Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33308 del 28/11/2012


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Penale Sent. Sez. 3 Num. 33308 Anno 2013
Presidente: MANNINO SAVERIO FELICE
Relatore: SAVINO MARIAPIA GAETANA

Data Udienza: 28/11/2012

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
NGUER NDIASSE N. IL 20/07/1971
avverso la sentenza n. 157/2010 CORTE APPELLO di LECCE, del
23/11/2011
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA del 28/11/2012 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARIAPIA GAETANA SAVINO
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott.
che ha concluso per e

Udito, per la parte civile, l’Avv
Udit i difensor

e9g-n

e-09-.4—

Con sentenza emessa in data 9 luglio 2009 il Tribunale di Lecce dichiarava Nguer Ndiasse e Seye
Mohamed responsabili dei reati di cui agli artt. 81 co. 2 c.p., art. 171 ter 1. 633/1941, 474 e 648 c.p.
e li condannava alla pena di anni 4 di reclusione e di 1.000,00 euro ciascuno di multa oltre alle
spese del procedimento. Ordinava inoltre la confisca e la distruzione di quanto sequestrato e la
pubblicazione della sentenza su un quotidiano e su un periodico.
L’imputazione trae origine dal seguente episodio: in data 21 giugno 2004 la macchina guidata da
Nguer Ndiasse con a bordo Seye Mohamed e Samb Mameky (minorenne) veniva fermata da una
volante della polizia. Gli agenti di polizia rinvenivano nel portabagagli un borsone contenente 193
CD musicali di vari artisti, 33 DVD di opere cinematografiche di ultima programmazione e 40 paia
di occhiali di diverse marche. Ritrovava, inoltre, nel borsello di Seye Mohamed un block notes su
cui era riportata una rudimentale contabilità relativa alla compravendita dei CD e dei DVD.
Individuata l’abitazione dove i tre risiedevano sulla base di quanto dagli stessi dichiarato, gli agenti
vi si recavano rinvenendo dei capienti borsoni posizionati sotto il letto di pertinenza di ciascuno e
contenenti vario materiale contraffatto. In particolare il borsone di Nguer conteneva 187 CD, 70
DVD e 120 paia di occhiali da sole.
Proposto appello dal solo difensore di Nguer Ndiasse, la Corte di appello di Lecce, in parziale
riforma della sentenza di primo grado, assolveva lo stesso dal reato di cui all’art. 171 ter lett. d
perché contestato in fatto nella più ampia imputazione di cui in rubrica ed eliminava il relativo
aumento di pena. Rideterminava, quindi, la pena a carico del Nguer in relazione ai residui reati di
cui all’art. 171 ter lett. c 1. 633/1941, 648 e 474 c.p. in anni 2 e mesi 3 di reclusione e 900,00 euro di
multa. Confermava nel resto la sentenza di primo grado.
Avverso tale pronuncia ha presentato ricorso per cassazione il difensore di Nguer Ndiasse per i
seguenti motivi:
1) Violazione degli artt. 110, 648 e 474 c.p. dell’art. 171 ter 1. 633/41 nonché dell’art. 530 c.p.p. In
particolare la difesa lamenta il difetto di elementi di prova atti a supportare una pronuncia di
condanna e la illogicità e contraddittorietà della motivazione in punto di responsabilità
dell’ imputato.
2) Violazione dell’art. 530 c,p.p. in relazione all’art. 171 ter 1. 633/1941 e 474 c.p. nonché
violazione dell’art. 40 e seguenti c.p. Con tale secondo motivo il ricorrente rileva la mancanza di
prove di una reale offensività della condotta dell’imputato sia in relazione al contestato art. 474 sia
il relazione all’art. 171 ter.
3) Violazione di legge per errata applicazione dell’art. 648 c.p. Omessa considerazione della
applicabilità degli artt. 5 e 47 c.p. In particolare la difesa lamenta la totale assenza di prove della
provenienza delittuosa delle cose sequestrate presupposto imprescindibile della ricettazione. Il
ricorrente precisa, infatti, che Ia commercializzazione di cose contraffatte non può essere reato
presupposto della ricettazione dal momento che si tratta di reati in rapporto di specialità ex art. 15
c.p. Infine si invoca l’errore scusabile sul precetto dovuto ad errore dell’imputato — soggetto di
condizioni economiche e sociali “non agiate”— circa l’esistenza di una disciplina che vieta la
commercializzazione di beni con griffe contraffatte.

