, 56, 624 e 625 nn. 2 e 7 cp, 73
commi 1 e 4 DPR n. 309/1990; violazione dell’art. 606 cpp in relazione agli artt. 62 bis
e 56 cp.
Osserva innanzitutto che la Corte di merito non ha preso in considerazione le
doglianze formulate nell’atto di appello e che in ogni caso, anche a voler prendere in
considerazione le circostanze riferite in sentenza, non è possibile evincere la rilevanza
penale delle sue condotte.
Esamina quindi il contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali
evidenziando l’assenza di elementi di colpevolezza a suo carico, ma solo la presenza di
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frasi volte a dissuadere l’interlocutore Lemma dal realizzare propositi criminosi e a
indirizzarlo verso una attività lavorativa. Rileva che la sentenza è priva di quei requisiti
relativi alla valutazione di tutte le circostanze indicate dall’art. 73 comma 1 bis lett. a)
DPR n. 309/1990. Riporta il contenuto di una conversazione col Lemma per dimostrare
il suo ruolo di mero ascoltatore confidente degli affari dell’interlocutore, come
dimostrato anche dall’uso della forma adoperata nei dialoghi, singolare e non plurale.
Rimprovera altresì ai giudici di merito di non avere dato peso alla confessione del
Lemma che lo scagionava completamente e di non avere spiegato quale fosse l’apporto

materiale da lui fornito nella condotta di cessione.
Esamina poi il contenuto della conversazione utilizzata ai fini della contestazione
del tentato furto dell’auto per ritenere dimostrata la desistenza volontaria ex art. 56
terzo comma cp. perché, a suo dire, l’attività criminosa era stata da lui interrotta per
una sua libera scelta dovuta alla complessità delle operazioni da compiere per avviare
il motore e non già per il passaggio in zona dei Carabinieri, come confusamente
ritenuto dai giudici di appello.
Si duole infine del trattamento sanzionatorio inflittogli dal primo giudice e
confermato dalla Corte d’Appello (sei anni di reclusione e C. 14.400 di multa) dolendosi
del diniego delle attenuanti generiche e rimprovera alla Corte una scarna motivazione
Il ricorso è infondato.
Essendo sostanzialmente dedotto un vizio motivazionale, è opportuno richiamare il
principio, costantemente affermato, secondo cui il controllo del giudice di legittimità sui
vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia
l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura
degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. cass.
sez. terza 19.3.2009 n. 12110; cass. 6.6.06 n. 23528). Ancora, la giurisprudenza ha
affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio
denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu
ocull,

dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di

macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano
logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo
logico e adeguato le ragioni del convincimento (cass. Sez. 3, Sentenza n. 35397 del
20/06/2007 Ud. dep. 24/09/2007; Cassazione Sezioni Unite n. 24/1999, 24.11.1999,
Spina, RV. 214794).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello (pagg. 18 e ss) ha motivato il giudizio di
responsabilità del D’Agostino (ritenendolo stretto collaboratore del Lemma) per la
cessione, in concorso col Lemma, dello stupefacente verosimilmente del tipo cocaina
del valore di 1.000 euro in favore di Callà Giancarlo in data 5.6.2010 e per la

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detenzione, in data 12.6.2010, sempre in concorso col Lemma, di 8/10 grammi di
stupefacente verosimilmente del tipo cocaina (capo E della rubrica) richiamando il
contenuto di molteplici intercettazioni anche ambientali e rilevando elementi precisi di
coinvolgimento del D’Agostino nella cessione (cfr. pagg. 19 e 20), come ad esempio
l’interessamento all’orario in cui sarebbe giunto il Callà e le istruzioni date al Lemma
sul da farsi in caso di arrivo del Callà in sua assenza.
Trattasi di accertamento di fatto, esplicitato attraverso un percorso logicamente
coerente e come tali insindacabile. In definitiva il ricorso, riproponendo i motivi di

