Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33278 del 07/05/2013


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Penale Sent. Sez. 1 Num. 33278 Anno 2013
Presidente: GIORDANO UMBERTO
Relatore: LA POSTA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
SCHIAVONE ALBERTO N. IL 07/03/1965
avverso l’ordinanza n. 887/2005 GIP TRIBUNALE di MILANO, del
17/05/2011
sentita la r1azionefatta dal Consigliere Dott. LUCIA LA POSTA;
lette/se ite le conclusioni del PG Dott.
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Uditi dife or Avv.;

Data Udienza: 07/05/2013

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Gip del Tribunale di Milano, quale
giudice dell’esecuzione, accoglieva parzialmente l’istanza avanzata da Alberto
Schiavone applicando la disciplina del reato continuato, ex art. 671 cod. proc.
pen., in relazione ai reati giudicati con le sentenze indicate ai numeri 2) e 3) del
provvedimento, e rigettando la richiesta con riferimento ai reati giudicati con la
sentenza indicata al punto n. 1).

Milano, relativi alla fittizia vendita immobiliare”, di cui alla sentenza del punto 1),
non avevano alcun elemento in comune,quanto alle modalità esecutive, ai
partecipi ed al luogo di commissione del reato, con le vicende relative ai fatti
giudicati con le sentenze di cui ai punti nn. 2) e 3) che si sostanziano nella
ricettazione di titoli rubati in parte nel medesimo periodo e nella medesima area
geografica.

2.

Avverso la citata ordinanza ha proposto ricorso, personalmente, il

condannato deducendo la violazione di legge ed il vizio della motivazione
rilevando, in primo luogo, che il giudice dell’esecuzione ha errato nel ritenere la
continuazione tra i fatti di cui alla sentenza indicata al n. 3) e quelli della
sentenza n. 2), atteso che quest’ultima riguarda il reato di ricettazione
commesso il 24.3.2002 che risulta tra quelli giudicati con la sentenza indicata al
punto 3). Pertanto, il giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto eliminare la pena
relativa al reato già giudicato.
Deduce, altresì, il vizio di motivazione avuto riguardo al rigetto della
continuazione tra i fatti di cui alla sentenza n. 1) e quelli di cui alla sentenza n.
3), trattandosi di reati omogenei commessi in un ristretto arco temporale.
Con nota depositata in data 24.4.2013 il ricorrente ha proposto motivi nuovi
con i quali ribadisce le medesime doglianze, anche alla luce delle conclusioni
scritte del Procuratore generale presso questa Corte, etafferma che la violazione
del divieto di bis in idem può essere dedotta per la prima volta dinanzi al giudice
di legittimità.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, ad avviso del Collegio, è inammissibile.

1. E’ manifestamente infondato il primo motivo di ricorso, atteso che
l’istante non aveva in alcun modo dedotto al giudice dell’esecuzione la violazione
del divieto di bis in idem sul quale, pertanto, il giudice non era tenuto a
pronunciarsi.
2

Rilevava, a ragione, che i reati di falso e tentata truffa i commessi in Cantù e

Né, all’evidenza, questa Corte può sostituirsi al giudice dell’esecuzione nella
valutazione della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 649 cod. proc. pen. in
mancanza di qualsivoglia allegazione sul punto del ricorrente e tenuto conto che,
nella specie, si imporrebbe la rideterminazione della entità della pena che
compete al giudice di merito.
2. Manifestamente infondato è, altresì, il dedotto vizio di motivazione avuto

riguardo al rigetto della continuazione tra i fatti di cui alla sentenza n. 1) e quelli
di cui alla sentenza n. 3).
di applicare in executivis l’istituto della continuazione e di rideterminare le pene
inflitte per i reati separatamente giudicati con sentenze irrevocabili secondo i
criteri dettati dall’art. 81 cod. pen. e la decisione del giudice di merito, se
congruamente motivata, non è sindacabile in sede di legittimità (Sez. 5,
7.5.1992, n. 1060, Di Camillo, riv. 189980; Sez. 1, 7.7.1994, n. 2229, Caterino,
riv. 198420; Sez. 1, 30.1.1995, n. 5518, Montagna, riv. 200212).
Nella specie, le doglianze del ricorrente, alla luce della motivazione del
provvedimento impugnato, si risolvono nella mera riproposizione delle
argomentazioni sulle quale era fondata la richiesta che sono state
compiutamente valutate dal giudice dell’esecuzione con motivazione immune da
vizi di coerenza e di logicità.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di
elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di una
sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in euro mille, ai sensi dell’
art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento della somma di euro mille in favore della
cassa della ammende.
Così deciso, il 7 maggio 2013.

Come è noto, infatti, l’art. 671 cod. proc. pen. attribuisce al giudice il potere

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