Ritenuto in fatto

1. In via preliminare ed in patte assorbente delle doglianze mosse dal ricorrente occorre dichiarare
l’intervenuta prescrizione del reato di cui all’art. 474 c.p. Dalla sentenza impugnata, infatti, risulta
che i fatti di cui è causa sono ,stati accertati in data 2 giugno 2004. Trattandosi di delitto per cui la
legge stabilisce la pena della detenzione da uno a quattro anni, considerato un periodo complessivo
di mesi tre di sospensione risultante dagli atti — dal 9 aprile 2009 al 9 luglio 2009 — il termine di
prescrizione è spirato in data 30 marzo 2012.
In proposito merita richiamare i principi più volte affermati da questa stessa Corte in materia di
prescrizione in virtù dei quali in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è
legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 co. 2 c.p.p. soltanto qualora le
circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte
dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile,
in modo tale che la valutazione richiesta al giudice risulti più vicina al concetto di “constatazione”,
ossia di percezione “ictu acuii”, che a quello di “apprezzamento” e sia, quindi, incompatibile con
qualsiasi necessità di ulteriori accertamenti.
2. Ciò premesso merita soffermarsi sui singoli motivi di doglianza. In particolare, il primo motivo
con cui si rileva il difetto di elementi di prova atti a supportare una pronuncia di condanna e la
illogicità e contraddittorietà della motivazione in punto di responsabilità dell’imputato è infondato e
va rigettato. Si tratta, infatti, di doglianze già fatte valere in appello e poi riproposte dalla difesa in
sede di legittimità senza effettuare una precisa critica alla sentenza di secondo grado ma
riproponendo argomenti analoghi a quelli già sviluppati nell’atto di appello e sui quali la corte di
appello si è ampiamente soffermata nel confermare la penale responsabilità dell’imputato in
relazione ai reati di cui agli artt. 648, 474 e 171 ter. Inoltre le censure mosse dalla difesa richiedono
la valutazione di aspetti fattuali: dunque un apprezzamento per sua natura sottratta al sindacato di
questa Corte.
In particolare, il ricorrente lamenta la illogicità delle argomentazioni che sono state poste dai giudici
di merito a sostegno della ritenuta appartenenza del materiale in questione a Nguer Ndiasse. A detta
del ricorrente la motivazione sul punto sarebbe illogica e la ritenuta appartenenza dei CD, DVD e
occhiali all’imputato nonché la loro detenzione a fini di vendita non sarebbero sorrette da alcun
attendibile dato probatorio. Al contrario, le argomentazioni impiegate dal giudice di secondo grado
sono del tutto coerenti, logiche e basate su circostanze del tutto fondate. Soprattutto con riguardo
alla appartenenza dei borsoni ai tre predetti soggetti, il giudice di appello sottolinea come gli agenti
di polizia individuarono la camera della casa ove i tre dormivano sulla base di foto ivi esposte che li
ritraevano e della presenza di documenti ed affetti personali dei tre. Peraltro davanti ai letti di
ciascuno di loro si trovava un borsone e ritenere che ogni borsone appartenesse all’occupante del
letto non è irragionevole, come sostiene il ricorrente, ma risponde all’id quod plerumque aceidit : di
solito si usa porre le proprie cose nelle vicinanze della zona di propria pertinenza all’interno di uno
spazio condiviso. Dunque sotto tale profilo la sentenza di appello appare conforme all’alt. 530 e
perfettamente motivata.
3. Anche il secondo motivo di ricorso appare infondato e deve essere rigettato. Con tale motivo si
contesta, infatti, la mancanza di prove di una reale offensività della condotta dell’imputato sia in
relazione al contestato art. 474 — ormai prescritto — sia il relazione all’art. 171 ter 1. 633/1941. Nel
2

Ritenuto in diritto

P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato per essere il reato di cui all’art. 474 c.p. estinto
per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione ed euro 200,00 di multa.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, in data 28 novembre 2012.

primo caso, infatti, il marchio era contraffatto in maniera così grossolana da far venir meno ogni
pericolo per il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice: la fede pubblica. Nel secondo
caso si invoca la sentenza Scwibbert della Corte CEDU in base alla quale la mancata apposizione
del bollino SIAE non costituisce di per sé reato in quanto non vi è nessuna norma che la impone.
Sul punto la Corte di appello ha precisato che “quel che rileva è che la duplicazione sia abusiva,
vale a dire in assenza di accordo con l’autore sia questi iscritto o meno alla SIAE che dell’opera
dell’ingegno ha diritto di disporre. E nel caso di specie non risulta affatto che l’imputato fosse
autorizzato allo sfruttamento dell’altrui opera dell’ingegno”. Così come per il giudice di seconde
cure nessuna valenza può attribuirsi alla non opponibilità ai privati della normativa sul contrassegno
SIAE per effetto della mancata comunicazione della stessa all’epoca dei fatti alla Commissione
Europea in adempimento della normativa relativa alle regole tecniche. Tale normativa, precisa il
giudice di appello, deve intendersi circoscritta ai soli reati caratterizzati dalla sola mancanza del
contrassegno suddetto, mentre continua ad essere vietata e penalmente rilevante qualsiasi attività
che comporti l’abusiva diffusione, riproduzione o contraffazione delle opere dell’ingegno (vedi
Cass. Sez. III, 34555/2008 Cissoko). Dunque il reato di cui all’art. 171 ter lett. c 1. 633/1941 deve
ritenersi pienamente integrato.
4. Al pari infondato risulta anche il terzo ed ultimo motivo di doglianza con cui il ricorrente lamenta
l’errata applicazione dell’art. 648 c.p. e l’omessa considerazione della applicabilità degli artt. 5 e 47
c.p. In particolare il ricorrente rileva la totale assenza di prove della provenienza delittuosa delle
cose sequestrate presupposto imprescindibile della ricettazione precisando che la
commercializzazione di cose contraffatte non può essere reato presupposto della ricettazione dal
momento che si tratta di reati in rapporto di specialità ex art. 15 c.p. Inoltre la difesa invoca l’errore
scusabile sul precetto dovuto ad errore dell’imputato — soggetto di condizioni economiche e sociali
“non agiate”— circa l’ esistenga di una disciplina che vieta la commercializzazione di beni con griffe
contraffatte.
Il motivo è infondato perché in parte si tratta della pedissequa ed acritica riproposizione dei motivi
di appello ed in parte attiene aspetti di merito — cioè quelli necessari per valutare l’eventuale
sussistenza di un errore incolpevole — sottratti al sindacato di mera legittimità di questa Corte.

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