gravame, tende in realtà ad una mera rivisitazione delle risultanze processuali, che nel
giudizio di legittimità è precluso.
Quanto al tentato furto dell’autovettura Lancia Y in Bagnara Calabra nella notte tra
il 25 e 26 maggio 2010 addebitato al capo G e posto in essere (mediante rottura del
vetro posteriore e forzatura del bloccasterzo e del motore), in concorso con la
fidanzata Cucinotta Tiziana (addetta al controllo della situazione circostante e invitata
a tenersi pronta per la fuga), la Corte d’Appello a pagg. 21 e ss della sentenza ha
esaminato il tema della desistenza volontaria introdotto dall’appellante, escludendola
attraverso un ragionamento logicamente coerente nonché aderente ai principi
giurisprudenziali secondo cui appunto, la desistenza dall’azione delittuosa può ritenersi
volontaria quando la determinazione del soggetto agente sia stata libera e non
coartata, ossia quando la prosecuzione dell’azione non sia impedita da fattori esterni
che ne renderebbero estremamente improbabile il compimento (cfr. Sez. 6, Sentenza
n. 203 del 20/12/2011 Ud. dep. 10/01/2012 Rv. 251571; Sez. 4, Sentenza n. 32145
del 24/06/2010 Ud. dep. 20/08/2010 Rv. 248183; Sez. 2, Sentenza n. 41484 del
29/09/2009 Cc. dep. 28/10/2009 Rv. 245233): ha valorizzato, sulla scorta di
conversazioni intercettate, sia le attività di manomissione del veicolo poste in essere
materialmente dal D’Agostino sia infine – come fattore esterno in grado di rendere
estremamente improbabile il compimento del furto – il passaggio in zona di una
pattuglia di Carabinieri: valgono quindi le considerazioni di cui sopra per dichiarare
anche questa censura manifestamente infondata perché tende in sostanza a riproporre
solamente una diversa valutazione delle risultanze processuali.
Stessa sorte merita la censura relativa al diniego delle attenuanti generiche.
Come già affermato da questa Corte, la concessione o il diniego delle attenuanti
generiche rientra nel potere discrezionale del giudice di merito il cui esercizio,
positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far
emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento
della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.
Anche il giudice di appello – pur non dovendo trascurare le argomentazioni
difensive dell’appellante – non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli
elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di

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ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti
e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e
superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (cfr. tra le varie, Sez. 3,
Sentenza n. 19639 del 27/01/2012 Ud. dep. 24/05/2012 Rv. 252900).
Nel caso in esame il diniego è stato motivato sia con riferimento ai precedenti
penali dell’imputato sia con riferimento alla spiccata propensione a delinquere emersa
dalle intercettazioni telefoniche riportate a pagg. 125 e ss e 145 e ss (cfr. pag. 24
sentenza impugnata): il percorso motivazionale è succinto, ma comunque sufficiente e

lineare, e come tale insindacabile in questa sede.
3. RICORSO DELLA CUCINOTTA
3.1 L’impugnazione dell’imputata si articola in due censure: con la prima di esse,
denunziando violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) cpp in relazione all’art. 530 cpp
e 56 comma 3 cpp, pone anch’essa la questione della desistenza volontaria in relazione
al concorso nel tentativo di furto dell’auto di cui al capo G, rimproverando alla Corte
d’Appello di avere erroneamente affermato che il proposito criminoso sia stato
abbandonato per il passaggio dei militari.
La censura è manifestamente infondata perché, come quella sollevata dal
D’Agostino, si risolve in un mera critica di natura “fattuale” contro le argomentazioni
della Corte calabrese che ha sufficientemente motivato sul ruolo collaborativo della
donna nel controllo della situazione circostante e nel tenersi pronta per la fuga (pag.
22) e pertanto, per evidenti ragioni di sintesi espositiva si richiamano le considerazioni
svolte nella trattazione del ricorso dell’altro imputato.
3.2 Con la seconda censura la Cucinotta denunzia la violazione dell’art. 606
comma 1 lett. d) e la motivazione carente e/o illogica in relazione all’art. 192 cpp
nonché all’art. 62 n. 4 e 163 cp, e ancora la violazione degli artt. 24,27 e 111 della
Costituzione. Addebita alla Corte di merito di avere omesso ogni approfondimento
istruttorio per verificare se sussisteva, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità
penale e rileva in proposito alcuni elementi a suo favore (come il lasso di tempo tra la
data del fatto e la denunzia di tentato furto), non correttamente valutati con
conseguente lesione del principio della responsabilità penale personale (art. 27 cost.)
e del diritto di difesa (artt. 24 e 111 della costituzione).
Di duole infine della mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cp
e della sospensione condizionale della pena, nonostante la modesta entità del danno,
la giovane età e l’incensuratezza.
Il motivo è infondato sotto tutti i profili.
Certamente lo è quanto all’accertamento di responsabilità, ed a tal fine è
sufficiente richiamare le considerazioni sopra svolte in ordine alla congruità del
percorso motivazionale seguito dalla Corte calabrese aggiungendosi che i giudici di

