Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 3376 del 23/10/2014


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 3376 Anno 2015
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: ANDRONIO ALESSANDRO MARIA

SENTENZA
sul ricorso proposto da
Di Buduo Simona, nata il 4 maggio 1975
Di Buduo Carlo, nato il 4 novembre 1952
Turci Ivana, nata il 16 luglio 1955
avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze del 12 aprile 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale Enrico
Delehaye, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.

Data Udienza: 23/10/2014

RITENUTO IN FATTO
1.

– Con sentenza del 12 aprile 2013, la Corte d’appello di Firenze ha

confermato la sentenza del Tribunale di Grosseto del 22 settembre 2011, resa a
seguito di giudizio abbreviato, con la quale gli imputati erano stati condannati: tutti
per il reato continuato di acquisto, trasporto, cessione, messa in vendita di sostanze
stupefacenti di vari tipi, tra cui cocaina ed eroina; i soli Di Buduo Simona e Di Buduo
Carlo, in concorso con altri, per l’estorsione ai danni di tale Nelli; la solo Di Buduo

L’accertamento della responsabilità penale si è basato su indagini svolte dalla
Guardia di Finanza, dalle quali era emerso che gli imputati collaboravano alla vendita
al minuto di sostanze stupefacenti, di cui si rifornivano in località diverse, ma
soprattutto nella zona di Napoli. Dalle informazioni raccolte si era desunto che vi
erano debiti di alcuni acquirenti nei confronti degli imputati e che, in relazione a tali
debiti, questi avevano posto in essere gli episodi di estorsione di cui all’imputazione.
Le dichiarazioni rese dai testimoni in sede di indagini preliminari sono ritenute
confermate dalle conversazioni telefoniche intercettate.
2. – Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto, tramite il difensore e con
unico atto, ricorso per cassazione.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si contesta la motivazione della
sentenza circa valenza probatoria delle conversazioni telefoniche intercettate il 16
febbraio 2010 il 25 gennaio 2010. Lamentano i ricorrenti che la Corte d’appello si
sarebbe limitata a seguire il percorso logico-deduttivo del giudice di primo grado,
ignorando le argomentazioni critiche mosse dalla difesa, con particolare riferimento
alle modalità delle cessioni e ai quantitativi di stupefacente ceduti. In relazione alle
cessioni a Sodi, non si sarebbe considerato che, nelle conversazioni che le
riguardavano, si parlava di cani e non di stupefacenti; cani effettivamente detenuti
dall’imputata Di Buduo. In relazione le cessioni a Ribeiro, non si sarebbe considerato
che nelle conversazioni intercettate si parlava solo di birra e sigarette, nonché del
numero di clienti ricevuti dal transessuale Ribeiro. In relazione alle cessioni a
Saragosa, non si sarebbe considerata la totale mancanza di elementi criptici nelle
conversazioni intercettate. I riscontri testimoniali sarebbero, poi, privi di sufficienti
riferimenti spaziotennporali, perché dagli stessi emergerebbe solo che gli imputati
erano spacciatori e che i soggetti che risultavano quali acquirenti dalle indagini
avevano effettivamente acquistato stupefacenti.

Simona per l’estorsione ai danni di tale Marianini.

2.2.

Con la seconda censura, riferita alla posizione dell’imputata Turci, si

prospettano la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione quanto al
mancato riconoscimento dell’ipotesi di minore gravità di cui all’art. 73, comma 5, del
d.P.R. n. 309 del 1990. La Corte d’appello avrebbe fondato il suo convincimento sul
numero delle cessioni, senza considerare che, invece, l’imputata era stata condannata
per un unico episodio.
CONSIDERATO IN DIRITTO

3.1. – Il primo motivo di doglianza è inammissibile, perché formulato in modo
non sufficientemente specifico. I ricorrenti non contestano, infatti, di essere detentori
e spacciatori di droga né che le dichiarazioni testimoniali raccolte abbiano confermato
tale circostanza, con indicazione degli acquirenti, ma solo che tali dichiarazioni
sarebbero prive di sufficienti riferimenti spaziotemporali. Oltre a ciò, contestano
genericamente la valenza probatoria delle conversazioni intercettate, prospettando
una pretesa equivocità della terminologia utilizzata. Si tratta – con tutta evidenza – di
rilievi che non attengono a vizi logici o carenze del percorso motivazionale della
sentenza impugnata, perché non ne toccano il nucleo essenziale. In particolare, nei
ricorsi nulla si osserva circa l’elemento – correttamente ritenuto decisivo ai fini del
riconoscimento della responsabilità penale – costituito dagli arresti in flagranza dei tre
imputati della detenzione di sostanze stupefacenti, che si inscrivono nell’articolato
quadro delle intercettazioni telefoniche e dei puntuali riscontri testimoniali,
analiticamente descritto nella sentenza di primo grado e richiamato in quella d’appello.
3.2. – Il secondo motivo di doglianza – relativo al mancato riconoscimento
dell’ipotesi di minore gravità di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 in
relazione alla posizione dell’imputata Turci – è manifestamente infondato. La difesa
incentra la propria contestazione sul dato, smentito dagli atti di causa, che l’imputata
sarebbe stata protagonista di un solo episodio di cessione di stupefacenti, mentre la
stessa è stata condannata per tutti i fatti a lei ascritti; e, dunque, non assume alcuna
rilevanza la circostanza che il Tribunale non abbia proceduto agli aumenti per la
continuazione interna nella determinazione della pena. Del resto, secondo quanto
affermato dai giudici di primo e secondo grado, la Turci, arrestata in flagranza di
reato, era parte attiva del commercio di stupefacenti organizzato in forma familiare;
commercio che non poteva essere ritenuto di minore importanza, perché riguardava
diverse tipologie di sostanze stupefacenti e si basava su una pluralità di rapporti con i
fornitori.

3. – I ricorsi sono inammissibili.

4. – I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto
conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che,
nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il
ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod.
proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della
somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 1.000,00.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali e della somma di C 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2014.

P.Q.M.

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