Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33669 del 06/05/2014


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 33669 Anno 2014
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: DE CRESCIENZO UGO

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SOFRITTI EDDO N. IL 28/11/1936
avverso la sentenza n. 872/2012 CORTE APPELLO di BOLOGNA, del
11/07/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/05/2014 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. UGO DE CRESCIENZO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 4.–Ge
che ha concluso per

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor Avv.

c

Data Udienza: 06/05/2014

SOFFRITTI EDDO, tramite il difensore ricorre per Cassazione avverso la sentenza 11.7.2012 con la quale la Corte d’Appello di Bologna,
in parziale riforma della decisione 10.3.2011 del Tribunale di Ferrara,
riconosciuta la continuazione tra i fatti del presente procedimento penale e quelli di cui alla sentenza 6.2.2006 del Tribunale di Bologna,
ritenuto più grave il delitto di ricettazione di cui al capo a) del presente procedimento, lo ha condannato alla pena di anni sei, mesi tre di reclusione e 8.000,00 C di multa.
Il ricorrente chiede l’annullamento della decisione impugnata per i seguenti motivi, così sintetizzati ex art. 173 I° comma disp. att. cpp.:
§1.) Vizio di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 640 cp,
perché la Corte d’Appello ha affermato la penale responsabilità dell’imputato con riferimento al capo C) della rubrica, non essendovi la
prova che l’imputato avesse posto in essere artifici e raggiri; la difesa
sostiene che l’imputato si è limitato solo a pagare la merce acquistata
utilizzando un assegno postale (scoperto), senza peraltro formulare
vanterie o espressioni tali da indurre in errore la persona offesa, così
come erroneamente ritenuto dai giudici di merito che non hanno correttamente valutato il contenuto della deposizione della persona offesa.
§2.) Vizio di motivazione e lesione del diritto di difesa ex art. 606 I”
comma lett. d) cpp perché la Corte d’Appello non ha ritenuto di ammettere la richiesta di espletamento della prova antropometrica volta
ad accertare la identità tra le sembianze fisiche dell’imputato e la persona effigiata nei fotogrammi che costituiscono la prova della responsabilità per i fatti di cui ai capi E) ed F) della rubrica. La difesa in particolare afferma che il giudizio di somiglianza espresso dal giudice di
merito è insufficiente a fondare la dichiarazione di penale responsabilità.
§3.) vizio di motivazione e lesione del diritto di difesa ex art. 606 I”
comma lett. d), perché la Corte d’Appello non ritenuto di ammettere,
con riferimento al delitto di cui al capo G) una perizia grafologica sul
documento costituente “prova” della commissione del reato da parte
dell’imputato.
RITENUTO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato per le seguenti ragioni.
Il ricorrente con il primo motivo si duole dell’applicazione dell’art.
640 cp negli stessi termini già proposti alla Corte d’Appello che sul
punto ha dato risposta esauriente e specifica. La Corte territoriale afferma [pp. 7 ed 8 della sentenza impugnata] che l’imputato, presenta-