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merito hanno ritenuto i danni riscontrati sul veicolo pienamente compatibili con le
modalità del fatto come risultanti dal tenore delle conversazioni intercettate (pag. 24).
L’attenuante del danno di particolare tenuità è stata esclusa tenendo conto del
valore del bene da sottrarre (trattavasi di un’auto Lancia Y) e della condotta degli
imputati, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 2, Sentenza n.
21014 del 13/05/2010 Ud. dep. 04/06/2010 Rv. 247122).
Quanto alla censura relativa al diniego della sospensione condizionale della pena,
la Corte d’Appello ha motivato la sua decisione ritenendo di non poter formulare nei

confronti della stessa una prognosi favorevole in considerazione della condotta
complessiva tenuta dall’imputata.
Come già esposto, i giudici di merito avevano evidenziato, con riferimento
all’episodio del tentato furto, il ruolo collaborativo della donna nel controllo della
situazione circostante e nel tenersi pronta per la fuga: la motivazione, dunque, esiste e
dà conto sufficientemente degli elementi considerati per fondare la prognosi
sfavorevole ai fini della concessione del beneficio e, quindi, per neutralizzare il dato
dell’incensuratezza.
4. RICORSO DEL CALLA’
4.1 n Callà propone un primo motivo con cui denunzia la violazione dell’art. 606
comma 1 lett. e) in relazione all’art. 192 n. 2 cpp e all’art. 73 DPR n. 309/1990. Dopo
una premessa contenente riferimenti giurisprudenziali, il ricorrente rileva che la Corte
di merito si è discostata dai principi esposti, perché le modalità dell’azione non
consentivano di ritenere una detenzione finalizzata allo spaccio, considerato lo stato di
tossicodipendenza dell’imputato (da lui dichiarato al momento dell’ingresso in carcere),
il mancato rinvenimento, durante la perquisizione domiciliare, dei classici strumenti

,

degli spacciatori (bilancini, sostanze da taglio e involucri) ed infine la disponibilità
finanziaria (documentata), che giustificava l’acquisto per uso personale di sostanza del
valore di C. 1.000. A riprova dello stato di tossicodipendenza, ha richiamato le
intercettazioni telefoniche, da cui risulta che egli, all’atto del prelievo della sostanza,
l’aveva voluta dapprima “provare”. Insiste sulla scarsissima quantità dello stupefacente
ed evidenzia la mancanza di motivazione anche sotto il profilo del superamento dei
limiti tabellari di cui all’art. 73 comma 1 bis. Rileva infine l’assenza di contatti con terze
persone (possibili acquirenti) o dazioni di sostanza e l’irrilevanza, ai fini del
riconoscimento dell’uso personale, del fatto che egli si era rifornito altre volte.
Il motivo, che ripropone questioni già svolte con l’atto di appello, è
manifestamente infondato.
La Corte d’Appello (pag. 19) ha affermato la responsabilità del Callà in ordine al
reato di cui al capo E) a lui contestato (acquisto a fine di spaccio di stupefacente,
verosimilmente del tipo cocaina, del valore di 1.000 euro), sulla base di una
conversazione tra Lemma e D’agostino del 4.5.2010 (progr. 176) nel corso della quale

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Lemma riferiva di un precedente colloquio avuto con Callà che cercava urgentemente
la sostanza perché “c’è qualcuno che la vuole”

Trattasi di un accertamento in fatto

logicamente coerente e niente affatto incompatibile con lo stato di tossicodipendente,
su cui il Callà fonda la propria tesi difensiva.
4.2 Con un secondo motivo deduce la violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed
e) in relazione all’art. 73 comma V DPR n. 309/1990. Afferma che la Corte non si è
attenuta ai principi di diritto atteso che si trattava di pochissimi grammi di cocaina di
scarsissima qualità per come risulta dalle intercettazioni in atti, peraltro riportate in

