Sentenza Sentenza Cassazione Penale n. 33178 del 04/03/2014


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Penale Sent. Sez. 5 Num. 33178 Anno 2014
Presidente: LOMBARDI ALFREDO MARIA
Relatore: GUARDIANO ALFREDO

SENTENZA

sul ricorso proposto da Torrisi Giovanni, nato a Caltanissetta il
14.4.1957, avverso la sentenza pronunciata dalla corte di appello di
Catania il 18.4. 2013;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Alfredo Guardiano;
udito il pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore
generale Eugenio Selvaggi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente il difensore di fiducia, avv. Sergio Chiarenza, del
Foro di Catania, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTO E DIRITTO

Con sentenza pronunciata il 18.4.2013 la corte di appello di Catania
confermava la sentenza con cui il tribunale di Catania, in data 21.4.2004

Data Udienza: 04/03/2014

è,

aveva condannato Torrisi Giovanni, nella sua qualità di amministratore e
legale rappresentante della società “Etna Bar s.r.l.”, dichiarata fallita con
sentenza del tribunale di Catania del 17.7.1998, alle pene, principale ed
accessorie, ritenute di giustizia, in relazione al delitto di cui all’art. 216,
co. 1, n. 2), I. fall.
2.

Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede

l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando: 1)
violazione di legge, in relazione alla ritenuta bancarotta fraudolenta
documentale, che non può desumersi dalla irregolare tenuta della
contabilità, essendo necessario dimostrare che tale irregolare tenuta sia
intenzionalmente finalizzata ad arrecare danno ai creditori, danno, nel
caso in esame, del tutto inesistente, per cui nella condotta dell’imputato
possono ravvisarsi, tutt’al più gli estremi del delitto meno grave di
bancarotta documentale semplice; 2) violazione di legge e vizio di
motivazione della sentenza impugnata, per avere la corte territoriale
omesso di fornire adeguata risposta alla doglianza difensiva, prospettata
nei motivi di appello, secondo cui il Torrisi non può ritenersi responsabile
del delitto in addebito, non avendo egli mai rivestito la carica di
amministratore della società fallita, in quanto, in virtù di contratto di
cessione di ramo di azienda, sin dal 30.6.2008, come documentalmente
provato, era stata ceduta a terzi l’azienda e la sua gestione.
3. Il ricorso non può essere accolto.
4. Infondato appare, innanzitutto, il primo motivo di ricorso.
Ed invero va preliminarmente osservato che, come affermato da un
costante e condivisibile orientamento della Suprema Corte, in tema di
bancarotta fraudolenta documentale, per la integrazione del reato di cui
alla seconda ipotesi dell’art. 216, co. 1, n. 2), r.d. 16 marzo 1942 n.
267, ravvisabile nella condotta, pacificamente verificatasi nel caso in
esame, tanto da non formare oggetto di contestazione da parte del
ricorrente, dell’aver tenuto i libri e le altre scritture contabili in modo tale
da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio della società o
del movimento degli affari, è sufficiente il dolo generico, ossia la

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l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione

consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà
rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio, considerato che la
locuzione “in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del
patrimonio o del movimento degli affari”, formulata appunto in relazione
alla fattispecie della irregolare tenuta delle scritture contabili, connota la
condotta e non la volontà dell’agente, sicché è da escludere che configuri

ottenere l’effetto di impedire quella ricostruzione.
Proprio nell’elemento psicologico del reato va individuata la differenza
tra la bancarotta fraudolenta documentale e quella semplice, prevista
dall’art. 217, comma 2, I. fall., che, nel primo caso, è rappresentato dal
dolo generico, cioè dalla coscienza e volontà dell’irregolare tenuta delle
scritture con la consapevolezza che ciò renderà o potrà rendere
impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio
dell’imprenditore e, nel secondo caso, dal dolo o indifferentemente dalla
colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta, rispettivamente, con
coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture
(cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 23/05/2012, n. 30337).
In questa prospettiva è sufficiente la consapevolezza della tenuta
irregolare delle scritture contabili per configurare il reato di bancarotta
fraudolenta documentale, mentre, a differenza di quanto affermato dal
ricorrente, risulta del tutto irrilevante non aver causato danni ai
creditori, in quanto per addebitare il reato in parola si richiede
esclusivamente, sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza e volontà,
da parte dell’amministratore, di tenere una contabilità del tutto inidonea
a consentire al curatore la ricostruzione dei rapporti societari (cfr. Cass.,
sez. V, 20/05/2011, n. 39594).
Peraltro, nel caso in esame, la corte territoriale, con motivazione
approfondita ed immune da vizi, ha evidenziato come la sussistenza
dell’elemento psicologico del reato, nei termini in precedenza indicati, si
deduce agevolmente non solo dalla circostanza che il Torrisi non ha
fornito agli organi del fallimento né le scritture contabili, né qualsivoglia
“pezza di appoggio” che potesse consentire la ricostruzione delle vicende

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il dolo specifico, ossia che sia necessaria la specifica volontà indirizzata a

del patrimonio della società fallita, ma anche dal fatto che egli aveva
tentato, in prossimità della dichiarazione di fallimento, di effettuare una
formale cessione dell’attività alla figlia Erika Torrisi, facendone decorrere
gli effetti alla data (19.3.1998), corrispondente a quella di assunzione da
parte sua della carica di amministratore unico della società fallita (cfr.
pp. 5 e 6 della sentenza oggetto di ricorso).

La corte territoriale, infatti, come si evince dalla motivazione della
sentenza complessivamente considerata (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I,
22.5.2013, n. 27825, rv. 256340), ha implicitamente rigettato il rilievo
difensivo sul punto, ritenendo il Torrisi amministratore unico della “Etna
Bar s.r.l.” dal 31 marzo 1998 fino alla data del fallimento.
Tale circostanza, del resto, emerge con assoluta chiarezza dalla sentenza
di primo grado, alla cui motivazione è possibile accedere in questa sede,
formando essa, con quella di secondo grado, un prodotto uniforme,
essendo entrambe le decisioni sorrette da un apparato argonnentativo
uniforme.
Il giudice di primo grado, infatti, nel descrivere le vicende dell’esercizio
commerciale “Etna Bar”, ha evidenziato come nel 1990 era stata
costituita la s.r.I., con il Torrisi Paolo amministratore unico sino al 31
marzo del 1998, quando venne sostituito dal Torrisi Giovanni Carlo, il
quale, in tale veste, ha posto in essere condotte significative, come il
deposito, su richiesta del curatore fallimentare, nell’ottobre del 1998, del
bilancio relativo all’anno finanziario conclusosi al 31.12.1997 e le
scritture contabili con annotazioni fino al 31.3.1997; la stipula di un
contratto avente ad oggetto la gestione dell’esercizio commerciale, data
in locazione alla figlia; il pagamento di alcuni creditori. (cfr. pp. 3-4 della
sentenza di primo grado).
Sicché non può sostenersi, come affermato dal ricorrente, peraltro del
tutto genericamente, che in virtù del contratto di cessione del ramo
d’azienda il Torrisi non abbia mai rivestito la qualifica di amministratore
unico della società fallita.

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4.1. Infondato appare anche il secondo motivo di ricorso.

5. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso va, dunque, rigettato,
con condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al
pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali.

Così deciso in Roma il 4.3.2014

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