Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33350 del 16/05/2013


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Penale Sent. Sez. 2 Num. 33350 Anno 2013
Presidente: CAMMINO MATILDE
Relatore: VERGA GIOVANNA

SENTENZA

sul ricorso propost9 da:
GRECO GIUSEPPE N. IL 20/10/1948
avverso la sentenza n. 870/2011 CORTE APPELLO di LECCE, del
05/03/2012
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/05/2013 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
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che ha concluso per ; e

Udito, per la parte civile, l’A vv
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Data Udienza: 16/05/2013

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con sentenza in data 5 marzo 2012 la corte d’appello di Lecce confermava la sentenza del
locale tribunale che in data 14 gennaio 2011 aveva condannato Greco Giuseppe per il reato di
usura aggravata in danno di Rizzello Pasquale e Pezzuto Francesco.
Ricorre per Cassazione l’imputato a mezzo del suo difensore denunciando:
1. con riguardo all’usura in danno di Rizzano Pasquale
travisamento della prova in quanto nell’impugnata sentenza si legge che rafforza
l’ipotesi accusatoria la circostanza che il consulente Dott. Bellantone abbia riferito di
aver effettuato i calcoli per ricostruire i rapporti fra le parti private in base alle
dichiarazioni rese dal Greco in fase di indagini, quando in realtà l’imputato non è
mai stato ascoltato nella fase delle indagini preliminari, non è stato sottoposto
all’esame nel corso del dibattimento e non ha mai reso spontanee dichiarazioni.
Contesta anche l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal Corvaglia che, dopo aver
rilasciato dichiarazioni accusatorie nella fase dell’indagine e dopo essere stato
attinto nel corso del dibattimento da indizi di reità, ha optato per l’esercizio della
facoltà di non rispondere. Ritiene il ricorrente che tali dichiarazioni non possono
essere utilizzate neppure indirettamente per il tramite della consulenza sopra
indicata ;
1.2.

mancanza di motivazione in ordine alla ricostruzione alternativa sostenuta dalla
difesa attraverso deduzioni difensive non esaminate dalla corte territoriale;

1.3.

erronea applicazione di legge in ordine alla qualificazione dei fatti come usura ;

2. con riguardo all’usura in danno di Pezzuto Francesco :
2.1.

mancanza di motivazione in ordine alla ricostruzione alternativa sostenuta dalla
difesa attraverso deduzioni difensive non esaminate dalla corte territoriale;

2.2. erronea applicazione di legge in ordine all’elemento oggettivo e soggettivo del reato
di usura. ( —ostiene che nel caso in esame non è utilizzabile il concetto di usura,
trattandosi di clausola penale ex articolo 1382 codice civile perfettamente lecita in
quanto prevista dall’ordinamento giuridico
2.3.

mancanza di motivazione. Censura il ricorrente l’operato del tribunale reo di aver
violato i diritti di Cui all’articolo 499 codice di procedura penale, per aver formulato
domande suggestive alla parte offesa Pezzuto che hanno completamente alterato il
risultato probatorio

Il motivo sub 1.1 deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 606 c. 3 C.P.P. posto
che la violazione denunziata in questa sede di legittimità non è stata dedotta innanzi alla Corte
di Appello avverso la cui sentenza è ricorso ed è quindi questione nuova.
Questa Corte (Cass. Sez. 4^, 18/05/1994 – 13/07/1994, n. 7985) ha infatti affermato che
sussiste violazione del divieto di “novum” nel giudizio di legittimità quando siano per la prima

1.1.

volta prospettate in detta sede questioni, come quella in esame, coinvolgenti valutazioni in
fatto, mai prima sollevate.
Con i motivi sub 1.2 e 2.1 si duole genericamente il ricorrente del mancato esame di elementi,
di segno contrario, idonei a smentire la tesi accusatoria, sottolineando come i fatti si
prestassero ad una soluzione alternativa.
I motivi sono manifestamente infondat6. Deve premettersi che in sede di legittimità non è
censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col

complessivamente considerata. Per la validità della decisione non è infatti necessario che il
giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi
difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza
evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva
implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Qualora il provvedimento
indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese
determinanti per la formazione del convincimento del giudice, in modo da consentire
l’individuazione dell’iter logico – giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non
vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione (Cass. Pen. Sez. 5,
2459/2000; Cass Sez. 2 N. 29439/2004; Cass Sez.2 n.29439/2009),
Il giudice di merito non è infetti tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni
delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo
invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e
risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo
convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Devono, infatti,
considerarsi implicitamente chattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente
confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Nel caso in esame il giudice d’appello ha dato espressamente conto di avere esaminato in
maniera specifica le censure proposte e di essere pervenuto alla conclusione, con motivazione
coerente e priva di vizi logici, che non vi era spazio per un’alternativa diversa da quella
sostenuta nella sentenza impugnata.
In questa sede il ricorrente, attraverso il vizio dell’omessa motivazione, non solo ha reiterato
le doglianze già esposte con i motivi d’appello che la Corte di merito aveva debitamente
disatteso, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben
individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. In proposito il
Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della c.d.
“autosufficienza” del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti
processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del
ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione
dell’integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente
nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l’esame
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gravame, quando la stessa è stata disattesa dalla motivazione della sentenza

diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all’evidenza
dalla stessa articolazione del ricorso (cfr. Cass. n. 20344/06; Cass. n. 20370/06; Cass. n.