sentenza.
La censura è infondata per le stesse ragioni esposte nella trattazione del secondo
motivo del ricorso Lemma a cui, per evidenti ragioni di sintesi, si rinvia.
4.3 Con un terzo ed ultimo motivo il Callà deduce la violazione dell’art. 606
comma 1 lett. e) in relazione agli artt. 62 bis e 133 cp. Afferma che in presenza della
giovanissima età e dell’incensuratezza non appariva sufficiente il richiamo alla
complessiva gravità del fatto, peraltro insussistente, trattandosi, come già esposto, di
pochissimi grammi di cocaina di scarsissima qualità. Ad avviso dell’imputato, se si
dovesse argomentare come fa la Corte d’Appello, le attenuanti generiche non si
dovrebbero mai concedere in alcun caso di reato in materia di stupefacenti. Richiama il
comportamento ampiamente collaborativo offerto.
La censura è infondata.
La Corte (v. pag. 21 della sentenza) ha effettuato, in ossequio alle nuove
prescrizioni codicistiche, una valutazione specifica sulla gravità del fatto (che
rappresenta uno degli indici di valutazione ex art. 133 c.p.) desumendola,
evidentemente, dal quantitativo di sostanza ritenuto non trascurabile (v. pag. 21
laddove ha operato l’aumento per la continuazione). Trattasi di tipici accertamenti in
fatto congruamente motivati e come tali insindacabili.
5. RICORSO DEL FALLETI
Il Falleti denunzia la violazione degli artt. 270 e 380 comma 2 lett. g) cpp con
riferimento agli artt. 81 e 110 cp, nonché 10,12 e 14 della legge n. 497/1974. Critica
in particolare la tesi della identità del procedimento, sostenuta dal Procuratore
Generale ricorrente e condivisa dalla Corte d’Appello per ritenere l’utilizzabilità delle
intercettazioni, e rileva in proposito che – contrariamente a quanto affermato in
sentenza – i risultati delle intercettazioni da cui è stata desunta la sua responsabilità
penale per il porto e la detenzione della pistola dovevano ritenersi inutilizzabili
trattandosi di intercettazioni disposte in un procedimento diverso (il cd. procedimento
“Migrantes”) senza che ricorressero le condizioni richieste dagli artt. 270 e 380 cpp
(trattandosi di reato di un’unica arma comune da sparo). Rileva inoltre che non vi è
alcuna attinenza tra il procedimento

“Migrantes” e quello che ci occupa e che i

riferimenti giurisprudenziali richiamati dalla Corte d’Appello non hanno rilievo in quanto

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non è dato rinvenire “alcuna indagine connessa o collegata sotto il profilo oggettivo,
probatorio e finalistico”.
Il ricorso è infondato.
Non è contestato, (risultando anzi sia dal ricorso che dalla sentenza impugnata),
che il procedimento nel quale è stata pronunciata l’assoluzione del Falleti (cioè quello
recante il n. 317/2010 Mod. 21 iscritto il 1.2.2010 e aggiornato col nome del Falleti il
15.10.2010) è nato per aggiornamento di quello n. 75/10 Mod. 44 nel quale si

resistenza, danneggiamento, detenzione e porto illegale dei armi nonchè violazione
della legge sull’immigrazione.
È giurisprudenza costante di questa Corte che il concetto di diverso procedimento
non equivale a diverso reato e in esso non rientrano le indagini strettamente collegate
e connesse sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato alla cui definizione
il mezzo di ricerca della prova è predisposto. Per cui la diversità assume un carattere
soltanto sostanziale e non collegabile al dato formale del numero di iscrizione nel
registro degli indagati, ne’ può equivalere a diverso reato. (Sez. 3, Sentenza n. 348 del
13/11/2007 Cc. dep. 08/01/2008 Rv. 238779; cfr. altresì Cass., 4 novembre 2004, n.
46075, Cass., 17 novembre 1999, n. 14595, Cass., 14 aprile 1998, n. 1208; cfr. più di
recente, tra le varie, Sez. 6, Sentenza n. 46244 del 15/11/2012 Ud. dep. 27/11/2012
Rv. 254285). Si è affermato inoltre che in tema di intercettazioni di conversazioni, ai
fini del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, comma primo, cod. proc. pen., il
concetto di “diverso procedimento” va collegato al dato della alterità o non uguaglianza
del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notizia di reato che deriva
da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro,
differente, anche se connesso, procedimento (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 49930 del
11/12/2012 Ud. dep. 28/12/2012 Rv. 253916).
. Ora, dalla lettura della sentenza impugnata risulta che tra il procedimento nel
quale sono state disposte le intercettazioni (recante il n. 75/2010 Mod. 44) e quello nel
quale esse sono state utilizzate (procedimento che ha poi portato alla condanna in
appello del Falleti) sussiste stretta connessione di indagini sotto il profilo oggettivo,
probatorio e finalistico perché entrambi riguardano anche il “porto e la detenzione di
armi” (risultando i fatti commessi in un unico contesto, la cui prova deriva dalla stessa
fonte): di conseguenza, non merita nessuna censura la sentenza della Corte d’Appello
laddove ha ritenuto utilizzabili i risultanti delle intercettazioni, trattandosi di
“medesimo processo”.
Consegue il rigetto del ricorso.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 25.3.2014.

procedeva, a carico di ignoti, per reati concernenti l’associazione a delinquere,

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