MOTIVI DELLA DECISIONE

CC

tosi nella gioielleria della persona offesa, non si è limitato a pagare
l’anello con pietre preziose tramite un assegno postale, esibendo la
propria carta di identità, ma ha anche dichiarato di essere un facoltoso
commerciante, così ponendo in essere “artifici” e “raggiri” idonei ad
indurre in errore la controparte carpendone la buona fede.
In diritto la decisione è corretta; infatti se il semplice pagamento effettuato mediante assegni privi di copertura non è sufficiente ad integrare la fattispecie di cui all’art. 640 cp, va diversamente valutata la suddetta condotta se accompagnata da un “quid pluris”, idoneo a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull’apparente onestà
delle intenzioni del soggetto attivo e sulla sua serietà negoziale [Cass.
n. 46890/2011] quali: l’atteggiamento volto a dimostrare una condizione di benessere e disponibilità economiche (anche utilizzando abbigliamento adeguato alla situazione), dando informazioni con riferimento ad acquisti simili già effettuati anche presso altri esercizi commerciali, dando informazioni sulla propria attività professionali simulando il compimento di attività (inesistenti) simili a quella del soggetto
circuito.
Nella specie, dalla sentenza di primo grado e da quella di appello (che
possono essere lette congiuntamente perché uniformi nell’apparato
argomentativo e omogenee nella valutazione delle prove: Cass. n.
1309/1993; Cass. n. 10163/2002; Cass. n. 5606/2007; Cass. n.
13926/2011; Cass. n. 44418/2013) si evince che l’imputato non si è
limitato a compiere il solo gesto del pagare la merce acquistata mediante un titolo di credito “scoperto” (così come sostiene la difesa),
ma ha compiuto ulteriori atti volti a trarre in inganno la parte offesa:
…per carpire il consenso della vittima, l’imputato vantò di disporre
di denaro, di fare il commerciante, di avere già compiuto nella stessa
giornata un precedente acquisto presso altra gioielleria (mostrò infatti la sportiva di altro negozio) e che non sarebbe riuscito ad andare in
banca poiché di pomeriggio gli istituti erano chiusi. Tutto ciò, unitamente all’impressione di persona distinta e ben vestita….” . Così risultando la situazione di fatto, la decisione dei giudici di merito di ritenere che l’imputato ha consumato un truffa (quale quella descritta al
capo C) è corretta in diritto avendo indicato in modo preciso e puntuale le condotte costituenti gli “artifici” e i “raggiri” che integrano la fattispecie descritta dall’art. 640 cp.
La difesa, richiamando il verbale dell’udienza del 29.6.2010, con
l’atto di appello ha sostenuto che la persona offesa mai avrebbe riferito di vanterie formulate da parte dell’imputato, concludendo che la
valutazione espressa dai giudici di merito sarebbe erronea.
La Corte d’Appello rispondendo in modo puntuale alla censura mossa,
ha nuovamente valutato il fatto ribadendo che l’imputato ha tenuto un
comportamento che supera la semplice consegna di un titolo di credito
“scoperto”.

La difesa ripropone la pertanto questione in questa sede negli stessi
termini con i quali l’aveva formulata con il gravame di merito. La
censura della difesa è pertanto inammissibile perché formulata in termini generici e all’esclusivo scopo di indurre una nuova valutazione
(preclusa nel giudizio di legittimità) delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
La doglianza della difesa non può quindi essere presa in considerazione sotto il profilo del difetto di motivazione (ex art. 606 I” comma lett.
e) cpp), avendo la Corte d’Appello risposto puntualmente alla doglianza.
Nè peraltro la medesima censura può essere presa in considerazione
sotto il diverso profilo (proposto dalla difesa) del vizio per “travisamento” della prova. Sul punto vanno premesse le seguenti necessarie
considerazioni.
Il vizio di travisamento della prova deducibile in cassazione, ai sensi
dell’art. 606 lett. e) cpp, può essere desunto non solo dal testo del
provvedimento impugnato ma anche da altri atti del processo specificamente indicati ed è configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando
si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia
[Cass. n. 47035/2013]; a ciò deve aggiungersi che il vizio di travisamento della prova dichiarativa, per essere deducibile in sede di legittimità, deve avere un oggetto defmito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco
della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia
inopinatamente tratto ed è pertanto da escludere che integri il suddetto
vizio un presunto errore nella valutazione del significato probatorio
della dichiarazione medesima [Cass. n. 9338/2013]. Inoltre il vizio di
travisamento della prova è ravvisabile quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l’essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta
“doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio [Cass. 24667/2007]. Sotto il profilo dei limiti posti
dalla giurisprudenza in ordine alla deducibilità del “travisamento” in
sede di legittimità, deve aggiungersi che il vizio può essere dedotto
nel caso di cosiddetta “doppia conforme” (come nella fattispecie concreta in esame), sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato
dati probatori non esaminati dal primo giudice [Cass. n. 4060/2013;
Cass. n. 5615/2013; Cass. n. 44765/2013], sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito ri-

spetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti
[Cass. 44765/2013 cit]. Infme va ancora considerato che la deduzione
del vizio di travisamento della prova impone al ricorrente un onere di
dimostrazione che è stato ben precisato e delineato in plurime decisioni volte a definire il principio di “autosufficienza” del ricorso. Infatti è
stato affermato che “Rispetta il principio di autosufficienza il ricorso
in cassazione che, denunciando il vizio di travisamento di una prova
testimoniale, dopo aver indicato la citazione saliente della prova operata dai giudici di merito, riporti, inserendola nel corpo del ricorso,
la riproduzione xerografica dello stralcio della trascrizione della testimonianza medesima, in modo da consentire l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto” [Cass. n. 25834/2012; Cass. n. 37892/2008; Cass.
n. 6112/2009; Cass. m. 33362/2010]. L’onere di allegazione imposto
al ricorrente dipende dalla struttura della doglianza. Infatti è necessario procedere alla trascrizione in ricorso dell’integrale contenuto degli
atti (ritenuti travisati), nei limiti di quanto dedotto, perché di essi è
precluso al giudice di legittimità l’esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso.
Passando quindi alla valutazione del caso in esame si deve osservare
che la formulazione della doglianza è in termini generici e del tutto
inammissibili per le seguenti ragioni.
La censura di travisamento riguarda una c.d. “doppia conforme”, con
la conseguenza che per la regola processuale affermata dalla giurisprudenza sovra richiamata, entrambi i giudici di merito hanno condotto la propria indagine sulla medesima fonte probatoria, valutata in
termini del tutto analoghi; la tesi della difesa, per i suoi contenuti, si
pone fuori dei limiti segnati dalla giurisprudenza, non avendo dimostrato la manifesta evidenza dell’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito sulla medesima prova utilizzata per giustificare l’affermazione della penale responsabilità in relazione al capo C). In particolare la difesa non ha fornito la prova che nella specie si tratti di un
travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili,
il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le
sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti [Cass. 44765/2013 cit].
Inoltre la difesa non ha assolto al dovere di allegazione dell’atto probatorio oggetto di travisamento e, trattandosi di prova a contenuto dichiarativo, non ha chiaramente ed esattamente definito il “punto” travisato. La doglianza è pertanto inammissibile perché formulata in termini del tutto generici e tali da impedire a questo giudice di legittimità
di condurre lo scrutino necessario della fondatezza della doglianza.
Per le suddette ragioni il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Il secondo e il terzo motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente attesa l’identità della questione dedotta in diritto.
Con entrambi i motivi la difesa si duole che la Corte d’Appello non
abbia rinnovato il dibattimento attraverso il compimento di due perizie: la prima di tipo antropometrico riferibile al delitto di cui ai capi e)
ed O e la seconda di tipo grafologico, riferita al capo g).
La Corte d’Appello rigettando entrambe le richieste ha affermato che
quanto richiesto dalla difesa non era indispensabile potendo decidere
le questioni proposte “allo stato degli atti” motivando sul punto in
modo del tutto adeguato e specifico ed indicando le ragioni le quali
non fosse indispensabile rinnovare parzialmente il dibattimento.
In diritto la decisione è corretta, posto che oltre ai principi di diritto,
correttamente richiamati dalla Corte d’Appello [pag. 8 della
decisione], deve aggiungersi che la decisione con la quale il giudice
respinge la richiesta di una perizia (ritenuta decisiva dalle parti) non è
censurabile ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc.
pen., perché quella decisione costituisce il risultato di un giudizio di
fatto che, in quanto sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile
in cassazione [Cass. 7444/2013 e in passato: Cass. 13086/1998; Cass.
n. 12027/1999; Cass. n. 14130/2007; Cass. n. 43562/2012 ove si sottolinea, secondo un costante indirizzo di legittimità che “La perizia non
rientra nella categoria della “prova decisiva” ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606, comma
primo, lett d), cod proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un
giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione”].
La motivazione del provvedimento impugnato sfugge alla censure
mosse ed è infine completamente priva di pregio la doglianza relativa
al contenuto del primo capoverso della pagina 9 della sentenza di appello ove afferma, tra l’altro che “….un errore nell’individuazione
della persona appare del tutto improbabile….”
Nella specie non si verte in un vizio di motivazione, trattandosi di
espediente argomentafivo esplicativo adoperato dall’estensore della
sentenza “per absurdum” ex se non incidente sulla validità logico
strutturale della motivazione globalmente considerata.
Per le suddette ragioni il ricorso è inammissibile e il ricorrente va
condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento della
somma di € 1.000,00 alla Cassa delle ammende, così equitativamente
determinata la sanzione amministrativa ricorrendo la responsabilià
prevista dall’art. 616 cpp.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 1.000,00 alla Cassa delle
ammende.

Così deciso in Roma il 6.5.2014

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