47499/07; Cass. n. 16706/08)
Al giudice di legittimità resta infatti tuttora preclusa – in sede di controllo della motivazione – la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione del fatti, preferiti a quelli adottati dal
giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità

del fatto. Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della
motivazione.
Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo sjzsoso materiale probatorio
già sottoposto al tribunale e i dopo avere preso atto delle censure 1:1 7e11 appellanti, è giunto alla
usura
medesima conclusione circa la sussistenza dei reati di ierrzgmta=m contestati. A fronte di
tale motivazione il ricorrente prospetta una diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, che
non può trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza, come quella
impugnata, che appare cangruamente e coerentemente motivata proprio in punto di
responsabilità deplí ricorrente per tuttiO;mead contestati. Le considerazioni esposte valgono
anche per il motivo sub 1.3 con il quale la difesa lamenta genericamente il mancato
accoglimento della versione alternativa sollevata con il motivo sub. 1.2-E)
Il motivo sub. 2.2 deve essere dichiarato inammissibile, giacché la doglianza in esso dedotta è
manifestamente infondata e ripropone le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal
giudice del gravame, dovendosi la stessa considerare, per di più, non specifica. La mancanza di
specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come
indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla
decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo
ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità,
conducente a mente dell’art. 591 cod. proc. pen., comma primo, lett. c), all’inammissibilità.
Nel caso in esame il giudice d’appello non si è limitato a richiamare la sentenza di primo grado

esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice

che aveva già confutato tali doglianze, ma ha dato espressamente conto di avere esaminato in
maniera specifica le censure in esame e di essere pervenuto alla conclusione, che non vi era
spazio per un’alternativa diversa da quella sostenuta nella sentenza impugnata. Ha affermato
infatti che è risultato dimostrato dagli atti processuali come a fronte di un prestito di euro
6000,00 il Pezzutea avrebbe dovuto restituire la somma di complessivi euro 7500,00 in tre

tranc1,6 da euro 2500,00 l’una, sicchè l’assegno di tale importo, rinvenuto unitamente a quello
di euro 6000,00 a garanzia del pagamento era la prova che alle singole scadenze il Pezzuto
avrebbe dovuto versare detto importo di euro 2500,00, e che in caso di omissione l’imputato
avrebbe messo all’incasso l’assegno anzidetto, costituendo invece quello di euro 6000,00 la
garanzia della restituzione del capitale prestato, che sarebbe stato restituito all’avvenuta
estinzione del debito. Deve aggiungersi che le argomentazioni esposte nel motivo in esame si
3

Iv

risolvono in generiche censure in punto di fatto che tendono unicamente a prospettare una
diversa ed alternativa lettura dei fatti di causa, ma che non possono trovare ingresso in questa
sede di legittimità a fronte di una sentenza che appare congruamente e coerentemente
motivata proprio in punto di sussistenza del reato.
Con il motivo sub 2.3 il ricorrente si duole del modo di conduzione del dibattimento di primo
grado da parte del presidente del collegio, che avrebbe condizionato la deposizione
testimoniale della parte offesa mediante domande suggestive che avrebbero alterato il risultato

A parte l’assoluta genericità della doglianza – che non specifica le singole situazioni in cui il
preteso condizionamento sarebbe avvenuto, in che cosa esso sarebbe consistito e quale
incidenza avrebbe concretamente avuto, considerato che la corte territoriale ha affermato che
le risultanze documentali complessive acquisite al processo hanno dato atto della sussistenza
del reato e della responsabiiità dell’imputato con la conseguenza che l’ ipotesi accusatoria è
risultata ampiamente confermata a prescindere dal contenuto delle dichiarazioni rese dalla
parte offesa Pezzuter in dibattimento – deve comunque rilevarsi che la violazione della
disposizione di cui all’art. 506 c.p.p. (di cui implicitamente si lamenta l’inosservanza) non è
sanzionata a pena di nullità e che ogni eventuale questione attinente alla conduzione del
processo deve essere immediatamente contestata dalle parti e formalizzata incidentalmente
nel corso del dibattimento. La decisione sull’incidente, o la mancanza di decisione su di esso,
può assumere rilevanza nel giudizio di impugnazione in tanto in quanto venga verificato che la
decisione (o la mancata decisione) abbia comportato la lesione dei diritti delle parti o abbia
viziato la decisione.
Non essendo stato proposto alcun incidente, la doglianza non può essere presa in
considerazione. (Cfr. Cass Sez. 6, Sentenza n. 909 del 18/11/1999 Ud. (dep. 27/01/2000)
Rv. 216626) .
Il ricorso è pertanto inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle
spese processuali e della somma di C 1000,00 da versare alla Cassa delle Ammende.

Dichiara inammissibile il ricorso condanna il ricorrenttal pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1000,00 alla Cassa delle Ammende.
Così deliberato in Roma il 16.5.2013
Il Consigliere estensore
Giovanna VERGA

Il Presidente
Matilde Cammino

probatorio

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